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Con un’indignazione più che giustificata ad alimentare il suo passo marziale, Belle si allontanò dalla palazzina di Oliver. Fremendo in silenzio, notò a malapena il solito viavai di persone, veicoli e animali per le strade della città, né prestò attenzione al sole che splendeva alto nel cielo o al sudore che le colava lungo la schiena. L’unica cosa a cui riusciva a pensare era che alla fine sarebbe sicuramente andata a Sydney, lasciandosi tutto il resto alle spalle – lasciandosi lui alle spalle – ormai certa che fosse l’unica soluzione possibile.

Quando ritrovò la calma, si guardò attorno e scoprì di essere finita in una zona che non conosceva, piena di vicoletti angusti. E si dovette fermare perché un gruppetto di birmani, che indossavano soltanto delle gonne, le ostruiva il passaggio. Un uomo stava disegnando dei simboli neri sul petto nudo di un compagno e altri attendevano in fila il loro turno, ansiosi di farsi adornare. Presi com’erano da quella strana attività, non prestarono alcuna attenzione a Belle. Quando anche altri uomini si unirono al gruppo, Belle li aggirò con cautela e imboccò quella che sperava fosse la strada giusta per arrivare al segretariato. Voleva trovare Edward per dirgli che era lieta di accettare Clayton Rivers come suo agente.

Quando fece una brusca svolta per girare un angolo e si incamminò verso un incrocio, udì un suono cadenzato e vibrante. Cos’era quello strano rumore? Rimase ferma immobile ad ascoltare i tonfi sordi, poi tutto le apparve chiaro. Passi di marcia. Stava ascoltando delle persone che marciavano. E qualche istante dopo apparvero decine di birmani armati di spade, spranghe di ferro e asce. «Gesù», sussurrò. Cosa diamine stava succedendo? Girò su se stessa, cercando di capire quale fosse la via di fuga migliore, ma gli uomini sembravano ormai riversarsi in strada da ogni direzione. In un lampo, capì di essere in trappola. Con il cuore che batteva all’impazzata e la paura che le toglieva il respiro, si appiattì contro un androne. Mentre osservava la scena, le dimensioni della calca triplicarono e un’enorme quantità di uomini avanzava rumorosamente verso di lei.

Inchiodata sul posto, provò a urlare. Non uscì alcun suono. Voleva muoversi a tutti i costi, ma, quando si guardò attorno, non riuscì a trovare alcuna scappatoia. Chiuse con forza gli occhi nel vano tentativo di cancellare quella visione pietrificante. Decine di uomini intenzionati ad aggredirla stavano brandendo le loro armi mentre gesticolavano e urlavano. Marciavano. Battevano i piedi. Incredula e sotto shock, Belle era rimasta paralizzata. La sua vita sarebbe davvero finita così? L’avrebbero picchiata a morte all’angolo di una strada? Avrebbe disperatamente voluto vedere sua madre, suo padre, chiunque giungere in soccorso, ma non poté far altro che un respiro tremante e terrorizzato in attesa che si compisse il suo destino.

Visto che dopo alcuni istanti nessuno l’aveva ancora toccata, aprì gli occhi e si rese conto che gli uomini in testa al drappello avevano cominciato a tempestare di pugni il portone e le finestre di una casa più avanti, a due porte di distanza dall’androne in cui si era rannicchiata lei. Ricordava vagamente che le avevano detto che quello era il quartiere in cui vivevano gli indiani e, quando alzò gli occhi, ne vide alcuni che lanciavano mattoni dalle finestre delle abitazioni dall’altro lato della strada. Impaurita da ciò che stava avendo luogo, scrutò l’ambiente nella speranza di intravedere un poliziotto che potesse aiutarla e portarla via da lì, ma non c’era nessuno.

Vide che un gruppo di birmani aveva cominciato ad arrampicarsi sulla scala esterna di una delle case degli indiani. Conscia dell’estremo pericolo che stavano correndo gli abitanti della zona, Belle si rimise a cercare tracce della presenza delle forze dell’ordine. In cima alle scale, gli uomini menarono fendenti d’ascia contro la porta finché non la buttarono giù, e a quel punto, malgrado il clamore della folla, riuscì a sentire le grida terrorizzate delle persone al suo interno. Era sicura che le avrebbero massacrate. Non sapendo se sarebbe arrivato anche il suo turno, Belle avrebbe tanto voluto mettersi a piangere, ma, dato che la calca si era riversata dall’altro lato della strada, doveva cogliere la palla al balzo. Per cominciare, con il fiato corto, scivolò alle spalle degli uomini ancora radunati in strada, poi, con un unico pensiero in testa, si mise a correre senza scegliere una direzione ben precisa.

Scappando via, superò tanti altri birmani armati e con i petti coperti di simboli, che brandivano piedi di porco e randelli e avanzavano verso il quartiere indiano. In una delle strette viuzze parallele, aggirò alcuni poliziotti disarmati alle prese con una folla di indiani inferociti e intenzionati a passare al contrattacco. Era chiaro che quella sommossa era una questione tra birmani e indiani, ma non riusciva a comprenderne le ragioni. E non riuscendo neanche a capire perché le autorità non stessero intervenendo, Belle intuì che era ancora più importante raggiungere Edward e avvertirlo della scena alla quale aveva assistito.

Quando raggiunse un caseggiato in una stradina che conduceva ai moli, capì di aver preso la direzione sbagliata. L’intera zona puzzava di pesce e di fogna, ma c’era anche qualcosa di peggio. Di molto peggio. Assalita dall’odore dolciastro e nauseante del sangue, si sentì serrare la gola. La viuzza stessa, avvolta da un silenzio innaturale, era priva di segni di vita, e Belle indietreggiò sgomenta quando scoprì i corpi contorti di una mezza dozzina di indiani – uomini, donne e bambini – riversi sul selciato. Si guardò attorno, orripilata, ma vide che non stava venendo nessuno a spostarli. Fissò l’atroce livido viola che si era allargato sul volto di un uomo e il sangue scuro e rappreso laddove la testa era stata fracassata. Poi si accorse delle orbite nere e vuote e provò ribrezzo. Gli avevano cavato gli occhi. Chiuse i suoi e, stringendosi lo stomaco, vomitò a più riprese. Quando ebbe finito, udì il ronzio di mosche gigantesche e strizzò gli occhi finché non vide che stavano già banchettando. Distolse lo sguardo e osservò una donna che giaceva in una pozza di sangue scintillante, gli abiti strappati e gli squarci delle pugnalate sul petto. Un bambino piccolo era accasciato in modo innaturale accanto ai suoi piedi nudi. Belle li avrebbe voluti aiutare, ma non c’era niente, assolutamente niente, che lei potesse fare. Nessuno era stato lasciato in vita. Lanciò un’occhiata a un altro uomo che era stato chiaramente pestato a morte. Atterrita da tanta brutalità, il suo unico pensiero era che doveva andarsene da lì. Lo Strand Hotel non poteva essere lontano, perciò si voltò per cercare di capire quale fosse la direzione giusta. Ma poi, udendo piangere un bambino, esitò.

Aveva dato per scontato che avessero trucidato tutti e desiderava scappare da quell’atroce carneficina, ma come poteva lasciare un bambino a morire da solo? Tentò di capire dove potesse essere e avanzò lungo la strada, sforzandosi di non guardare gli occhi vitrei di altri tre uomini che trovò distesi a terra, pestati a morte. Si fermò davanti a una casa, laddove il pianto era diventato più insistente, ma tentennò per timore dello spargimento di sangue che avrebbe potuto trovare al suo interno.

La porta d’ingresso era spalancata, così provò a farsi sentire dalla soglia nella vana speranza che qualcuno fosse ancora vivo. La paura le si annidò nello stomaco e nelle ossa. «Controllati», sussurrò, «controllati». Poi, evitando i gradini di legno più scivolosi e imbevuti di sangue, iniziò a salire con cautela, e a ogni passo si sentiva sempre più nauseata, incapace di tenere a freno i conati.

Le tre stanze in cima al pianerottolo erano deserte, tranne per un anziano accasciato contro una parete, con una grave ferita alla testa e gli occhi vitrei e privi di vita. Le sfuggì un singhiozzo, ma proseguì fino al piano superiore, il pianto del bambino ormai già più flebile. Poco prima di arrivare in cima, si sentì mancare il terreno sotto i piedi e scivolò giù dalle scale, fino al pianerottolo del piano di sotto. Rimase sdraiata dov’era per un momento, ma, quando provò a muoversi, un dolore lancinante le bloccò la gamba sinistra. Ci riprovò comunque, e alla fine riuscì a trascinarsi su, un gradino dopo l’altro. Solo che il pianto ormai era cessato.

Nella prima stanza c’erano due donne morte sul pavimento, e Belle si stava giustappunto chiedendo se sarebbe riuscita a raggiungere il terzo piano quando intravide un movimento. Zoppicò verso una delle due donne e, chinandosi, sollevò pian piano l’angolo di un sottile lenzuolo intriso di sangue, scoprendo che c’era una bambina rannicchiata sotto. Provando un tuffo al cuore, Belle controllò per assicurarsi che la donna fosse morta, poi, con delicatezza, prese in braccio la bimba che sbatté le palpebre, lasciandola a bocca aperta. La bambina era viva. Fissò i suoi enormi occhi marroni, poi la esaminò in cerca di ferite, accarezzandole la pelle morbida e i capelli prima di riavvolgerla nel lenzuolo sporco e cullarla al seno. Qual era la cosa giusta da fare? Avrebbe dovuto lasciare lì la piccola nella speranza che le autorità trovassero i suoi parenti o avrebbe dovuto portarla in salvo? Se l’avesse lasciata lì, la piccola avrebbe rischiato di morire, e c’era persino il rischio che tornasse la folla omicida. Prese una decisione istintiva. Dopo essersi avvicinata con passo malfermo alle scale, strinse a sé la bambina e iniziò a scendere lentamente.

Una volta fuori, si guardò attorno per riuscire a identificare il punto esatto in cui aveva trovato la bambina, quindi cominciò a imboccare un vicolo dopo l’altro finché non sbucò in una strada deserta, con la fitta alla gamba ormai talmente straziante che le fece lanciare un grido. Si fermò a riprendere fiato, terrorizzata e con i sensi allertati per paura del ritorno degli uomini armati. Oltre alle vertigini e alla nausea, la gamba bruciava e pulsava in modo spaventoso. Rischiava di perdere i sensi, e il dolore divenne talmente insopportabile che Belle capì di essere sul punto di stramazzare a terra, così si appoggiò a un muro prima di cadere. La bambina si lamentò e si agitò nel tentativo di divincolarsi. Belle prese in considerazione l’idea di metterla giù solo per un momento, all’ombra di un albero, ma sentì un’auto avvicinarsi a gran velocità. Quando si fermò, vide che era una volante della polizia, dalla quale scesero tre uomini in divisa seguiti da… Non era possibile. Il quarto uomo, l’unico che non indossava un’uniforme, corse verso di lei. Si passò una mano insanguinata sugli occhi, il mondo si capovolse e Belle crollò al suolo.

Si svegliò nell’oscurità. Per Belle, incapace di distinguere un’ora dall’altra, il tempo si era dilatato. Una cosa, la più nera immaginabile, incombeva nelle ombre notturne della stanza. Una luce dalla postazione delle infermiere filtrava sotto la porta. La paura l’aveva cambiata. La portava a rannicchiarsi a ogni rumore improvviso, l’allarmava quando si muoveva un’ombra. Faceva sì che il corpo le andasse stretto. Piccolo. Perché tutto il suo essere era fatto di paura. Non chiamò in cerca di aiuto.

Quando si svegliò di nuovo e aprì gli occhi gonfi, sentì la bocca secchissima. Mentre giaceva immobile, vide una stanza bianca e pulita, con le tende di mussolina delicatamente gonfiate dal venticello che entrava dalla finestra aperta. Stranamente intontita e rigida, annusò l’aria. Disinfettante e un odore floreale. L’infermiera che stava sistemando delle peonie rosa in un vaso sul suo comodino notò che si era svegliata.

Con i polmoni contratti, doloranti, e il respiro rauco e strozzato, Belle si sforzò di tirare fuori la voce. «Da quant’è che sono qui?».

Strizzò un attimo gli occhi a causa della luce prima che i ricordi del massacro le tornassero di colpo alla mente e un’ondata di nausea le facesse rivoltare lo stomaco. Si coprì gli occhi e gemette. Nella testa intorpidita le vorticavano scene di sangue e morte. La donna che giaceva riversa in casa, la gente per strada, le uccisioni, tutte quelle uccisioni. E la bambina… Quella povera bambina. Oddio! Ricordava il calore della sua pelle morbida e calda e dei suoi capelli setosi. E i suoi occhi, quegli occhi enormi. Cosa ne era stato di lei?

L’infermiera le porse una scodella e Belle si sedette e ci vomitò dentro, ma c’era ben poco da rigettare visto che non aveva mangiato, giusto? Non riusciva a ricordare con chiarezza l’ordine degli eventi. C’era stata la discussione con Oliver. Sì, quella se la ricordava, ma cos’era successo subito dopo? Troppo debole per restare a lungo seduta, si lasciò ricadere sul cuscino e l’infermiera le pulì il viso con un panno umido e fresco.

«Grazie», mormorò Belle, poi cercò di rimettersi a sedere. «Da quant’è che sono qui?».

L’infermiera le diede un bicchiere d’acqua.

Belle lo bevve, poi l’infermiera l’aiutò a sdraiarsi con delicatezza. «Ha bisogno di riposare».

«Devo sapere cosa ne è stato della bambina».

«Ci sarà tempo per questo».

«Allora, da quant’è che mi trovo qui?»

«Quasi quarantott’ore».

«Penso di essermi svegliata stanotte».

«È possibile, anche se il medico le ha dato un sedativo. Potrebbe averlo sognato».

«Posso andarmene adesso?», chiese, perché voleva alzarsi dal letto, sgranchirsi le gambe e capire cos’era successo. E voleva anche trovare un modo per sottrarsi a tutto ciò che aveva visto e alla paura che le aveva annodato lo stomaco e le aveva quasi fatto fermare il cuore. Il gin avrebbe fatto al caso suo. Un paio di bicchieri di gin belli colmi fino all’orlo.

«Il dottore la visiterà tra poco, ma per il momento ha visite. Il signore stava aspettando notizie con immensa preoccupazione».

Oliver, pensò Belle dimenticando il loro litigio, ma, quando l’infermiera aprì la porta, vide che l’uomo in questione era Edward e provò una serie di emozioni contrastanti. Ciononostante, era felice che fosse andato a trovarla e abbozzò un sorriso.

«Spero che i fiori ti piacciano», disse lui con un gran sorriso.

Lei annuì distrattamente e cercò di sbirciare oltre la porta aperta per vedere cosa stesse succedendo nei corridoi fuori dalla sua stanza. «Ti ringrazio, ma la bambina? È qui?»

«È sana e salva».

«Hai trovato i suoi genitori?», domandò lei, resa frenetica dal bisogno di sapere.

Edward accostò pian piano la porta, quindi le spiegò che si stavano prendendo cura della bambina e che non si doveva preoccupare di niente.

«Se può essere d’aiuto, posso dirti esattamente dove l’ho trovata. Se mi ci portassi, sono sicura che te lo potrei indicare. Ti prego, dammi una mano ad alzarmi». Fece per scivolare giù dal letto. «Posso camminare, ne sono convinta».

«Belle, non ce n’è bisogno. Stiamo già facendo delle indagini. Se tutto va bene, presto troveremo qualche parente».

«Ne sei sicuro? Non riesco a sopportare il pensiero che una bambina così piccola potrebbe finire in un orfanotrofio». Ricacciò indietro un singhiozzo. «Edward, riesci a immaginare quanto debba essere stato terribile essere lì presente mentre sua madre veniva pugnalata a morte?».

Lui avvicinò una sedia e, dopo essersi accomodato, le strinse la mano sinistra e l’accarezzò dolcemente. «Su, su, non c’è niente di cui preoccuparsi. Ti ho appena detto che la bambina sta bene. Tu come ti senti? È questa la domanda più importante».

Lei aggrottò la fronte. «Grata di essere viva, ma estremamente intontita. Non riesco a ricordare proprio tutto».

«Magari è un bene».

«Ma come ho fatto a finire qui? Cosa mi è successo?».

«Sai che ti abbiamo trovata nei pressi del quartiere indiano?»

«Sì. Non avevo intenzione di andarci».

«Vorrei ben sperare. Sei caduta e ti sei fatta male a una gamba con un vetro rotto, o almeno credo».

Abbassò lo sguardo. «Non riesco a sentirmela».

«Ti hanno dato degli antidolorifici».

I suoi occhi iniziarono a riempirsi di lacrime, che poi le colarono sulle guance. Edward le porse un fazzoletto pulito e lei si asciugò il viso.

«Adesso va meglio?», chiese lui.

«È stato terribile, Edward. Terribile. Le cose che ho visto. Perché stavano uccidendo quegli indiani?»

«Ti spiegherò tutto non appena starai meglio».

Belle ritrasse la mano. Aveva bisogno di riordinare le idee. Perché era accaduto? Perché avevano permesso che accadesse? Ma era evidente che per il momento non le avrebbe detto niente. Premette entrambe le mani sul materasso per fare leva e tirarsi su. «Mi devo alzare. Non voglio restare qua dentro. Ti prego, aiutami. Ti prego. Devo vedere Clayton e andare a Sydney».

Lui scrollò il capo e la sua espressione si incupì. «È fuori discussione, temo. Hai vissuto un’esperienza traumatica. Il dottore vuole tenerti sotto osservazione per almeno una settimana, se non di più».

«E Clayton?».

Edward fece una faccia dispiaciuta e storse la bocca. «Mi dispiace, mia cara, ma è scappato non appena sono cominciati i disordini».

Lei scosse la testa, sentendosi pervadere dall’incredulità. «No! Non ci credo. Vuoi dire che non mi scritturerà più?»

«Per ora no. Ho sentito dire che hanno già preso una nuova sostituta per quel ruolo. Ma sono sicuro che tornerà».

«Non mi potevano aspettare?». La voce era uscita sottile e acuta e, malgrado si sentisse molto debole, fece uno sforzo per evitare che il suo disappunto si notasse. Dopo tutto quello che aveva passato, era dell’idea che sentirsi delusa da un agente fosse una cosa tremendamente insignificante. Era davvero così importante?

«Pare che non potessero attendere». Edward cercò di nuovo la sua mano. «So che devi sentirti frustrata, ma pare proprio che il mondo dello spettacolo sia un ambiente abbastanza spietato».

Belle gli lanciò un’occhiata. «Sei stato tu a, be’…?»

«Sì. Per fortuna che ti ho trovata per caso, soprattutto perché stavi perdendo sangue. Ma cosa diamine ci facevi da quelle parti?».

Lei scosse la testa. «Sto cercando di ricordare, ma è tutto così confuso. Mi sono ritrovata in mezzo ai disordini e poi, in preda al panico, ho perso l’orientamento».

Edward annuì. «Povera cara».

«Ma cos’è successo? Ti prego, dimmelo».

«Te l’ho già detto. Te lo spiegherò quando starai meglio. Per il momento stiamo ancora cercando di rimettere insieme i pezzi, e tu hai bisogno di riposare».

Nei due giorni successivi, Belle non fece altro che mangiare e dormire, anche se quando si svegliava si sentiva soffocare dall’odore stucchevole dei fiori nella sua stanza. Aveva raccolto qualche informazione su quanto accaduto dall’infermiera, mentre Edward non era ancora tornato. L’aveva ringraziato per averla tratta in salvo?

Poi, però, le tornò in mente l’immagine dell’uomo con le orbite vuote… Oddio! Si coprì gli occhi con il palmo delle mani.

Com’era potuto accadere? E perché? Quale poteva essere la causa di un simile massacro? Edward sarebbe tornato e gliel’avrebbe spiegato – doveva per forza – perché niente le era mai sembrato tanto importante quanto il bisogno di comprendere. Se non avesse compreso, la violenza e la brutalità a cui aveva assistito per strada non le avrebbero mai dato tregua. Le pillole per dormire che grazie al cielo le venivano date ogni sera la lasciavano intontita e rintronata la mattina dopo, ma senza non avrebbe dormito affatto. Durante il giorno, con la terribile puzza del sangue ancora nelle narici, continuava a piangere, risentendo all’infinito il ronzio delle mosche e il silenzio agghiacciante dei morti. L’angoscia per la bambina dagli enormi occhi scuri non diminuiva, e Belle pregava che le autorità facessero del loro meglio per lei. Giurò che non appena si fosse rimessa si sarebbe assicurata che la piccola stesse bene e ricevesse le attenzioni necessarie.

Una mattina, quando avrebbe soltanto voluto nascondersi da tutto e da tutti e seppellire la testa sotto il cuscino, si presentò Gloria.

«Mia cara, sembra davvero che tu sia stata in guerra. Sciocchina, ma cosa ti è saltato in mente?».

Sentendo il tono di voce dell’amica, Belle si irrigidì. Si sforzò di rivolgerle un debole sorriso e vide che Gloria aveva un aspetto particolarmente incantevole con il suo completo bianco e nero e un cappello coordinato, e che era armata di cioccolatini e vino. Ma, in realtà, era l’ultima persona che le andava di vedere in quel momento.

«Non ti siedi?», riuscì a domandarle.

«A dire il vero, devo proprio scappare, ma volevo portarti questi». Appoggiò i regali sul comodino già pieno zeppo di roba. «Ma, cara, non sembri tanto felice di vedermi. E sì che sono anche venuta a portarti una splendida notizia».

«Scusami, è che non mi sento tanto bene. È stato terribile, Gloria».

«Ne sono certa, ed è naturale che tu non ti senta bene. C’era da aspettarselo».

Belle cercò di tirarsi un po’ più su e si passò una mano tra i capelli. «Ho visto tali atrocità…».

«Ma certo, ma certo». Gloria agitò una mano per accantonare il discorso, poi piegò la testa e parve esaminare l’aspetto di Belle. «Mmm. Dovresti fare un salto dal parrucchiere. Ti fisso un appuntamento. Ma adesso passiamo alla buona notizia».

«Be’, ci vorrebbe proprio», rispose Belle, scoraggiata, chiedendosi cosa avrebbe mai potuto farla stare meglio.

«Ta-da! Senti cosa ho da dirti. Harry ha rimandato il suo viaggio. Aspetterà che tu sia in grado di affrontarlo». Le fece l’occhiolino. «Dopo che gli ho sussurrato un paio di paroline mirate all’orecchio, cioè».

«Oddio, cosa gli hai detto?», domandò Belle, non sapendo come prendere la notizia.

«Diciamo che gli ho ricordato un suo piccolo peccatuccio del quale sono stata testimone».

«L’hai ricattato?». Belle era scandalizzata.

Gloria sorrise compiaciuta. «Solo un tantino».

«Ma così mi odierà a morte».

«Certo che no. Odierà me. E il punto è che a me non potrebbe importarmene di meno».

Belle distolse lo sguardo, nient’affatto convinta, e sicura che quell’uomo ce l’avrebbe avuta con lei.

«È anche riuscito a fissarti un incontro con il commissario distrettuale di Mandalay, proprio come aveva promesso. A quanto pare, l’uomo è lì da una vita, e se c’è qualcuno in grado di dirti qualcosa, quello è lui. E ora da brava, ringrazia».

Belle riuscì ad abbozzare un altro debole sorriso. Era un classico. Ovviamente, Gloria non voleva sapere un bel niente di quanto era accaduto, mentre lei non poteva fare a meno di pensare a Oliver e sperare che potessero parlare.

«Comunque, come ti ho anticipato, ora devo levare le tende». Si chinò per darle un bacio sulla guancia. «Ciao, cara. Rimettiti presto».

Ciò detto, si precipitò fuori dalla stanza in una nube di profumo a base di gelsomino, rosa e sandalo. “Chanel N° 5”, pensò Belle mentre prendeva il romanzo che qualcuno le aveva gentilmente lasciato sul comodino. La morte nel villaggio di Agatha Christie. Lesse per qualche minuto, ma era comunque difficile sfuggire alle immagini spaventose che le tornavano in mente. Quando rimise giù il libro, dalle pagine cadde un foglietto e atterrò sulla coperta. Lo raccolse e lo lesse, poi, deglutendo, lo fece a brandelli. Non poteva lasciarsi toccare da certe cose. Anche se voleva vederlo, non avrebbe più commesso lo stesso errore, neanche per sogno. Oliver le aveva mandato i suoi saluti e sperava che si fosse ripresa dal suo orribile calvario. Aveva espresso il desiderio di ritrovarla presto in forma e aveva proposto che si vedessero per bere qualcosa insieme. Dopo il massacro, Belle si sentiva vulnerabile, come se il trauma avesse sbloccato qualcosa dentro di lei e tutte le insicurezze che si era sempre sforzata di nascondere stessero ormai trapelando. Sentiva l’estremo bisogno di un amico, ma non poteva essere Oliver. Non poteva e basta.

Stava cominciando a ricordare sempre di più, rivivendo il terrore che aveva provato quando credeva che quegli uomini l’avrebbero aggredita. Le era rimasta piantata nello stomaco, quella paura, e la teneva saldamente avvinghiata: era diventata parte di lei, inscindibile da ciò che era. Si premette con forza una mano sulla pancia, come se volesse spremerla fuori, ma il gesto la portò soltanto a strozzarsi e tossire. Alla fine, riuscì ad addormentarsi solo perché era davvero stremata, finché non sentì dei cani abbaiare giù in strada e poi il rumore della porta che si riapriva. Chiuse gli occhi, ma percepì la sua presenza ancora prima che venisse fatto entrare nella stanza.

«Ciao, Edward», disse aprendo gli occhi. «Potresti tirare per bene le tende? Mi arriva un fascio di luce. È troppo forte».

«Rebecca stava aspettando di poter entrare, ma temo di aver fatto valere la mia autorità. Ha detto che tornerà domani». Chiuse le tende e si sedette su una sedia che aveva avvicinato al letto, poi le prese una mano e gliel’accarezzò.

Lei lo fissò. «Ti prego, dimmi cosa ne è stato della bambina. Lo devo sapere».

«Forse abbiamo rintracciato la nonna. Ti prometto che ti farò sapere non appena saremo sicuri di aver trovato la persona giusta».

Belle annuì. «Cos’è stato, Edward? Perché è successo?».

Lui le rivolse un sorriso comprensivo. «È abbastanza complicato, ma proverò a fartela semplice, anche se non avresti mai dovuto restare coinvolta negli scontri».

Sperava che non le desse nuovamente della sciocca e, visto che non lo fece, cercò di concentrarsi sulle sue parole. A quanto pareva, tutto aveva avuto inizio ai moli. Centinaia di braccianti indiani assunti per stivare e scaricare i mercantili avevano indetto uno sciopero per chiedere salari più alti, e i birmani erano stati incaricati di far sospendere lo sciopero. Dopo che ebbero risolto la faccenda dello sciopero, i birmani erano stati lasciati liberi di andare. Quegli uomini erano stati accompagnati al lavoro dalle loro mogli, che avevano portato i cestini con il pranzo dopo aver percorso lunghe distanze per arrivare sino a lì. Quando i birmani erano stati congedati, gli indiani avevano commesso l’errore di ridere di loro davanti alle loro mogli, umiliandoli. Tale disguido era sfociato in uno scontro armato, con gli indiani assassinati e poi gettati nel fiume. Si era sparsa la voce che alcuni di loro avessero amputato il seno a una donna del posto, cosa che aveva spinto migliaia di birmani a dare la caccia ai rivali. Purtroppo, stavano già covando del risentimento, perché la città era affollata da fin troppi indiani scappati dalla povertà dei loro villaggi, e gli abitanti locali li consideravano poco meno che parassiti.

«Abbiamo avuto un’infinità di problemi», stava dicendo Edward. «Ci sono stati centinaia di feriti, e adesso la comunità indiana si è barricata e non vuole uscire. La maggior parte dei banchi alimentari è gestita da indiani, quindi la città sta esaurendo le scorte di cibo. E non è finita qui, perché sono i braccianti indiani a svuotare il contenuto dei pozzi neri e la puzza in città sta cominciando a diventare asfissiante».

«Cosa farete?».

Fece un sospiro profondo. «Almeno settemila indiani hanno cercato rifugio nel vecchio manicomio. La maggior parte delle loro case è andata distrutta durante la sommossa».

«Sommossa? A me è sembrato più che altro un massacro. Devono essere terrorizzati».

Lui abbozzò un sorriso dolente. «Infatti. E non ci sono state soltanto le uccisioni, ma anche i saccheggi. Così, per evitare che si diffondano epidemie, li rimanderemo al lavoro».

«Spero che ricevano un risarcimento per ciò che hanno perduto».

«È improbabile».

Improvvisamente contrariata, Belle si accigliò. «Ma non è giusto, no?».

Edward si strinse nelle spalle. «Non abbiamo i mezzi per aiutarli più di tanto».

«Né la volontà», aggiunse lei, e lui rimase sorpreso dalla durezza del suo tono di voce.

«Senti, Belle, al momento la situazione è delicata, e ci sono tante cose che non capisci».

«Be’, illuminami allora».

«Ci sono sempre stati dei dissensi tra le due razze».

«E di chi sarebbe la colpa? Abbiamo portato qui gli indiani e adesso non ci interessa proteggerli».

«Sono stati loro a scegliere di venire».

«Attirati da promesse di lavoro e denaro, senza dubbio».

Lui scosse la testa, ma Belle era sicura di avere ragione. Lo studiò con attenzione e, sapendo che non avrebbe aggiunto altro, cambiò argomento.

«Perché i birmani si erano disegnati quegli strani simboli sul petto?», domandò.

«Perché li rendono invincibili. Credono che quei simboli magici li proteggano. Avrai già avuto modo di scoprire quanto sono superstiziosi».

Belle annuì. «Sì, ma pensavo fossero buddisti. Sai… pacifisti».

«Buddismo unito ad animismo e a Dio solo sa cos’altro. Ma da queste parti ci sono sempre stati episodi di violenza». Sospirò. «Comunque, a proposito di quel viaggio sul fiume, ti suggerisco caldamente di andare con Harry non appena ti sentirai meglio. Pensi di potercela fare? È molto probabile che le agitazioni civili vadano avanti per un bel po’ di tempo qui a Rangoon e tu, mia cara, hai già sofferto abbastanza».

Aveva ragione. Aveva sofferto abbastanza. E, dato che aveva perso la sua occasione con Clayton, l’idea del viaggio sul fiume era diventata di nuovo allettante. Dopo tutto ciò che aveva passato, andarsene sarebbe stato un sollievo. Niente l’avrebbe mai liberata dalla paura persistente e dalle immagini che continuavano a tormentarla, ma più si allontanava da Rangoon, meglio si sarebbe sentita. Ricordò il suo arrivo in Birmania, e come si era sentita attratta dalla patina dorata delle loro vite a Rangoon, ma adesso non riusciva a pensare ad altro che alle parole di Oliver. Aveva ragione su così tanti aspetti. Sotto la superficie scintillante di quel mondo coloniale c’erano tensioni che sarebbero soltanto diventate più marcate e, quando si trattava di fare giustizia, c’era ben poco da aspettarsi se non si aveva la nazionalità britannica. Non aveva mai avuto il coraggio di riflettere a fondo sull’abuso di potere, la bramosia dilagante e il terribile pregiudizio razziale, e la compassione che provava per gli indiani privati di tutto la spinse a chiedersi se non fosse più simile a Oliver di quanto avesse immaginato.