11
Lunedì mattina presto, contro ogni buon senso, Belle si incamminò verso il commissariato di polizia. Ripensò alla conversazione con Oliver Donohue e, rammentando quei penetranti occhi azzurri, si rese conto che non vedeva l’ora che arrivasse mercoledì per rivederlo. Malgrado la sua posizione anticolonialista, le aveva mostrato un lato generoso di cui sentiva di potersi fidare. Aveva anche mantenuto fede alla parola data e le aveva lasciato un biglietto alla reception con il nome del suo contatto: Norman Chubb. Aveva già scoperto che gli ufficiali di basso rango delle forze di polizia erano per la maggior parte sikh, mentre i britannici occupavano posti dirigenziali, e quell’uomo era un investigatore, quindi doveva essere un bene.
Entrò nell’imponente edificio e scrutò l’atrio. C’erano quattro porte chiuse e inaccessibili. Bussò a quella più grande, sperando che il pesante portone di legno marrone scuro fosse quello giusto. Silenzio. Aspettò, poi bussò di nuovo, restando costernata quando una voce furente le urlò di levarsi dai piedi. La respirazione accelerò e cominciò a batterle forte il cuore, ma, non lasciandosi scoraggiare, provò ancora, e stavolta socchiuse anche la porta affacciandosi in un piccolo ufficio, dove un uomo corpulento con i capelli rossi e radi sedeva accasciato dietro una scrivania enorme, con alte pile di fogli accatastate in modo spaventosamente confusionario.
«Per l’amor di Dio», disse lui senza alzare lo sguardo. «Che diavolo c’è adesso? Non vede che sto provando a schiacciare un pisolino?».
Belle tossì. «Mi scusi».
L’uomo drizzò la testa e, riuscendo a vederlo in viso, Belle stimò che dovesse avere sui cinquantacinque anni.
«E lei chi diavolo è?», volle sapere.
«Sono Annabelle Hatton. Sto cercando il signor Norman Chubb».
«Ma guarda un po’. E posso chiederle qual è la natura dei suoi rapporti con il detective Chubb?»
«Non ci siamo mai incontrati. Il suo nome mi è stato dato da un conoscente».
«E chi sarebbe?»
«Oliver Donohue».
«Ah, il giornalista americano».
«Lo conosce?»
«Lei che dice?». Fece una pausa, poi aggiunse: «Tutti conoscono Oliver Donohue».
«C’è il detective Chubb?»
«No».
Belle esitò, sentendo la pelle accaldata e incredibilmente appiccicosa. Non sapeva se andarsene subito e tornare una volta che fosse rientrato Chubb, ma alla fine decise di parlare con quell’uomo. «Le dispiace se mi siedo?», domandò educatamente, rivolgendogli quello che sperava fosse un sorriso accattivante.
L’uomo alzò un dito per indicarle la sedia di fronte alla scrivania, quindi Belle si accomodò e si lisciò il vestito madido di sudore con un certo nervosismo, la stessa sensazione che aveva provato a scuola quando veniva trascinata al cospetto della signora Richards.
«Cosa le serve?».
Fissò imbambolata le sue guance rubizze e i baffi ispidi. Era decisamente in sovrappeso, pensò, con due occhietti porcini annidati tra le pieghe di carne. Girò attorno alla domanda che voleva davvero porgli, chiedendogli come prima cosa se fosse occupato.
«Sempre, signorina… ehm?»
«Hatton».
«Ah, sì. Be’, signorina Hatton, io sono sempre occupato».
«Sono davvero desolata di averla interrotta». Tacque. «Le spiacerebbe dirmi come si chiama, per cortesia?».
L’uomo si raddrizzò sulla sedia, passandosi una mano prima sulla fronte bagnata e poi tra i capelli. «Sono l’ispettore Johnson, il superiore di Chubb. Qualunque cosa stesse sperando di dire a lui, può dirla a me».
«È una questione abbastanza delicata».
«Vada avanti senza tante storie, signorina. Come le ho già detto, sono piuttosto occupato».
Belle ne dubitava, ma abbozzò un sorriso contrito e arrivò al dunque, dicendogli che voleva sapere se ci fossero dei rapporti ufficiali sul caso di una bambina scomparsa dal giardino di casa nella Valle Dorata.
L’ispettore spostò la sua massa voluminosa e rovistò tra i fogli sulla scrivania a passo di lumaca.
«Non ricordo», disse alla fine. «È successo di recente?».
Belle scosse la testa. «Nel 1911».
Lui rimase a bocca aperta, divenne ancora più rosso e quasi soffocò tra le risate. «Vediamo se ho capito bene», disse dopo aver messo un freno alla sua ilarità. «Sta chiedendo informazioni su una cosa avvenuta venticinque anni fa?»
«Sì».
Serrò le labbra. «E perché lo vuole sapere?».
Belle si voltò verso la luce del sole che inondava l’ufficio attraverso una piccola finestra che, notò, era protetta da sbarre, poi tornò a guardare l’ispettore. Meglio non essere troppo aspra con lui, anche se era difficile prendere sul serio un uomo dall’aspetto tanto ridicolo. «I genitori erano mia madre e mio padre. La bambina sarebbe stata mia sorella maggiore».
«Ah, capisco, e a che scopo desidera vedere i verbali? I suoi genitori sono ancora vivi?»
«No. Mio padre è morto di recente, ma mi stavo chiedendo cosa fosse successo».
«Be’, signorina… Hatton, posso dirle che all’epoca ero qui e ho qualche ricordo. Se non erro, il caso rimase insoluto, anche se c’erano alcune teorie. E giravano delle voci. Oh, sì».
«Ovvero?»
«Credo che l’idea più convincente fosse che uno sciamano di una delle tribù di cacciatori di teste Wa avesse assoldato qualcuno per rapire la bambina».
«Ma per quale motivo?».
L’uomo gonfiò le gote. «Sicura di volerlo sapere?».
Lei annuì.
«Si pensa che volesse usare gli organi come rimedi curativi».
Belle rabbrividì.
«Un’altra idea è che una banda criminale abbia rapito la bimba per venderla a una ricca famiglia siamese. Nessuna prova schiacciante. Altri sostenevano che fosse stata una vendetta orchestrata da una persona condannata da suo padre».
«Pensa che la bambina sia morta?»
«Temo di sì».
Belle scelse con cura le parole prima di pronunciarle: «E mia madre?»
«Se non ricordo male, sua madre fu messa agli arresti domiciliari».
«Ma venne dimostrata la sua innocenza?».
L’ispettore storse le labbra. «Fu abbastanza strano, in realtà. Credo che dovessero incriminarla, ma poi lei e suo padre presero e lasciarono Rangoon senza preavviso. Nessuno sapeva cosa fosse accaduto. Be’, io dico nessuno, ma qualcuno l’avrà saputo per forza. Fecero tutto in gran segreto».
«In tal caso, sarebbe possibile vedere gli atti dell’indagine?».
L’uomo le rivolse uno sguardo dolente. «Purtroppo, no. Sono andati distrutti in un incendio qualche anno dopo. Abbiamo dovuto ricostruire l’intero commissariato».
Per un secondo Belle si chiese se fosse vero, poi accantonò il pensiero. Per quale ragione avrebbe dovuto mentire? Lo osservò con attenzione, sperando che potesse rivelarle qualcosa di più. Ma l’uomo non tradì niente, inspirò a fondo e gonfiò di nuovo le guance, buttando fuori l’aria con un soffio rumoroso.
«È stato un piacere conoscerla, signorina Hatton», disse alla fine.
Capendo l’antifona, e non volendo esagerare, Belle si alzò immediatamente in piedi.
Vedere che si era rassegnata a togliere il disturbo parve rinfrancare l’ispettore, tanto che si alzò dalla sedia e l’accompagnò alla porta.
Belle si affrettò a tornare verso l’albergo, indispettita dall’incontro con il poliziotto. Era sembrato collaborativo, ma non riusciva a liberarsi dall’idea che non le avesse detto tutta la verità sugli eventi di quel giorno del 1911. Si scrollò di dosso la sensazione e poi, attraversando un affollato quartiere commerciale, si fermò. Aveva una gran voglia di imbattersi in qualche cosa che non fosse neanche lontanamente britannica e, sebbene Oliver l’avesse avvertita di fare attenzione, si trovava nel bel mezzo di una delle strade principali, quindi ritenne che dovesse trattarsi di una zona sicura.
Dalla strada sembrava una fila di banchetti alimentari scalcagnati, quindi a prima vista non si era accorta che era l’ingresso di un bazar, ma gli odori speziati che giungevano da dentro la persuasero a esplorare. L’interno era suddiviso in molteplici corridoi in penombra, e la polvere, il rumore e la calca avrebbero dovuto infastidirla. Eppure, man mano che si addentrava in quel luogo, urtata e spintonata, ma mai con aggressività, vide che era più che altro un enorme emporio con le travi a vista. Ciascun corridoio, lungo il quale erano allineati i banchi, era stracolmo di mercanzie, inclusi i bellissimi longyi, gli scialli e anche altri tessuti e le sete. Quelle erano le sue preferite, ma, ogni volta che ne toccava una, i proprietari perlopiù indiani dei banchetti, con le loro casacche e i pantaloni bianchi, saltavano in modo piuttosto allarmante dalla panca sul retro sulla quale stavano acquattati e la imploravano di comprare qualcosa. Naturalmente, Belle non capiva di preciso cosa stessero dicendo, ma era abbastanza logico. Mormorava qualche parola dicendo che sarebbe ripassata più tardi e proseguiva in cerca degli odori speziati che l’avevano attirata lì dentro.
Poi arrivò in un’area dove vide alcune ragazze birmane ben vestite, con i longyi e delle camicette corte, indugiare dietro enormi sacchi di granaglie. Le ragazze chinarono pudicamente il capo, poi ridacchiarono nascondendo le bocche dietro le mani. Belle non aveva idea di quali granaglie stessero vendendo e, quando provò a chiedere indicazioni per i banchi delle spezie, loro ridacchiarono ancora di più e, dopo aver confabulato tra loro, le indicarono direzioni diverse. Belle superò banchi che vendevano pezzetti di legno dai quali veniva ricavato il thanaka, la strana pasta gialla che le donne si spalmavano sulla faccia, e altri che vendevano semi e noci.
Alla fine, guidata principalmente dall’olfatto, incappò negli inebrianti banchi delle spezie. Le enormi ceste di spezie in polvere, un’esplosione di colore in varie tonalità di giallo, rosso e arancione, catturarono la sua attenzione tanto quanto i sacchi di peperoncini di ogni forma e dimensione. C’erano strane spezie marroni e bitorzolute accanto a ciotole di radici e, quando ne portò un pezzo al naso e lo annusò, le ricordò l’odore dei biscotti allo zenzero. C’erano persino banchi che vendevano pelli di tigre, oltre a pellicce di animali e parti di vari scheletri, sebbene non avesse idea di cosa fossero.
Tuttavia, quei profumi esaltanti la elettrizzarono, ricordandole che era in Birmania e che nell’atmosfera non c’era assolutamente niente di britannico. Comprò un po’ di zenzero e una bustina di polvere rossa con la fragranza aromatica più buona che avesse mai sentito, poi si guardò attorno in cerca dell’uscita. Ma il colossale mercato era fuorviante, e non riuscì a ritrovare la strada. Dopo un attimo di panico, decise che avrebbe semplicemente scelto una direzione a caso e proseguito finché non avesse intravisto la luce del giorno. Alla fine, l’odore del carbone bruciato le disse che era vicina e, quando raggiunse un varco, s’imbatté nei banchi che esponevano frutta e verdure, alcune mai viste prima. Comprò un grande melone verde con l’intenzione di condividerlo con Rebecca. Poi, girando alla larga dalla donna rude con l’aria da contadina che puzzava di vino di riso e vendeva luridi quadratini di quella che sembrava essere crema di riso solidificata, si ritrovò in strada. Un altezzoso uccello azzurro con un grosso becco arancione si era appollaiato sul tettuccio di un risciò. Sentendosi notevolmente orgogliosa di sé, Belle chiamò il conducente e gli chiese di riportarla in albergo.
Nel corridoio deserto davanti alla loro stanza, un uomo alto e slanciato le venne incontro a lunghe falcate. Passandole accanto, la salutò con un cenno del capo e proseguì a passo svelto. Forse era un membro dello staff, pensò Belle, anche se era un po’ strano vedere un uomo, soprattutto un eurasiatico, nel corridoio usato esclusivamente dalle ragazze. Quando entrò in camera, trovò Rebecca seduta a gambe incrociate sul pavimento a leggere il suo taccuino, dove di tanto in tanto Belle annotava i pensieri più intimi e dove aveva nascosto i ritagli di giornale. Si precipitò verso di lei e, in un impeto di rabbia, glielo strappò dalle mani.
«Come osi?! È una cosa personale».
Rebecca alzò gli occhi. «Non scaldarti tanto. L’ho trovato aperto sul pavimento. Mi dispiace, non pensavo che te la saresti presa».
«Sei una schifosa bugiarda. Non l’ho lasciato per terra».
«Lo giuro».
«No. Non sarai una cima, ma non ci vuole un genio per capire che un taccuino con il mio nome scritto sopra è una cosa privata. O dalle tue parti non si usa scrivere?».
Rebecca si alzò in piedi. «Non c’è bisogno di offendere. Ti ho detto che mi dispiace».
Belle si sentì avvampare e poi, senza alcun preavviso, le lacrime cominciarono a rigarle il viso. Le asciugò con un gesto stizzito, ma continuavano a sgorgare.
Rebecca si avvicinò, le mise una mano sulla spalla e la strinse delicatamente. «Ehi, non prendertela. È solamente un libro».
«Ma è…», singhiozzò Belle, non volendosi sbottonare. «Solo per me, e ci sono cose…».
Rebecca la guidò fino al letto. «Su, siediti. Vado a prenderti un brandy».
«Io non…», fece per dire, ma l’altra aveva già lasciato la stanza.
Belle non riusciva ancora a fermare le lacrime e cercò di districare una matassa di pensieri aggrovigliati. Rebecca aveva forse letto le accuse sull’articolo di giornale? Si rimproverò, rimpiangendo di non aver lasciato i ritagli nel baule. E se avesse scoperto tutto? Mentre spezzoni di immagini si riavvolgevano nella sua mente, fu come se tutto ciò che si era tenuta dentro si stesse riversando fuori. La morte di suo padre, l’atroce scoperta della sorella scomparsa, il poliziotto, il modo in cui l’avevano trattata le altre ragazze.
Da bambina aveva avuto bisogno di qualcuno con cui confidarsi quando si sentiva triste, ma non c’era stato nessuno. La signora Wilkes aveva fatto del suo meglio, ma era una donna sempre affaccendata che non ammetteva sentimentalismi. Tenersi occupata era il suo modo di affrontare un mondo ingiusto. Belle ricordava i suoi occhi scintillanti e il generoso fondoschiena. La cara signora Wilkes, che con le mele Bramley del piccolo frutteto in fondo al giardino preparava crostate deliziose e conserve in barattolo. Sentendosi un po’ meglio, Belle si asciugò gli occhi e per la prima volta cercò davvero di immaginare la sorella che non sapeva neanche di aver avuto. Una bambina. Solo una neonata.
Rebecca tornò in camera, si sedette accanto a lei e le mise un bicchiere di brandy in mano.
Belle lo trangugiò e il calore le inondò le vene. Forse era giunto il momento di cambiare idea sull’alcol – in fin dei conti… lei non era sua madre.
«Allora», mormorò Rebecca con dolcezza. «Cos’è tutta questa storia?»
«Pensavo di aver lasciato il taccuino sotto il cuscino».
«Sul serio, era per terra».
Belle annuì. «Sono uscita di corsa. Potrebbe essere caduto, immagino».
«Allora?»
«Mi odiano tutte».
«Le ragazze?».
Avvilita, Belle tirò su col naso. «Sì».
«Non ti preoccupare. Alle ragazze ci penso io». Rebecca le porse un fazzoletto. «È pulito. E ora dimmi, qual è il problema? Non può essere soltanto questo».
Belle ascoltò il ronzio del traffico in aumento dalla strada sottostante. Poi, per la seconda volta in quella giornata, si ritrovò a raccontare di quando era morto suo padre e aveva scoperto la storia della bambina scomparsa. Singhiozzò, sorpresa dal fatto che, malgrado avesse tentato in ogni modo di non darle peso, fosse ormai diventata una cosa più che reale per lei. Rebecca sapeva ascoltare e attese in silenzio che Belle finisse.
«Allora, parlami del taccuino», disse alla fine. «Ho letto poco e nulla prima che arrivassi».
«Ci sono delle cose su mia madre».
«È ancora viva, vero?».
Belle non riuscì a trovare un modo per rispondere.
«Fratelli o sorelle?»
«No».
Rebecca le mise un braccio attorno alle spalle. «Poverina. Sei venuta fin qui e siamo state cattive con te».
«Non ha importanza».
«Sì, invece. E le cose cambieranno. Promesso».
Belle le rivolse un debole sorriso. «Sono proprio una frignona. Scusami».
«Hai un sacco di pensieri per la testa».
«Ho conosciuto un uomo che dice di potermi portare dove vivevano i miei genitori».
«Chi?»
«Oliver Donohue. Un giornalista».
«Un gran bel pezzo di giornalista», la corresse Rebecca, e poi rise. «E che sa anche il fatto suo con le signore, a quanto ho sentito dire».
«Davvero?».
Rebecca fece spallucce e si alzò. «E chi lo sa. Forza, asciugati gli occhi, sciacquati il viso e metti un bel vestito. Noi giovani fanciulle usciamo».
«Ma ho tutto il viso arrossato e ho le prove».
«Mancano ore e ore. Andiamo. Oh, quasi dimenticavo, questa è per te», disse, prendendo una busta e porgendola a Belle.
«Da parte di chi?»
«E io che accidenti ne so?». Sorrise sorniona. «Prova ad aprirla».
Mentre strappava la busta, Belle sperò che fosse da parte di Oliver. Non era così. Rilesse un paio di volte il messaggio prima di alzare gli occhi.
«Sei diventata bianca come un lenzuolo», disse Rebecca, accigliandosi. «Cosa dice?».
Belle passò il biglietto a Rebecca, che lo lesse ad alta voce: «“Credi di sapere di chi ti puoi fidare? Pensaci meglio…”».
«Oddio!», esclamò Belle sentendosi attraversare da un brivido di paura. «Cosa significa?»
«Significa che qualcuno sta cercando di farti innervosire».
«Ma a chi si può riferire?». Le si era arrochita la voce.
Rebecca scosse la testa e lanciò un’occhiata alla compagna di stanza. «Potrebbe essere un avvertimento in buona fede, però».
«Ma tu non credi, vero?»
«No. Ripeto, penso sia un idiota che sta cercando di farti innervosire».
Belle era dubbiosa. L’aveva innervosita di sicuro. Anzi, l’aveva addirittura spaventata, e adesso non sapeva cosa pensare.
«La domanda è perché», continuò Rebecca. Ci fu un breve attimo di silenzio prima che aggiungesse: «Dunque, tra tutte le persone che hai conosciuto finora, di chi ti fidi?».
Belle non rispose, ma ci pensò su. Dopo qualche istante, tornò a guardare l’altra. «Ho visto un uomo in corridoio. Eurasiatico, credo. Ha consegnato lui la lettera?»
«Non l’ho visto. L’hanno fatta scivolare sotto la porta».
«Peccato».
«Forza, dimentichiamoci di questo stupido biglietto».
«Dovrei andare dalla polizia?»
«Vuoi andare a lamentarti da loro per dire cosa? “Qualcuno mi ha scritto delle cattiverie”? Ti riderebbero in faccia». Tacque per qualche secondo. «Senti, visto che ti ho portato un bel goccetto di liquore, ora ho una voglia matta di prendermi una sbronza. Vieni con me?»
«Io non sono mai stata nemmeno alticcia».
«Perbacco!».