14
Quel mercoledì, Belle indossò un abito di cotone ceruleo intenso e scoppiò a ridere quando Oliver si presentò con una camicia dello stesso identico colore, che metteva in risalto l’azzurro dei suoi occhi. Presero il tram e raggiunsero il tratto di strada fiancheggiato dagli alberi dove un tempo avevano vissuto i suoi genitori. Mentre superavano le grandi case coloniali che affacciavano su un lato della strada e avevano i boschi alle spalle, tenne il passo svelto di Oliver senza aprire bocca. Le ville erano state erette all’inizio del secolo per le personalità di spicco ed erano ben distanziate le une dalle altre, immerse in vasti giardini con alte staccionate. Oltre i cancelli, Belle vide giardinieri indiani che annaffiavano i prati, mentre giovani donne cinesi spazzavano le terrazze e spolveravano le sedie di vimini in giardino.
«Hai visto Norman Chubb?», domandò Oliver all’improvviso, sfoderando uno dei suoi sorrisi sbilenchi.
Lei scosse la testa. «Non c’era. Ho parlato con l’ispettore Johnson».
«Ah, non troppo disponibile, immagino».
«Mi ha detto che tutto il loro archivio è andato distrutto in un incendio».
Sbuffò. «Ma tu pensa».
«Non ci credi?».
Si strinse nelle spalle. «Secondo te?».
Avevano raggiunto il civico diciannove.
«Ci siamo quasi», disse lui. «Ventitré, hai detto?».
Andando avanti, Belle annuì ma non riuscì a parlare. Era strano sapere che un tempo i suoi genitori dovevano aver camminato sulla stessa strada che stava percorrendo in quel momento. Quale parte, ammesso ce ne fosse una, avrebbe recitato nella loro storia?
Quando apparve il ventitré , rimase inchiodata sul posto.
«Sembra abbandonata», disse, osservando le alte palme che facevano ombra alla casa. «Non me l’aspettavo».
«Provo il cancello», suggerì Oliver, ma un esame ravvicinato rivelò un lucchetto arrugginito che teneva chiusa l’elaborata quanto profondamente corrosa cancellata di ferro. «Un’altra entrata, magari?»
«Qualcuno potrebbe ancora abitarci».
Lui arricciò le labbra. «Forse, anche se sembra abbastanza improbabile».
Studiarono la verniciatura piena di bolle di porte e finestre e l’intonaco macchiato dei muri che un tempo dovevano essere stati bianchi e immacolati. La veranda in alto, ormai distrutta in più punti, circondava il piano superiore, e le persiane di legno ciondolavano con strane angolazioni, senza più proteggere le finestre sporche. Anzi, sembrava non fossero neanche state chiuse quando i suoi se n’erano andati.
«Un tempo doveva essere stupenda», disse Belle, sentendo arrivare un’ondata di tristezza.
«Una villa. Se la passavano bene».
Gli lanciò un’occhiata e glielo lesse negli occhi. «So che non approvi».
«Non si tratta dei singoli individui. È il sistema che non mi piace. Veniamo in questi Paesi e ce ne impadroniamo come per diritto divino».
Lo guardò camminare accanto alla cancellata arrugginita, inghiottita dalla vegetazione. Dopo un momento, la chiamò: «Qua c’è un varco».
Non sapendo se seguire un uomo che conosceva a malapena in una casa disabitata, un uomo dalla dubbia reputazione per giunta, Belle rallentò. Si era aspettata di trovare una dimora occupata e curata alla perfezione come tutte le altre, si era aspettata di osservarla dalla strada.
«Entri tu per primo?», chiese.
«Certo».
Quel luogo dimenticato la turbava, ma alla fine si avvicinò al varco attraverso il quale Oliver era ormai scomparso.
«Attenta», la avvertì. «Rovi».
Belle individuò una specie di sentiero che Oliver aveva aperto in mezzo alle sterpaglie e, anche se non riusciva a vederlo, ora la stava incitando a seguirlo. Belle esitò comunque e, dopo qualche istante, il giornalista riemerse di nuovo in strada.
Lo fissò. «Sai, non mi sembra giusto. È come se stessi spiando la vecchia vita dei miei genitori».
Lui le andò incontro e le tese una mano. «Possiamo andare fino in fondo o possiamo tornare indietro. Va bene in ogni caso».
Belle fece un respiro profondo, riflettendo, poi espirò lentamente. «Entriamo».
Risalirono il giardino e si fermarono sui gradini che conducevano alla porta d’ingresso, un tempo imponente ma adesso scolorita dal sole: legno duro che aveva un disperato bisogno di essere oliato. In cima alle scale, Oliver bussò alla porta, poi la tempestò di pugni.
Da dentro, nessuna risposta.
Improvvisamente piena d’energia, e saltando giù dagli scalini, Belle partì di gran carriera, voltandosi a guardarlo una volta sola. «Andiamo! Vado a controllare sul retro».
Oliver la raggiunse e corsero insieme, fianco a fianco, sul sentiero di ghiaia pieno di buche che girava attorno alla casa. Uno stagno ormai asciutto ne seguiva i contorni, completamente invaso dalle erbacce, e sul retro trovarono un’ampia terrazza che affacciava sui vasti giardini.
«Buon Dio», disse Belle, fermandosi a guardarli. «È una giungla».
Oliver stava sbirciando dall’unica, polverosa finestra dissigillata. Come le altre, anche quella doveva essere stata sbarrata, ma qualcuno aveva già fatto saltare le assi. «Non siamo i primi, si direbbe».
«Riesci a vedere qualcosa?»
«Dentro ci sono ancora dei mobili».
Lo affiancò. «È impossibile che ci viva qualcuno, no?».
Lui le lanciò uno sguardo interrogativo. «Vado a provare una di quelle porte, d’accordo?».
Belle acconsentì e Oliver tentò prima con la più grande, poi con un’altra più piccola su un lato della casa. Girò la maniglia, ma non cedeva, così appoggiò la spalla alla porta e spinse con forza. Stavolta si mosse.
«Non è chiusa a chiave», disse. «Ma è bloccata. Penso di poterla aprire».
Belle gli fece un sorriso d’incoraggiamento.
Oliver spinse ripetutamente e, alla fine, la porta si spalancò con un cigolio.
«Andiamo». Le tese una mano, ma lei esitò, riluttante, e fece una smorfia.
«Qua dentro non c’è nessuno», aggiunse. «Ne sono sicuro».
«Non è questo… non lo so. È come se stessi ficcanasando». Si strinse nelle spalle e abbozzò un sorriso di circostanza.
«Ripeto, possiamo andarcene. E forse i tuoi genitori non sono stati gli ultimi a vivere qui».
Belle scosse la testa. «Qualcosa mi dice il contrario».
Entrarono in una stanza buia.
«Torcia», disse Oliver, infilando una mano in tasca. All’improvviso, un fascio di luce rischiarò la parete di fondo, piena di mensole polverose. Mentre lui orientava la luce verso vari punti della stanza, Belle rimase a bocca aperta. Le ragnatele ciondolavano come pesanti tendaggi dal lampadario appeso al soffitto e oscuravano anche gli angoli. Alcune sedie rotte giacevano alla rinfusa su un tavolo sgangherato, sul quale si era accumulato anche un mucchio di rifiuti. Le mattonelle del pavimento, annerite da uno spesso strato di insetti morti e polvere, avevano bisogno di essere pulite a fondo. Vecchi giornali, scarpe spaiate e alcuni incarti sporchi giacevano abbandonati a terra, e nell’aria aleggiava odore di muffa. Di morte.
Vagarono insieme per le stanze al piano terra, invase dalle piante del giardino che si erano arrampicate e attorcigliate attorno ai telai delle finestre. Convolvolo esotico, pensò Belle, o quantomeno una rampicante che era riuscita a farsi largo attraverso le fenditure più sottili. Era così difficile immaginare che aspetto avesse avuto un tempo. All’epoca il parquet doveva essere stato tirato a lucido, mentre adesso bisognava scavalcare le assi mancanti e fare attenzione a quelle marce. Mobili abbandonati erano stati addossati alle pareti dei saloni dal soffitto alto: pezzi pesanti, difficili da spostare, quindi nessuno si era preso il disturbo di farlo. Lì le finestre non erano state sbarrate, e ne dedussero che ogni oggetto trasportabile, come i tavolini da caffè o le lampade, era sparito. Intravidero altre erbacce che sbucavano dalle piccole crepe nell’intonaco dei muri macchiati.
L’odore di muffa e marciume li seguì stanza dopo stanza, e in ciascuna Belle si fermò ad annusare l’aria. Triste. Inspiegabilmente triste. Non appena si era resa conto che la casa era abbandonata, si era aspettata di trovare un luogo pieno zeppo di segreti: una speranza, considerando quanti anni erano passati, abbastanza improbabile. Ma non c’era nemmeno la minima traccia della tremenda tensione che doveva aver inondato quelle stanze, solo una persistente malinconia.
Oliver era andato avanti, ma adesso stava tornando indietro a passo brioso, pieno d’entusiasmo, e Belle si ritrovò a sorridere quando lo vide passarsi una mano tra i capelli ribelli. “Non posso farci niente se mi piace”, pensò, anche se Rebecca sosteneva fosse un donnaiolo. Era così vitale. Più libero, più aperto dei colonialisti britannici con i loro doveri e l’onore e il voler fare la cosa giusta. Per un momento, prese in considerazione l’idea di parlargli del biglietto anonimo.
Si guardò di nuovo attorno. Sembrava che i suoi genitori se ne fossero andati in fretta e furia. Forse perché erano stati costretti a fuggire? Il pensiero le fece venire i brividi.
«Va tutto bene?», chiese Oliver, e Belle vide che malgrado l’atteggiamento disinvolto c’era una certa tenerezza nel suo sorriso.
Si erano fermati nell’enorme atrio della casa, di fronte a una grande scalinata.
«Mogano», osservò lui. «È un peccato vederla in questo stato. Vogliamo salire?».
Belle annuì.
Con cautela, salirono le scale fino a un ampio ballatoio a vista con sei porte aperte che conducevano in stanze illuminate dal sole.
«Qua va molto meglio», disse lei con un sorriso.
Nella prima stanza le finestre erano imbrattate di sporcizia, ma c’era ancora un grande letto senza materasso e due armadi dall’aria massiccia. Belle supponeva che una di quelle stanze fosse stata la camera da letto dei suoi genitori. Nella seconda, vide delle porte a vetri che aprivano su una veranda. Forse era quella? Provò la maniglia e, quando la portafinestra si socchiuse con un cigolio, uscì all’esterno, stando attenta a evitare i buchi nel pavimento. La vista era favolosa, e Belle immaginò i suoi genitori nello stesso identico punto, intenti a osservare quello che un tempo era il loro bellissimo giardino.
Dentro la stanza, Oliver aveva aperto una porta laterale. «Vieni a vedere», disse.
Lei lo raggiunse e si fermò sulla soglia di un piccolo vano vuoto che collegava la camera a un bagno. Possibile che fosse la cameretta della bambina? Fino a quel momento in casa non aveva rinvenuto tracce del passaggio di sua madre, ma lì? Lì era diverso. Lì la presenza di sua madre si percepiva in modo talmente forte che era difficile credere che non fosse in quella stanza. C’era qualcosa. Qualcosa di profumato.
Oliver aveva aperto le ante di una credenza a muro, ma dentro non aveva trovato niente, a parte qualche petalo e delle foglie rinsecchite. Le frantumò tra le dita e, quando si sgretolarono e caddero a terra, ne percepirono l’odore.
«Erbe aromatiche, penso», disse lui, «e rose, forse».
Belle si avvicinò ed esaminò la credenza.
«E questo cos’è?». Si chinò e tirò la maniglia d’avorio di un piccolo cassettino sul fondo. Sembrava chiuso a chiave. Oliver prese un coltellino dalla tasca della giacca e, dopo aver armeggiato per qualche minuto, riuscì ad aprire il cassetto. Lo tirò parzialmente fuori.
«Niente», disse.
«Fammi provare. Ho le mani più piccole». Belle le infilò proprio in fondo al cassetto e sentì qualcosa di morbido che pareva essere rimasto incastrato. Lo strattonò pian piano, poi con più forza, e tirò fuori quella che un tempo doveva essere stata una fascia di mussola bianca da neonata, ormai ingiallita, avvolta attorno a un oggetto solido.
«Cristo», mormorò mentre la sorreggeva con una mano. «È così vecchia».
«Cosa c’è dentro?».
Svolse delicatamente la mussola e, quando vide cosa conteneva, non riuscì a trattenere le lacrime.