26
Diana, Cheltenham, 1922
Mi sveglio con la peggiore emicrania della mia vita. È come se mi avessero presa a randellate in testa. La stanza è piena di luce, troppa luce, e quando mi guardo attorno mi accorgo che tutte le pareti sono di piastrelle bianche e nell’aria c’è un odore nauseante di acido fenico. Non sono a casa.
Sono accecata dalla luce e, in preda al panico, vorrei soltanto scappare nelle tenebre. Poi mi balena un pensiero. Un pensiero terrificante. Questo dev’essere il Grange. Provo a muovermi e scopro di essere legata al letto, non troppo stretta ma abbastanza da non potermi alzare. Perché mi ha portata qui? Mi aveva promesso che non mi ci avrebbe mai mandata senza il mio consenso. Mi metto a chiamare forte il nome di Douglas fino a urlare, ma non arriva. Entra invece una giovane donna vestita di azzurro, che penso debba essere una sorvegliante, e mi dice che se non faccio silenzio disturberò gli altri pazienti.
Esce, e io inizio a tremare dalla paura. Perché mi hanno portata al Grange? La testa mi fa ancora male e i pensieri vorticano talmente in fretta che non riesco a concentrarmi su nulla. Mi sforzo di ricordare, ma non riesco a fare chiarezza. Ho la mente annebbiata. Dov’ero ieri? Cosa stavo facendo? Strizzo gli occhi nel tentativo di ricordare e provo a rievocare le immagini. Poi sento una voce, una voce reale, che mi sta facendo una domanda. Apro gli occhi e vedo che la donna è tornata, e quando torreggia sopra di me faccio una smorfia perché avverto un cattivo odore.
«Le ho chiesto se riesce a sentirmi», ripete, compassata, piena di presunzione, guardandomi con evidente disprezzo.
Quando mi dice che sono al Cheltenham General Hospital, non al Grange, c’è qualcosa che non riesco a identificare e non le credo.
«Perché sono legata al letto se non sono al Grange?». La mia voce ha un suono aspro e roco, e sento di avere la gola irritata.
«È per la sua incolumità», dice e, chinandosi di nuovo sopra di me, sussurra: «Le abbiamo dovuto fare una lavanda gastrica».
«Non capisco. Voglio andare a casa. Perché non posso andare a casa?». Mi si riempiono gli occhi di lacrime e non riesco a impedire che cadano e bagnino il lenzuolo.
Increspa le labbra. «Ha dato parecchie preoccupazioni a tutti noi, ma credo che tornerà a casa».
«Ho…?»
«Cosa?»
«Compromesso la mia salute?».
Scuote la testa. «Ora il medico sta parlando con suo marito e prenderanno una decisione».
«Una decisione?»
«Decideranno se è sicuro dimetterla oppure no».
«Perché non dovrebbe?»
«Signora Hatton, non spetta a me dirlo. Ora deve riposare. Ha bisogno della padella?».
Scrollo il capo anche se mi servirebbe.
Non appena se n’è andata, cerco di ricordare e avverto un enorme senso di oppressione sul petto. Boccheggio, chiudo gli occhi e mi copro il viso con le mani. Le pillole di Veronal. Io che me le infilo in bocca come se fossero caramelle. Così tante pillole. Così tante.
Spalanco gli occhi sentendo bussare alla porta, poi entra un dottore seguito da Douglas. Vengo sopraffatta dal sollievo e tendo le braccia verso mio marito, ma lui rimane a qualche metro di distanza e ciò mi confonde. Lo guardo e noto le borse scure che ha sotto gli occhi, dovute alla stanchezza.
Sposto lo sguardo sul medico. «Posso parlare da sola con mio marito?».
Annuisce. «Per qualche istante».
Mentre resto distesa immobile e in silenzio, Douglas mi sorprende prendendomi per mano e iniziando a parlare in fretta, con poco più che un filo di voce. «Non abbiamo molto tempo», dice. «Devi dire che è stato un incidente. Che hai dimenticato quante ne hai prese. Diana, suicidarsi è un reato e chiunque tenti di farlo può essere portato in tribunale e incarcerato. Per fortuna il medico mi ha prestato ascolto e ha capito che ieri non eri veramente in te, che avevi un mal di testa tremendo e non avevi dormito molto. Gli ho detto che eri confusa. Hai capito? Devi dichiarare che si è trattato di un incidente».
Non appena torniamo a casa, Douglas mi accompagna in camera mia, dove qualcuno ha messo dei narcisi freschi in un vaso accanto alla finestra. Mi rilasso immediatamente, anche se mi accorgo che hanno portato via lo specchio. Pensano che finirò con il rimirarmi a morte?
«Grazie per aver pensato ai fiori», commento, ancora scossa, concentrandomi su respiri lenti e regolari. Lenti e regolari. Lenti e regolari.
Lui annuisce, e la sua espressione è dolce. «Tra poco la signora Wilkes ti porterà su un vassoio».
«Non riesco a ricordare», dico. «Cos’è successo?».
Fa un sospiro profondo e china il capo per un istante.
«So che hai detto allo psichiatra di essere andata al parco, ma sappiamo entrambi che non è vero. Prima passavi del tempo in giardino, ma adesso rimani sempre più rintanata qua dentro».
Mi mordo le labbra.
«Pensavo che per rimetterti in forze prima di trasferirti a Minster Lovell avremmo dovuto farti abituare un pochino di più al mondo esterno».
«Oddio», dico quando riaffiora il ricordo, poi strizzo forte gli occhi. Il sudore mi imperla la fronte e la base del collo. La sensazione di restare schiacciata sotto questo peso implacabile mi priva di ogni pensiero razionale. Ho caldo e ho un terribile capogiro. Mi si comprime il petto e fa così male che sento di non riuscire a respirare, che sto soffocando, che sto per morire. Mi allungo verso Douglas, in preda al panico, e comincio a tremare in modo incontrollabile. Il panico aumenta e aumenta. Mi travolge. Anche se so che Douglas sta parlando, non riesco più a sentirlo. La sua bocca si muove mentre lo fisso con gli occhi sgranati. Si muove e si muove, tanto che vorrei mettermi a piangere. Poi si appanna tutto.
Douglas mi sorregge, mi sussurra all’orecchio con voce rassicurante, e adesso lo sento. «Va tutto bene, Diana, sei a casa. Va tutto bene».
Apro gli occhi. Sono davvero nella mia stanza.
«Stai solo ricordando ciò che hai provato ieri. Sei al sicuro. Mi dispiace così tanto per quanto accaduto».
«Non è colpa tua».
«Oh, invece sì, e me lo rimprovero. Avrei dovuto capire quanto ti avrebbe fatta stare male. Ma, vedi, all’inizio stavi bene, quando eravamo in giardino. Poi siamo andati al parco, quasi fino allo stagno, ed è stato proprio allora che è andato tutto storto. Troppo lontano, troppo presto. Ti ho incoraggiata a spingerti oltre i tuoi limiti».
«E quando siamo tornati a casa?»
«Sei andata subito a letto, anche se era ancora pomeriggio. Mi rimprovero anche questo. Avrei dovuto chiedere a qualcuno di restare con te».
Il ricordo riemerge. Douglas se n’era andato. Ero felice di essere rimasta da sola e, mentre ero sdraiata sul letto a fissare le quattro mura di camera mia, pensavo di essere diventata la guardiana del passato e che era giunto il momento di lasciarlo andare. Con tutte le emozioni, il rammarico, le speranze e i sogni perduti. Tutto. Quando ho chiuso gli occhi, ho visto i volti delle persone che se ne sono andate prima di me e poi, quando il passato si è dissolto, su di me è calata una pace straordinaria. Mi era stato detto cosa fare. Era tempo di concedersi di cadere nel vuoto per tornare alla vita e lasciarsi il dolore alle spalle. Così ho deciso di prendere le pillole. Stavo sorridendo, felice. Avevo finalmente fatto una scelta.
«La signora Wilkes era preoccupata», sta dicendo Douglas. «Non riusciva a svegliarti quando è venuta su a portarti la cena».
«Pensavo che sarebbe stato meglio per tutti. Mi spiace così tanto per il disagio, Douglas».
Mi accarezza la mano. «Ho mandato un telegramma a Simone chiedendole di venire a stare con te finché non ti sarai rimessa e potrai trasferirti. Ho già fatto il rogito per il cottage, così sarà pronto, completamente arredato e in tua attesa».
Mi concentro sui suoi occhi. «Ci devo ancora andare?»
«Penso sia la soluzione migliore, tu no?»
«Non lo so», rispondo, e la mia mente vaga.
«Non ti costringerò, ma l’alternativa è prendere un’infermiera che si occupi di te in questa casa, giorno e notte, e hai già detto che non vuoi. Sono immensamente preoccupato per le ripercussioni che potrà avere su Annabelle».
Riporto l’attenzione su di lui. «Sai quando arriverà Simone?»
«No, ma ho sottolineato che era urgente».
Spero mi faccia restare finché non mi sentirò più forte. Non lo dico, ma quando va avanti so che mi ha letto nel pensiero.
«Non ti preoccupare. Non c’è fretta».
Lo osservo con occhi velati. «È stato come se una voce mi dicesse che dovevo farlo».
Aggrotta la fronte, anche se non capisco se è preoccupato o arrabbiato.
«Che è esattamente il motivo per cui non puoi restare da sola e io non posso essere sicuro che una “voce” non ti dica di fare del male ad Annabelle. Se non vai, cosa ci riserverà il domani?».
Distolgo lo sguardo. È una domanda seria e la verità che contiene mi ferisce, ma vorrei non aver menzionato la voce. Mi sono davvero sentita così persa da non riuscire a immaginare un’altra via d’uscita? Sono così priva di speranza, così distrutta dal passato? O è stata la voce a prendere il sopravvento? Devo ancora accettare il fatto che la voce potrei essere io.