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Diana, Cheltenham, 1922

 

Simone sta con me da tre settimane e devo ammettere che non mi sono mai sentita meglio. Dopo essermi ripresa dal gesto sconsiderato che mi ha fatto finire in ospedale, abbiamo iniziato con delle piccole uscite, nel giardino davanti casa, dove ci fermiamo a guardare il parco per un paio di minuti. Mi tiene per mano e, pochi istanti prima di arrivare al punto in cui ho la sensazione che il mondo stia per richiudermisi addosso, lei sembra intuirlo e torniamo subito dentro. Ogni giorno ci spingiamo un po’ più avanti e ogni giorno resisto un po’ più a lungo.

Simone è la persona più tollerante che io abbia mai conosciuto, non giudica mai né allude a cose che mi facciano sentire indegna. Ha cieca fiducia nel fatto che un giorno o l’altro mi riprenderò del tutto, e la sua presenza calma e rassicurante è proprio ciò di cui ho bisogno. Provo a credere che andrà tutto bene, ma ieri la voce mi ha fatta precipitare di nuovo nel baratro e, solo dopo pochi minuti all’aperto, il cuore sembrava volermi saltare fuori dal petto. Simone mi ha detto di respirare lentamente e mi ha incoraggiata a non correre subito dentro, ma concentrarmi sui fiori allineati nelle aiuole davanti casa. E l’ho fatto. L’ho fatto davvero.

Mi sta aiutando a impacchettare tutte le mie cose in vista del trasloco. Nutriamo la speranza che da qui a breve sarò in grado di sostenere il viaggio in auto. Se mi accompagna qualcuno, l’idea di andare in macchina non mi preoccupa più di tanto. È stare all’aperto che mi fa sentire risucchiata.

Ora Simone è seduta sul pavimento e guarda alcune fotografie della nostra vita in Birmania. Non crede che dovrei evitare la cosa che mi terrorizza. Dice che evitarla non fa che peggiorare la situazione e crede sia il motivo per cui sento la voce. Pensa che l’oscurità che mi rifiuto di affrontare, se non addirittura di accettare, debba trovare una valvola di sfogo. Di conseguenza, per provare a sconfiggere la voce, ogni giorno passiamo al contrattacco trascorrendo un quarto d’ora a ripensare al passato. Non c’è una mappa che mi mostri la strada. Non mi resta altro da fare che prendere le cose come vengono. Con i vicoli ciechi e tutto il resto. Così, tentiamo di destreggiarci tra i ricordi, anche se a me sembra una follia e la assecondo soltanto per farle piacere.

Quando mi siedo sul tappeto con lei, Simone tira fuori una delle uniche due fotografie che ho di Elvira e, ancora prima che me la porga, sento crescere il panico e distolgo lo sguardo.

«Forza, Diana. Dai un’occhiata. Non ti succederà niente».

La sua espressione è difficile da decifrare, ma alla fine acconsento e abbasso gli occhi su una versione più giovane e sbiadita di me stessa che sta cullando la sua primogenita. Mentre sfioro delicatamente l’immagine con l’indice, un verso strozzato mi sfugge dalla gola.

«Diana?».

Sollevo lo sguardo, angosciata. «Ma non so cosa ho fatto».

«Pensi di aver fatto del male alla tua bambina?».

Scuoto la testa. «L’amavo», dico, ma la mia voce è poco più che un sussurro.

«Hai paura che la voce ti abbia detto di farle qualcosa? È così? Avevi già iniziato a sentire le voci?».

Sospiro. «Non riesco a ricordare. Se non già all’epoca, ho iniziato poco dopo».

Cala un lungo attimo di silenzio mentre i fotogrammi del passato mi sfrecciano davanti agli occhi. La carrozzina, sempre quella carrozzina sotto il tamarindo e io che osservo i rami e ascolto gli uccellini. A pranzo avevo bevuto due grossi bicchieri di Pink Gin e mi girava un poco la testa. Non l’ho detto al poliziotto, anche se potrebbe averlo saputo da uno dei domestici. Ricordo il sollievo che avevo provato quando Elvira si era finalmente addormentata. Non negherò che i suoi vagiti mi risultavano quasi insopportabili. Non per il pianto in sé e per sé, anche se è in grado di far impazzire qualsiasi madre, quanto per il fatto che non riuscivo mai a calmarla, a prescindere da quanto ci provassi. Il dottore diceva che molto probabilmente erano le coliche e sarebbero passate, ma io mi sentivo impotente ogni volta che ascoltavo i suoi penosi lamenti.

«Sei stata brava», dice Simone, prendendomi a braccetto. «Ti senti bene?».

Non la sto ascoltando con attenzione, ma torno al presente, faccio cenno di sì con la testa e poi le restituisco la fotografia.

«Domani», dice con un sorriso fiducioso mentre mi aiuta a rimettermi in piedi, «potremmo chiedere alla signora Wilkes di regalarci un po’ di pane raffermo, così andiamo a dare da mangiare alle anatre dello stagno. Che ne dici?»

«Magnifico», rispondo. Quando in realtà intendo: “Scherzi?”. Riuscirò davvero a spingermi fino allo stagno?