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Diana, Cheltenham, 1921
Mentre guardo Pittville Park fuori dalla finestra e osservo i piccioni – piccole sagome nere allineate sul tetto di una delle case dall’altro lato dell’enorme parco – sento mia figlia chiamare suo padre. Dev’essere affamata. Mi sento traboccare d’energia, così afferro la vestaglia e scendo di corsa le tre rampe di scale fino alle viscere della casa. Ci sono uova e pane, ne sono sicura. Le preparerò uova sode con striscioline di pane tostato; il suo piatto preferito. Invece, quando irrompo in cucina saltellando per la trepidazione, vengo accolta dal profumino dello stufato di manzo e capisco che l’ho interrotta, perché la vedo seduta al tavolo di pino sgrossato insieme alla signora Wilkes, la nostra governante. Sono sedute vicine e mi osservano con aria sorpresa. Sbarro gli occhi a mia volta e sento il desiderio di mettere in chiaro che quel posto appartiene a me. Sono io quella che ha vissuto qui dentro più a lungo di chiunque altro.
La mia mente va a ritroso, tornando indietro negli anni fino ai vecchi tempi, quando la casa apparteneva a mio padre e poi a me, dopo la morte di mia madre, stroncata da una spaventosa influenza. Mio padre è andato a vivere a Bantham, nel Devon, dove abbiamo una residenza estiva, ed è rimasto rintanato lì. Sente la mancanza di mia madre e io ho davvero cercato di andarlo a trovare, almeno finché viaggiare non è diventato troppo rischioso. Ma prima ancora, quando ero una bambina, ero abbastanza felice in questa vecchia casa.
Vorrei tenere aperta più a lungo quella finestra su un passato più innocuo, ma la signora Wilkes si alza e, quando lo fa, la finestra si chiude di colpo e io vengo scaraventata nel presente.
«Mi sono trattenuta. Spero non le dispiaccia, signora, ma la bambina aveva bisogno di mangiare».
Annuisco, ma avverto il biasimo nel suo tono di voce.
«Tesoro», dico rivolta alla mia bambina. «Vuoi che ti legga la favola della buonanotte stasera?».
Alza la testa e mi guarda negli occhi. «No, mammina, grazie. Me l’ha già promesso papà».
Mi mordo il labbro e deglutisco. Poi giro sui tacchi e torno verso le scale con le lacrime che mi pizzicano le palpebre.
La gente mi lancia occhiate ansiose e dice che sono i miei nervi. Una volta, ho sentito la governante parlare con il fattorino – il fattorino! – e dire: «È vittima dei suoi nervi». Ma non sono i nervi: ho paura della voce.
Torno nella mia stanza, al piano di sopra; la pioggia sta sferzando la finestra e il parco appare inospitale ora che il crepuscolo sta cedendo il passo alla notte. Ma riesco ancora a distinguere le luci nelle case dall’altro lato del parco, e quei piccoli rettangoli dorati che brillano come fari mi danno speranza. Immagino famiglie felici, il marito che torna a casa dal lavoro, si toglie il cappello e abbraccia sua moglie. I bambini, diciamo tre, corrono giù dalle scale strillando: «Papà, papà è a casa!». E la moglie li allontana, dirottandoli nella cameretta dei giochi, così papà potrà leggere il giornale piegato con cura mentre si gode un goccio di whisky Laphroaig in santa pace.
«Vuoi da bere, caro?», dirà lei, completamente ignara della fragilità delle cose.