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Poco prima delle cinque, quando cominciò a rinfrescare e con un’ora da ingannare prima dell’incontro con l’assistente di Guttridge, Belle, sentendo la necessità di distrarsi, decise di lasciare la casa di riposo e di andare a fare un giretto da sola. Visto che la partenza della barca era prevista per le otto, aveva un sacco di tempo, quindi tracannò un bicchiere d’acqua e fece scivolare in tasca alcune mentine.

Un venticello leggero aiutava ad attenuare il caldo e, finché si teneva all’ombra degli alberi più alti e frondosi, riusciva a restare relativamente al fresco. Seguì il sentiero giallognolo e polveroso, prestando ascolto allo scricchiolio dei suoi passi e scegliendo di svoltare a destra a ogni incrocio, così al ritorno le sarebbe bastato girare sempre a sinistra. Per poco non schiacciò un coleottero lungicorno con delle specie di pompon sulle antenne e si fermò un attimo a osservare i suoi movimenti. Superò le stesse case che aveva visto in precedenza, solo che adesso i recinti erano più affollati, con intere famiglie sedute fuori all’ombra e l’odore della salsa di pesce e delle cipolle fritte sui bracieri pieni di carbone. I raggi del sole che filtravano tra le foglie degli alberi proiettavano mutevoli giochi di luce sul terreno riarso e tutti sembravano talmente affascinanti e cordiali che Belle li salutò con la mano prima di continuare a camminare, allontanandosi sempre di più dal centro del villaggio.

Quando un cane socievole iniziò a tallonarla, ascoltò il cinguettio degli uccelli e pensò a Elvira. Come sarebbe stata la sua infanzia se fosse cresciuta insieme a una sorella? Avrebbero condiviso dei segreti e si sarebbero difese a vicenda come facevano tante sorelle? O sarebbero diventate due rivali impegnate in bisticci infiniti, in cerca di attenzioni e incapaci di andare d’accordo? Immaginò che Elvira stesse camminando al suo fianco, strette l’una all’altra e intente a indicare questa e quella pianta, e a ridere in modo troppo sguaiato per qualche sciocchezza o di qualcuno che entrambe trovavano buffo. E che dire dei pettegolezzi sui ragazzi tra i risolini soffocati dopo che i loro genitori fossero andati a dormire? I loro genitori. Si chiese, e non senza che le salisse un groppo in gola, come avrebbe potuto essere sua madre…

Continuò a camminare assorta nei suoi pensieri, senza sapere realmente dove stesse andando, finché non si guardò attorno e vide di essersi lasciata alle spalle anche l’ultima casa e di essere arrivata in una specie di sterpaia. Volendo evitare quel sole ancora cocente, si diresse verso un boschetto accanto a una stupa e, mentre era sdraiata sull’erba e succhiava una mentina, osservò pigramente la luce bassa del tardo pomeriggio, con un solo accenno di rosa lungo la linea dell’orizzonte.

Controllò che ore fossero. Mancava ancora un pochino. Il suono delicato delle campane del tempio veniva condotto dal vento e gli odori silvestri delle foglie degli alberi si mescolavano al profumo dolciastro dei fiori bianchi che crescevano in grande abbondanza. Chiuse gli occhi e si rilassò contro il tronco di un albero riscaldato dal sole. Si stava crogiolando così già da un po’, in ascolto del tap-tap-tap di un uccello tra i rami, forse un picchio, quando trasalì, strappata alle sue fantasie da un lamento cupo. Spalancò gli occhi e si rialzò in tutta fretta. Si diede una ripulita, pronta a rimettersi in marcia, non sapendo se sarebbe riuscita a tornare in tempo e rimproverandosi per la propria stupidità. Ma il lamento tornò a farsi sentire, solo che stavolta sembrava ancora più straziante. Qualcuno stava soffrendo in modo insopportabile e così, a dispetto della forte apprensione, e sperando di non lasciarsi attirare in una trappola, Belle decise di indagare. Più che consapevole di essere una donna e una straniera in un Paese che capiva a stento, non aveva la più pallida idea di quali strane pratiche potessero aver luogo da quelle parti. Per non parlare dei serpenti e degli insetti velenosi che si nascondevano nel sottobosco. Con cautela, girò attorno alla circonferenza della stupa, tenendo gli occhi ben aperti per evitare problemi, e per poco non inciampò sulla donna incinta della barca, che ora giaceva su un fianco con le gambe spalancate.

Belle crollò in ginocchio e si accucciò accanto a lei. «Va tutto bene?», le chiese. «Posso andare a cercare aiuto».

La donna allungò una mano tremante. «No, ti prego. Non andare. Ho paura».

«Ma perché sei qui da sola?».

La donna gemette per il dolore prima di poterle rispondere. «Volevo portare avanti la gravidanza. Il tempo è finito, ma devo partorire sulla nave, altrimenti mio marito si arrabbierà».

Belle aggrottò la fronte. Era un’altra di quelle bizzarre superstizioni di cui aveva già sentito parlare? «Che importanza ha?», domandò.

«Nascere su una nave sul fiume Irrawaddy è una grandissima fortuna. L’ho già risalito una volta».

«Dov’è tuo marito?»

«Lavora al segretariato di Rangoon, ma non ha potuto prendere altri giorni di permesso per un secondo viaggio».

«Quindi sei venuta da sola?».

La donna gemette in modo angoscioso.

Belle si rimise in piedi. «Devo davvero andare a cercare aiuto. Non ho mai assistito a un parto». E non accennò al fatto che la sola idea le stava facendo torcere le budella.

La donna indicò una borsa di tela. «Ho portato la curcuma con cui cospargere il corpo del bambino. Serve a scacciare gli spiriti maligni, e poi dobbiamo anche trovare l’astrologo. Ce n’è uno sulla nostra barca. Me ne sono accertata prima che partissimo».

«Pensi di poter arrivare fino alla barca?».

Allungò di nuovo la mano e Belle l’aiutò a rialzarsi, ma la poveretta si piegò subito in due, stringendosi il pancione e piagnucolando. Belle riuscì a farla sedere all’ombra di un albero, ma era chiaro che non sarebbe mai riuscita a tornare alla barca in tempi brevi.

«Come ti chiami?», le chiese, accovacciandosi al suo fianco e continuando a tenerle la mano.

«Hayma. Significa foresta. Sono nata in una foresta».

«Non sei di Rangoon?»

«No, ma sono nata in un piccolo villaggio non lontano dalla città». Si piegò di nuovo su se stessa, il viso distorto dal dolore, e Belle capì che stava cercando di reprimere un grido.

La morsa della paura le strinse il cuore. «Devo andare a cercare aiuto», ripeté, lanciando un’occhiata all’orologio. Sapeva che ormai avrebbe mancato l’appuntamento, ma era anche terribilmente in ansia per Hayma.

«Ti prego, ti scongiuro, non lasciarmi qua da sola».

Belle acconsentì, e nei venti minuti successivi la donna mantenne relativamente la calma. Sembrava più tranquilla ora che c’era lei a tenerle compagnia. Ma ben presto ricominciarono le contrazioni. Belle si guardò attorno, sperando di individuare qualcuno che potesse darle il cambio. All’inizio il posto rimase deserto, ma dopo una mezz’ora scorse una donna con un bambino sulla schiena che stava solennemente percorrendo il sentiero di ritorno al villaggio. Le fece cenno di avvicinarsi e, tra una contrazione e l’altra, Hayma riuscì a parlare con lei. Dopo un momento, la donna fece dietrofront e si allontanò a passo svelto.

«È andata a cercare aiuto», spiegò Hayma.

Ma la donna non tornò immediatamente e, mentre cercava di tranquillizzare Hayma, Belle capì che non poteva mancare ancora molto. Si spremette le meningi. Cosa si doveva fare con un neonato? Si grattò la testa, desiderando di potersi consultare con qualcuno, e poi, alla fine, la donna con il bimbo sulla schiena tornò con quello che sembrava essere un grosso fagotto di stracci e una brocca d’acqua. Tirando un enorme sospiro di sollievo, Belle si alzò in piedi.

Prima che il bambino nascesse, il sole aveva cominciato a tramontare a est, il cielo era diventato vermiglio e poi, in un lampo, si era trasformato in una cappa vellutata color indaco, con una spolverata delle minuscole lucine di milioni di stelle. Belle sentiva la magia che si stava ridestando nei boschi e, sotto la superficie della realtà quotidiana, la vita le appariva profonda e viscerale. Animata dalla trepidazione, trattenne il fiato. E poi accadde. Quando la piccola venne finalmente al mondo, gli intensi profumi notturni e il canto furioso delle cicale si portarono appresso un’ondata di gioia. Vide una stella cadente e sentì i pipistrelli rossetta stridere tra gli alberi, come a dare il benvenuto alla neonata, e Belle capì che non avrebbe mai dimenticato quel momento. Restò con Hayma, le tenne la mano, e levò una piccola preghiera finché la bimba non lanciò il suo primo vagito indignato. “Brava piccolina”, pensò. “Fai sentire la tua voce”.

Dopodiché, seppur con riluttanza, si rimise in cammino, ma se ne andò sapendo che la vita le aveva offerto quell’opportunità straordinaria per ristabilire l’equilibrio. Sì, aveva visto la morte in faccia, morti terribili e violente, morti che l’avrebbero accompagnata per il resto della vita, ma aveva anche assistito alla nascita di una nuova vita e, più di ogni altra cosa, si sarebbe aggrappata a quello.

Dopo aver sbagliato strada più di una volta, con le mani sopra la testa per proteggersi dai pipistrelli che volavano a bassa quota, e sperando di evitare eventuali serpenti usciti dalle loro tane in cerca di cibo, si concentrò sull’unico sentiero che riusciva a ricordare e, alla fine, ripercorse a ritroso la strada per la casa di riposo. Erano le otto e trenta, e non era neanche così sicura che la barca l’avesse aspettata.

Lo scoprì subito, perché la prima persona che incrociò fu Harry Osborne. L’espressione furente che aveva sul volto mentre faceva avanti e indietro per l’atrio, borbottando tra sé e sé con aria belligerante, le disse tutto ciò che aveva bisogno di sapere. Non appena la vide, rimase di sasso e la fulminò con lo sguardo.

«Per la miseria, le pare questa l’ora di arrivare?»

«Mi dispiace così tanto», disse, cercando di mantenere la calma, quando in realtà era ancora sbalordita per aver assistito alla sua prima nascita. «Davvero, non è stata colpa mia».

«Voi donne siete tutte uguali. Rimpiango di aver accettato questo incarico». Si morse un labbro e fece una faccia strana, come se avesse detto la cosa sbagliata, poi spinse gli occhiali sul naso con un gesto stizzito.

Belle sentì che puzzava di whisky e si accigliò. «Incarico?».

Non riusciva a incrociare il suo sguardo. «Voglio dire… ehm… Concederle di accompagnarmi, intendo. In ogni caso, abbiamo perso quella stramaledetta barca».

«Sono davvero mortificata. Ho dovuto aiutare una donna incinta. Era…». Ma non riusciva a trovare neanche una sola parola in grado di esprimere quanto fosse stato meraviglioso presenziare all’arrivo di una nuova vita. E come, per un paio di minuti almeno, avesse avuto l’impressione che al mondo non potessero esserci altro che cose buone e giuste.

Harry inarcò le sopracciglia, come se non le credesse affatto, ma non fece commenti.

«Allora, che facciamo adesso?», domandò lei.

Lui sospirò. «Sono riuscito a trovare due cabine per domani mattina».

«Oh, splendido».

La guardò con un sorriso sardonico. «Non ha ancora visto la barca. Dubito che la troverà splendida. Grazie al cielo, arriveremo a Mandalay in tempo per il nostro incontro con Alistair Ogilvy, il commissario distrettuale. Se avesse mancato quell’appuntamento, il mio nome ne sarebbe uscito infangato. Se c’è qualcuno in grado di sapere qualcosa, quello è lui. Ad ogni modo, l’assistente di Guttridge la sta aspettando al bar».

«Grazie».

Malgrado avesse sete e non vedesse l’ora di togliersi quei vestiti impolverati e di immergersi in una vasca da bagno, si incamminò in direzione del bar. Dalla porta aperta, riuscì a intravedere l’uomo che, seduto con la schiena ben dritta su uno dei due divanetti, si alzò a riceverla non appena entrò, e si accorse che era minuscolo, con grandi orecchie a sventola e ispidi capelli bianchi.

Le fece un piccolo inchino e lei sorrise.

«Io sono Nyan», disse. «Si accomodi, la prego. Aveva delle domande da pormi?»

«Sì. Mi spiace così tanto di averla trattenuta».

«Trattenuta?»

«Di averla fatta aspettare».

Le rivolse il più dolce dei sorrisi. «Nessun problema».

«Stiamo parlando di tantissimo tempo fa. Del 1911, per la precisione, ma il signor Guttridge mi ha detto che lei ne avrebbe saputo qualcosa».

«Me ne ha accennato e, sì, mi ricordo bene. Ero commissario di bordo sulla stessa barca diretta a Mandalay e fui io a sollevare la questione con il capitano».

«E quindi, cos’è successo di preciso?»

«Non molto. Posso dirle che la bambina era piccola e sembrava europea, mentre la coppia che l’accompagnava veniva dalla Thailandia e non era giovane. Anche se espressi la mia preoccupazione, il capitano non voleva scenate e rifiutò di immischiarsi. Era uno scozzese indolente prossimo al pensionamento, se ben ricordo». Fece una pausa, all’apparenza imbarazzato. «Mi scusi. Porto grandissimo rispetto nei confronti di tanti altri capitani scozzesi dediti al loro lavoro che il nostro fiume ha visto all’opera nel corso degli anni. Lui non era uno di loro, purtroppo».

«E allora?»

«Interrogai la coppia, e sostenevano che la piccola fosse la loro nipotina. Io avevo i miei dubbi, ma divenni ancora più sospettoso quando un po’ di tempo dopo, quello stesso giorno, chiesi loro di ripetermi la storia. Stavolta dissero che stavano risalendo il fiume per portare la bambina dai suoi nonni, che erano britannici. Dissero che la prima volta non avevano capito bene la mia domanda, ma io avevo il timore che ci fosse qualcosa che non andava e decisi di informare le autorità non appena avessimo gettato l’àncora, con o senza l’approvazione del capitano».

«E lo fece?».

Annuì. «Li vidi sbarcare, ma, quando raggiunsi la polizia locale, ormai era troppo tardi. Non disponevo dell’autorità necessaria per trattenerli e il capitano si lavò le mani dell’intera questione».

«E la polizia si mise a indagare?».

Sospirò. «Sì. All’inizio fecero ricerche a tappeto nell’area circostante, ma la coppia era svanita nel nulla. Nessuno voleva ammettere di averli visti. Tuttavia, io sapevo della piccola scomparsa da un giardino a Rangoon e temevo che la bambina fosse stata rapita. Vede, era su tutti i giornali, quindi speravo ancora di poter persuadere la polizia a estendere il raggio delle ricerche».

«E non lo fecero?», domandò Belle, avvertendo una punta di delusione.

«No. Temo di no».

«È sicuro che fosse una bambina?»

«Sì».