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Belle si fermò davanti al tempio e lo osservò. Riusciva a intravedere un ampio ambiente interno in cui le colonne rosse, decorate con ideogrammi e simboli cinesi, sostenevano il tetto con le travi lasciate a vista. Lanciò un’occhiata a Rebecca, che era andata avanti da sola.

«Cos’è?», le chiese.

«Un tempio cinese. Entra pure se vuoi».

Belle annuì e fece qualche passo all’interno, ma venne assalita all’istante dall’odore pungente dell’incenso e dal fumo che si levava da alcune ciotole piene di bastoncini profumati. Tossì e sputacchiò mentre cercava di abituarsi, e scorse un baldacchino dorato che sormontava statue di leoni cinesi e altri idoli che non riuscì a identificare. Forse Confucio, o magari Buddha? Sui tavoli d’ebano intagliato c’erano vasi di crisantemi gialli e rossi, e al di sopra lanterne dello stesso colore appese alle travi.

Un uomo con una lunga tonaca si avvicinò a Belle e, in un inglese stentato, le domandò se voleva che le leggesse il futuro. Incoraggiata dai cenni insistenti di Rebecca, accettò e le venne chiesto di formulare una domanda. Non era riuscita a dimenticare il biglietto, così gli chiese se lì a Rangoon c’era qualcuno di cui non si doveva fidare. La lettura del futuro si rivelò una procedura complessa, con tanto di bastoncini di legno e un oggetto rotondo di legno dipinto di rosso, composto da segmenti che ricordavano gli spicchi di un arancio. In tutta risposta, le venne semplicemente detto che aveva posto la domanda sbagliata e che presto avrebbe affrontato un viaggio.

Belle e Rebecca si scambiarono uno sguardo, e l’altra si limitò a fare spallucce e dire: «Buon per te».

Lasciato il tempio, ignorarono i chioschi del tè e i banchetti di generi alimentari agli angoli delle strade e alla fine raggiunsero un’area chiassosa oltre il lungofiume, che Gloria le aveva detto essere abitata dai cinesi. Quando si imbatté nel dedalo di viuzze nascoste, impregnate dall’odore di gelsomino e riso fritto, Belle non poté fare a meno di ripensare all’avvertimento della donna.

C’è da mettere a repentaglio la propria incolumità.

«È sicuro?», domandò, irrequieta in mezzo alla ressa di persone che affollavano le strade fumose e claustrofobiche.

Rebecca rise e gettò indietro i capelli biondi. «Da sola forse no, ma stammi vicina. Andrà tutto bene, te l’assicuro».

«Perché siamo venute qui?»

«Tanto per cominciare, assaggerai il miglior cibo cinese che tu abbia mai mangiato, e secondo, andremo a bere».

Belle non le disse che non aveva mai mangiato cinese in vita sua.

Osservò i lunghi caseggiati con le saracinesche abbassate, dove le strette casupole di legno erano addossate le une alle altre, la maggior parte con un negozio al pianterreno – dove si vendevano cibo cotto, verdure, pesce, gingilli e via dicendo – e l’abitazione vera e propria al piano di sopra. Confusa dai suoni acuti dell’incomprensibile lingua dei venditori cinesi, si accorse che al frastuono contribuivano anche lo starnazzare delle galline e i versi striduli dei maialini rinchiusi nelle gabbie di bambù. E mentre schivavano i tanti cani che setacciavano a zig-zag le strade in cerca di avanzi e i bambini spericolati che correvano tra le biciclette e le gambe dei pedoni, l’intera zona pulsava di vita.

Non appena si inoltrarono nel quartiere, il profumo di gelsomino svanì e le strade presero a trasudare una mescolanza di odori di carbone bruciato, pesce fritto e acque di scolo. Rebecca la precedeva senza voltarsi e Belle, di nuovo preoccupata, si chiese se potesse davvero fidarsi della compagna di stanza. E se si fosse volatilizzata, abbandonandola lì da sola? Ma poi Rebecca si fermò e fece un inchino davanti a un negozietto minuscolo, nascosto in un passaggio secondario che si snodava dietro un vicolo più ampio.

«Ta-da!», esclamò con un sorriso e uno svolazzo della mano.

Belle contemplò ammirata la vetrina, meravigliandosi nel vedere strati e strati di sete dai colori vivaci ripiegate con cura: andavano dal colore del tramonto birmano allo scintillante rosa e giallo, fino ai tenui celesti perlati.

«È il migliore ma anche il più economico di Rangoon. Ai britannici non piace venire qui, e così sborsano più del dovuto da Rowe’s. Vogliamo entrare?»

«Ci puoi scommettere».

Rebecca spinse la porta di legno riccamente intagliato, facendo tintinnare un campanellino.

Belle si fermò appena varcata la soglia, imbambolata, poi fece scivolare i polpastrelli sui rotoli di seta lavorata, i sensi in fiamme.

«Vorrei tanto comprarne un po’, ma cosa ci potrei fare?»

«È qui che entro in gioco io. Ho un’amica cinese che fa la cameriera al Silver Grill… non ci sei ancora stata?».

Belle scosse la testa.

«Be’, ci dobbiamo andare, ma il punto è che la mia amica mi ha presentato il proprietario di questo negozio e sua figlia è una sarta di grande talento. Sa copiare qualsiasi modello disegnato dagli stilisti più famosi».

«E dov’è?».

Rebecca rise. «Al piano di sopra. E ha una montagna di riviste. E applica lo stesso tasso di cambio della piazza, o di poco superiore. Vai su, scegli lo stile che ti piace, lei ti dice quanti metri comprare e poi tu scegli il tessuto».

«Possiamo salire adesso?»

«Lo sapevo che non saresti stata nella pelle. Alle altre ragazze non ho parlato di questo posto».

«Perché a me sì?»

«Eri così abbacchiata. Non c’è niente di meglio di un vestito nuovo, soprattutto se non costa un occhio della testa. Niente sensi di colpa. E volevo scusarmi con te».

Belle avrebbe potuto abbracciarla.

Salirono un’angusta scaletta di legno e, al piano di sopra, Belle conobbe Mai Lin, la sarta. Dopo aver sfogliato parecchi numeri di «Vogue», si decise per un abito audace e aderente come un guanto, tagliato di sbieco, che le fasciasse delicatamente i fianchi e lasciasse completamente scoperte la schiena e le spalle. Scelse di abbinarci una giacca da sera, un modello leggermente squadrato, per le serate più fresche e i drink dopo gli spettacoli.

Venne servito del tè verde in minuscole tazzine di porcellana, a Belle furono prese le misure, poi lei e Rebecca tornarono da basso a scegliere la seta. Disorientata da tutti quei colori meravigliosi, non riusciva a decidere. Dopo una lunga riflessione e parecchi ripensamenti, optò per una seta argentata, semplice ma bellissima, ricamata con fili di un azzurro chiarissimo.

«E adesso andiamo a mangiare», disse Rebecca non appena Belle ebbe pagato.

«Tu non compri nessuna stoffa?».

Rebecca scosse la testa. «Stavolta no. L’ultimo abito l’ho pagato giusto la scorsa settimana».

Quando lasciarono il negozio, Belle scrutò la strada.

«Andiamo, pelandrona», la esortò Rebecca che si era già avviata, ma qualcosa aveva attirato l’attenzione di Belle, o meglio, qualcuno. Dall’altro lato della strada, Edward passeggiava con una donna dai capelli rossi. Belle stava per alzare una mano e salutarlo ma, preso com’era dalla conversazione, lui non l’aveva notata. La coppia si allontanò, tuttavia Belle aveva la sensazione che la donna avesse un’aria familiare, anche se non riusciva a capire perché. Poi si rese conto che le aveva ricordato un pochino sua madre. Ma era tutto lì? E se ci fosse stata una minima possibilità? Possibile che quella fosse Elvira? Accantonò il pensiero, ritenendolo altamente improbabile.