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Diana, Minster Lovell, 1922

 

Oggi vedrò il dottor Gilbert Stokes per la prima volta. So ben poco di lui, se non che ha lavorato per qualche anno al Radcliffe Infirmary di Oxford e poi al manicomio Radcliffe. Quando Simone me l’ha detto devo essere impallidita, perché la notizia mi ha turbata tantissimo, ma mi ha assicurato che adesso è quasi andato in pensione e continua a occuparsi solamente dei pazienti con problemi particolari. A quanto pare, ha idee molto progressiste, ha studiato le teorie di Sigmund Freud e, a quanto ho capito, crede di poter curare certi problemi attraverso la parola. Non so cosa pensare e, a essere sincera, non sono ancora del tutto convinta, perché, suvvia, com’è possibile che parlare possa essere di qualche aiuto?

Una cosa positiva. Mi sono innamorata del mio cottage, con i suoi muretti a secco che delimitano i confini, le alte querce su ogni lato e il tetto con le tegole di pietra calcarea. Sono anche felice che siano arrivati alcuni piccoli mobili, e anche i più belli, devo dire, dalla nostra casa di Cheltenham: la toeletta color crema di mia madre, una minuscola cassettiera che era nella cameretta della bambina, la mia lampada Tiffany preferita, un tavolinetto semicircolare e la vecchia scrivania di mia madre, con il suo piccolo cassetto segreto.

Al momento ho assunto un giardiniere per tagliare l’erba e occuparsi della sarchiatura, ma attendo con ansia il giorno in cui mi sentirò meglio e potrò uscire e occuparmi personalmente della semina e della potatura. Non sono ancora stata in paese, ma Simone dice che superando il camposanto e salendo fino alle rovine di Minster Hall si arriva alle magnifiche rive del fiume.

All’improvviso, da fuori mi arriva un mormorio di voci, anche se non riesco a scorgere né Simone né il dottore. Devono essersi fermati sul portico, dove non li posso vedere, così aspetto che entrino in casa. Quando arrivano nel mio salotto, resto sorpresa da ciò che vedo. Gilbert Stokes non è come me lo aspettavo. Penso agli psichiatri come a individui sparuti e viscidi, sempre pronti a coglierti in fallo con le loro trovate ingegnose, mentre questo è un uomo rotondetto e dall’aria benevola con dolci occhi azzurri e una folta zazzera di capelli incredibilmente bianchi.

Mi tende una mano. Gliela stringo e non posso fare a meno di sorridere. Appoggia l’altra mano sopra la mia e preme delicatamente.

«Signora Hatton, è un vero piacere».

«Salve», dico. «In realtà, sono la signorina Riley adesso, ma la prego, mi chiami Diana».

«Mi perdoni. Errore mio».

Simone fa per uscire dalla stanza. «Vado a preparare il tè», dice con un sorriso.

Annuisco. L’avevamo stabilito in anticipo. È un piccolo espediente per permettermi di giudicare il dottore restando da sola con lui e, penso con un sorriso ironico, per permettere a lui di valutare me.

«Vogliamo accomodarci?», domando, indicando una sedia accanto alla finestra.

Io prendo posto dall’altro lato, così posso vedere il giardino. Lui sposta la sedia per mettersi di fronte a me.

«Voglio essere sicuro che sappia che questo metodo può sembrare relativamente monotono, ma che è libera di cambiare idea e abbandonarlo in qualunque momento».

Faccio cenno di sì con la testa. «Parleremo e basta, dico bene?».

Gli brillano gli occhi e mi rivolge un sorriso sincero e cordiale. «Proprio così».

Come ho detto prima, non riesco a capire come parlare possa essermi davvero d’aiuto, ma annuisco e poi, sentendo fischiare il bollitore, mi volto verso la porta, chiedendomi se sia scortese andare a dare una mano a Simone.

Come se mi avesse letto nel pensiero, il dottore dice: «Vada pure ad aiutare la sua amica, se lo desidera», e io ne sono colpita.

Forse dietro quell’aspetto gioviale c’è una mente acuta e penetrante, ma, se è gentile, posso accettarlo. E ora che mi ha dato il permesso di lasciare la stanza, penso di non sentire più la necessità di andare, quindi, invece di scappare in cucina, resto dove sono. Mentre parliamo un po’ del paesino e mi dice che casa sua è in fondo alla strada, vicino alla chiesa, sento che mi sto rilassando. C’è qualcosa di rassicurante nella sua presenza e resto un po’ delusa quando Simone torna con un vassoio e non posso più averlo tutto per me.

Una volta versato il tè, dopo averlo bevuto e aver mangiato dei biscotti, si pulisce la bocca con il tovagliolo e si alza dalla sua sedia. «Dunque, Diana, se le va di essere una mia paziente, possiamo iniziare la settimana prossima e provare a fissare due sedute, una di lunedì e una di venerdì. Entrambe alle dieci. Cosa gliene pare?».

Mi alzo anch’io. «La ringrazio, dottor Stokes. Volentieri». E, quando lo accompagno alla porta e mi fermo sul portico, per nulla preoccupata all’idea di essere quasi uscita fuori in giardino, mi rendo sorprendentemente conto che lo penso sul serio.