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Harry aveva ragione a proposito della barca, pensò Belle con l’approssimarsi dell’alba. Esaminò la scena in silenzio e, ancor prima di riuscire a mettere piede sulla passerella fangosa, già aveva capito quanto era affollata. C’erano famiglie accoccolate insieme, avvolte negli scialli e nei longyi, e ancora addormentate sul ponte, anche se la maggior parte delle donne si stava già intrecciando i capelli e spalmando la thanaka sulle guance. Mentre le madri iniziavano a preparare le colazioni, si svegliarono alcuni bambini, sbattendo rapidamente le palpebre e stropicciandosi via la sonnolenza dagli occhi, con i capelli folti, lisci e color cioccolato tutti dritti e scompigliati sulle loro testoline.

Alcuni monaci si erano radunati in gruppo, e Belle si chiese se stessero pregando. Rimase a osservare l’alba, il cielo in alto di un azzurro intenso, striato da nuvole bianche e filacciose, e il sole incredibilmente giallo. Anche un uccello blu reale appollaiato sul parapetto parve osservare il panorama prima di spiccare il volo. Alcuni uomini si sgranchivano le gambe e fumavano. Altri invece osservavano in silenzio l’argine grigio del fiume in quei preziosi istanti prima che ci si debba ricomporre per affrontare la giornata, quando si è ancora in parte assonnati, nel mondo dei sogni e dell’oblio.

Altri ancora sedevano sul ponte con le facce intontite, appoggiati ai sacchi di materie prime che facevano parte del carico. Sul ponte si era formato un sottile strato di polvere. Non c’erano palme in miniatura in vaso, e di conseguenza non c’era neanche un po’ d’ombra, e c’erano poche sedie di rattan dalle quali osservare il mondo che scorreva oltre le fiancate della barca. “Almeno ho una cabina”, pensò Belle, anche se sarebbe stato divertente, seppure un po’ scomodo, dormire sotto le stelle.

Lei e Harry vennero accompagnati nelle loro cabine e Belle si addormentò non appena toccò il letto. Era ancora presto ma, messa in agitazione dall’emozione del parto, la notte prima aveva dormito male.

La traversata fino a Mandalay passò in fretta e, anche se meno tranquilla rispetto al primo tratto di risalita del fiume, fu più divertente. Mentre il sole picchiava sul ponte, Belle si ritrovava costantemente assorbita dalle attività quotidiane che gli altri passeggeri portavano avanti sotto gli occhi di tutti. Formavano un gruppo perlopiù felice e ciarliero e sembravano prendere la vita come veniva, senza lamentarsi, benché, naturalmente, Belle non fosse in grado di capire un bel niente se Harry non glielo traduceva.

Mentre se ne stavano appoggiati al parapetto a osservare il fiume, Harry le descrisse anche un po’ della storia di Mandalay. Le disse che ogni volta che un nuovo re saliva al trono, i potenziali rivali dovevano essere uccisi per evitare che diventassero una minaccia e tentassero di usurpare il potere. Quando era stato incoronato Thibaw, l’ultimo re, almeno otto membri della sua famiglia, inclusi i bambini piccoli, erano stati trucidati in modo veramente atroce.

«Si dice», continuò Harry lanciandole un’occhiata, «che siano stati legati, infilati dentro dei sacchi e picchiati a morte mentre un’orchestra suonava per mascherare il fragore delle loro urla. Dopodiché, i loro corpi erano stati calpestati dagli elefanti».

«Buon Dio», fece lei, atterrita dal pensiero. «Una vera barbarie!».

«Infatti».

«Eppure, i birmani sembrano gente così mite».

Harry sollevò le sopracciglia. «E non è finita qui, perché in passato, quando vennero costruiti il palazzo reale e la cinta muraria, molti vennero rapiti e poi sepolti vivi sotto le sue mura per proteggere la città dagli spiriti maligni».

Sconvolta dalla rivelazione, non riuscì a sottrarsi a uno strano presentimento. Cosa le sarebbe potuto capitare a Mandalay?

L’alba del loro ultimo giorno di viaggio vide sorgere un sole fiammeggiante e, mentre i suoi raggi accecanti si riversavano sul fiume, Belle chiuse gli occhi. Quando li riaprì, fu per vedere che le acque increspate erano punteggiate di gemme d’argento luccicante. Poco dopo, mentre si avvicinavano alla città, decine di pagode dorate brillarono dalla sommità delle colline su cui svettavano con fierezza. Com’era possibile che tanta magia e tanto splendore potessero convivere con la brutalità di cui aveva sentito parlare, e alla quale aveva anche assistito?

Quando sbarcarono, le capanne di bambù allineate lungo la banchina pullulavano di gente che sperava di vendere piccole carabattole. Belle diede un’occhiata alle montagne in lontananza, dall’altro lato del fiume, e si chiese se la bambina della barca fosse stata portata lassù.

Malgrado l’assalto, riuscirono a farsi largo tra i pescatori e i venditori ambulanti, poi presero una macchina per destreggiarsi più rapidamente tra quelle strade affollate. Di lì a poco, Belle si era sistemata nel suo hotel: uno degli unici tre frequentati da ospiti britannici, le avevano detto. Era fatto di tek e la sua camera, che profumava di cera al limone, era piccola ma accogliente, con una finestra che affacciava sul fiume Rosso. Dato che aveva mal di testa, decise di restare in albergo per il resto della giornata.

Harry le aveva detto di aver fissato un appuntamento con il commissario distrettuale alle dieci della mattina successiva, così dopo pranzo, senza avere niente di meglio da fare, si sdraiò sul letto tenendo indosso solo la biancheria intima e provò a dormire. Ma i ricordi del massacro si insinuarono tra i suoi sogni a occhi aperti, perciò alla fine si arrese. Sarebbe mai riuscita a dimenticare l’accaduto? Osservò una lucertola arrampicarsi sulla parete accanto alla porta, di fronte al letto. Piccola – forse era una neonata – e di un colore marrone-verdognolo, si muoveva a scatti, come se non sapesse dove stava andando. Un po’ come Belle. Con il caldo torrido del pomeriggio, i rumori della città si erano attenuati, ed era pronta a giurare di aver sentito dei passi percorrere il corridoio e poi fermarsi di fronte alla sua stanza. Indolente e sudata, ma anche infastidita al pensiero che avessero interrotto il suo riposo, nemmeno si mosse per andare a mettersi dei vestiti. In ogni caso, era sicura di aver chiuso la porta a chiave, quindi, chiunque fosse, se ne sarebbe semplicemente dovuto andare. Fissò la porta e attese, aspettandosi di sentir parlare un membro del personale dell’hotel. Ma invece di udire una voce, rimase sorpresa dal vedere la maniglia girare lentamente, in modo impercettibile. Ipnotizzata, la guardò mentre girava ancora una volta.

«Chi è?», domandò alla fine, aspettandosi la timida replica di una donna delle pulizie.

Non sentendo niente e cominciando a irritarsi, afferrò la vestaglia e si precipitò a spalancare la porta. Fuori non c’era nessuno, ma si affacciò in corridoio e in fondo vide Harry, che stava giustappunto per girare l’angolo.

«Oh, è lei», disse. «Mi stava cercando?»

«Mi perdoni, io…».

«Harry, le serviva qualcosa?»

«No. Io… mi sono confuso. Scusi. Errore mio». Ciò detto, girò l’angolo e svanì.

Belle scosse la testa e tornò in camera sua. Il caldo giocava davvero brutti scherzi.

Non appena le fu passata l’emicrania, decise di prendere un risciò per esplorare la città, in cui le strade fiancheggiate dagli alberi brulicavano di vita. Malgrado si sentisse sola e anche un pochino triste, soprattutto per Oliver, era una splendida giornata e voleva godersela quanto più possibile.

Oltrepassò un tempio dove alcune monache con le teste rasate e le tonache rosa si erano inginocchiate a pregare. Le pagode e le statue dorate dei Buddha presenti praticamente in ogni strada si contendevano il predominio tra le eleganti dimore britanniche costruite in pietra. Le verande ai piani superiori di quelle ville erano sostenute da enormi colonne e facevano ombra ai passaggi pedonali che si erano formati al di sotto. Poi vennero gli argentieri, acquattati nei piccoli cortili di fronte alle loro casette di legno, un fuoco in un angolo e le borse di tela con i ferri del mestiere in bella vista su alcune piccole panche. Belle osservò le complesse lavorazioni di squisita fattura realizzate su un vasto assortimento di oggetti, dalle enormi ciotole destinate ai templi a minuscoli elefanti e dragoni d’argento. Quando raggiunse le imponenti mura del palazzo reale e i suoi padiglioni – ora utilizzati dai britannici come uffici dell’amministrazione, mentre la sala del trono era diventata un circolo privato – rimase a bocca aperta di fronte alla loro estensione. Sbirciò attraverso un cancello aperto e vide che i colori portafortuna, il rosso e l’oro, erano ovunque, insieme agli intagli decorativi sugli edifici e ai graticci ornamentali sopra le porte.

Quando girò un angolo nei pressi di un tempio cinese, localizzò il bazar della seta ed entrò a dare un’occhiata ai tessuti. Si fermò un istante, poi si addentrò nelle profondità del mercato, dove i banchi stipati di mercanzie pullulavano di gente. All’inizio si sentiva tranquilla, felice di essere lì e di godersi l’atmosfera, ma dopo qualche istante cominciò a venirle la pelle d’oca. C’era qualcosa che non andava. Possibile che la stessero seguendo? Era così? Di tanto in tanto si voltava a guardarsi indietro. Aveva davvero visto la sagoma di un giovane birmano che si ritraeva tra le ombre ogni volta che si voltava? Lì per lì pensò di esserselo immaginato, ma a poco a poco iniziò a capire. Perché ogni volta che si girava intravedeva di sfuggita il rosso del suo longyi e una casacca verde chiaro. Più infastidita che realmente spaventata da quel seccante gioco del gatto con il topo, continuò a sfiorare le sete delicate sotto gli occhi dei graziosi bancarellisti. In fin dei conti, cosa avrebbe potuto fare in un posto così affollato? Ciononostante, si ostinava comunque a seguirla, e ogni volta che Belle si fermava, si fermava anche lui. Come ne ebbe abbastanza, girò sui tacchi ed eccolo lì, con una bella faccia tosta, intento a fissarla apertamente. Che fosse in cerca di denaro? Aveva forse intenzione di derubarla in qualche angolo appartato? Strinse forte la borsa al petto e riprese a camminare, chiedendosi dove fosse l’uscita più vicina.

Poi rimase paralizzata dalla paura.

Due uomini – uomini dalla pelle scura, pieni di tatuaggi neri – stavano avanzando verso di lei con un ghigno malevolo stampato in faccia. Era una trappola? Sapeva che i birmani credevano che i tatuaggi li rendessero immuni ai proiettili e ai coltelli. Stavano cercando proprio lei? Quando lanciò uno sguardo ai loro occhi socchiusi, si sentì accerchiata e studiò l’ambiente. Riuscivano a percepire la sua paura? Il ragazzo era ancora alle sue spalle, mentre loro erano davanti a lei. Mentre si domandava cosa fare, pensò di offrire loro del denaro, ma, quando si avvicinarono e la superarono, si limitarono a rivolgerle un cenno del capo e continuarono a sorriderle. Si portò una mano al petto nel tentativo di ritrovare la calma, e si vergognò di averli automaticamente considerati pericolosi solo perché avevano la pelle scura. Anche il ragazzetto era scomparso. Inorridendo al pensiero di essersi tramutata tanto rapidamente in un’inglese della peggior risma, si rimproverò per l’eccessiva diffidenza. Fece un respiro profondo e si incamminò in quella che sperava essere la direzione dell’uscita, chiedendosi se non avesse davvero immaginato tutto.

Per un attimo, i rumori di sottofondo del bazar parvero svanire, riducendosi in modo graduale come se fossero sempre più distanti. Ritrovata in parte la calma, Belle provò uno strano senso di distacco. Non durò a lungo, però. All’improvviso, i rumori tornarono a intensificarsi, come se qualcuno, nel riuscito tentativo di orchestrare l’intero bazar, avesse rialzato il volume. I suoni striduli e graffianti di quell’ambiente enorme aumentarono e aumentarono. Si lasciò prendere dal panico. Stava rischiando di trasformarsi in sua madre, troppo terrorizzata per uscire negli spazi aperti? Quando il volume del rumore schizzò alle stelle, Belle capì che si sarebbe sentita male. Le voci delle donne divennero strilli orribili e incomprensibili, le risate degli uomini perfide e allarmanti. L’intero bazar tremava a causa del tintinnio e del clangore delle monete passate di mano e di una sovrabbondanza di voci. Cominciava a girarle la testa. I bancarellisti prima tanto garbati iniziarono a tormentarla, e la folla brulicante la spintonava, urtandola e facendole male ogni volta che la mandava a sbattere contro qualcuno. Quando tentò di togliersi di mezzo, si mosse con una lentezza spaventosa. Le stava tornando in mente ogni singolo ricordo del massacro. Tutte le immagini che aveva cercato di accantonare, e credeva avessero iniziato a sbiadire, le sembravano reali come se stessero accadendo in quel momento. Era come se i suoi occhi si fossero riempiti di sangue. I suoni innaturali e assordanti le martellavano nelle orecchie e le schiacciavano il petto. Non riusciva a prendere aria, e tutti la fissavano.

E poi, malgrado si sentisse mancare, si mise a correre, una corsa folle e ansante, incurante di chi urtava o spintonava. Doveva tornare in albergo.

Quando Belle raggiunse l’hotel, l’attacco di panico era passato. Che fosse stato il caldo intenso a farle tornare in mente il massacro? Non ne era convinta. Ormai più tranquilla, si avvicinò al bancone della reception, dove il giovane addetto le porse una busta.

«Signorina Hatton?», disse con un sorriso educato. «Questa è per lei».

Sorpresa, la accettò aggrottando la fronte. Forse era stata lasciata da Harry. Con delle disposizioni, magari?

L’addetto alla reception le rivolse un cenno garbato prima di augurarle una buona giornata, dopodiché chinò il capo e si mise a consultare il registro delle prenotazioni.

Al piano di sopra, Belle aprì la busta e il contenuto del biglietto le strappò un gridolino.

Pensi di essere al sicuro a Mandalay?

Ebbe un tuffo al cuore. Era quasi identico al biglietto anonimo che aveva ricevuto a Rangoon. Ripensò all’uomo eurasiatico che aveva visto lasciare il corridoio delle ragazze pochi istanti prima che entrasse in camera sua e Rebecca le consegnasse il primo biglietto. Possibile che l’avesse consegnato lo stesso uomo? Perché stavano provando a metterle paura?

Si precipitò di nuovo da basso per chiedere chi avesse lasciato la busta e scoprì che era stato un uomo eurasiatico, molto alto, anche se il ragazzo alla reception non gli aveva domandato come si chiamasse. Ma sì, poteva tranquillamente essere lo stesso uomo. Quando risalì le scale, il nervosismo le fece venire la nausea.

In agitazione e a disagio, iniziò a fare avanti e indietro per la stanza. Lì non aveva nessuno a parte Harry, e non poteva considerarlo propriamente un amico. Mandalay non le piaceva neanche un po’. Era diventato chiaro che la cosa migliore da fare era tornare a Rangoon nel minor tempo umanamente possibile. Avrebbe incontrato Ogilvy, il commissario distrettuale, come disposto da Harry, e poi se ne sarebbe andata. Finora, la storia della bambina bianca vista sulla barca non l’aveva portata a niente. Perché perdere altro tempo, restando lì? In ogni caso, i giorni di permesso che le erano stati accordati sarebbero presto finiti e, se voleva tenersi stretto il lavoro, doveva tornare indietro. Aveva sperato che il ritrovamento di Elvira potesse colmare le lacune che sentiva di avere nella sua vita, ma nessuno aveva visto cosa fosse successo. Le uniche cose che aveva scoperto non erano altro che congetture azzardate. Sospirò, sconfitta, e scese di nuovo le scale per raggiungere l’atrio dell’albergo.

Quando si appoggiò al bancone della reception e suonò il campanello, sperando che l’addetto fosse in grado di aiutarla a prenotare un biglietto ferroviario per Rangoon, Harry si materializzò al suo fianco. Gli disse che sarebbe partita l’indomani pomeriggio, subito dopo l’incontro con il commissario. Non accennò al biglietto anonimo.

Lui cambiò espressione, e Belle rimase stupita da quanto sembrasse deluso. «Oh, ma mi ero appositamente organizzato per andare a un pwe insieme domani sera».

«Un pwe

«È uno zat pwe, uno spettacolo di varietà potremmo dire, con danze all’aperto accompagnate da strumenti a percussione. Si divertirà, gliel’assicuro».

«Non credo che…».

La interruppe. «Dovrebbe venire. Davvero. C’è una persona che vorrei farle conoscere. È un commerciante di giada angloindiano che ha saputo di una bambina bianca che si pensa sia stata rapita e introdotta negli Stati degli Shan, e da lì in Cina».

«E ha detto quando?»

«No, ma penso davvero che dovrebbe parlare con lui di persona. Conosce perfettamente l’inglese. Venga con me domani sera e il giorno dopo l’accompagnerò al treno. Cosa ne dice?».

Belle esitò. «Mi ci faccia pensare un attimo, Harry».

Di ritorno in camera sua, notò che una delle due persiane era leggermente socchiusa e un raggio di sole disegnava una linea retta sul pavimento di legno lucido. Andò alla finestra e spalancò le persiane, e la luce inondò la stanza. In bagno, vide che un rubinetto del lavandino perdeva. Qualcuno era entrato nella sua camera? La donna delle pulizie, magari? Persa nelle sue riflessioni, osservò il rubinetto e, con il palmo rivolto verso l’alto, ci mise una mano sotto e permise alle gocce di cadere e raccogliersi in una piccola pozza. Dopodiché, girò al massimo il rubinetto e riempì il lavandino, per poi chinarsi e lasciare che i capelli cadessero nell’acqua.

Dopo essersi lavata e asciugata i capelli con un asciugamano, si infilò un abito appena stirato. Doveva cambiarsi due volte al giorno da quando era lì, ma almeno l’albergo aveva buone riserve di acqua calda. Pettinò i capelli, mise un po’ di rossetto e iniziò a fare su e giù per la stanza, ripensando a ciò che le aveva detto Harry.

Da principio si era lasciata trascinare dall’idea di ritrovare Elvira, ma adesso l’entusiasmo l’aveva improvvisamente abbandonata. Era diventato troppo complicato. Eppure… E se quell’ultimo tentativo disperato fosse destinato a portare alla luce qualche informazione di vitale importanza e lei non si fosse presa il disturbo di andare? Si passò le dita tra i capelli, sollevandoli dallo scalpo affinché asciugassero più in fretta. Non riusciva a decidersi: tornare a Rangoon o andare a quel pwe insieme a Harry? Ragionò e sospirò, frustrata, mentre valutava i pro e i contro. Ma poi giunse a una conclusione: per quanto potesse sostenere il contrario, la verità era che non poteva proprio smettere di cercare. Probabilmente non avrebbe mai potuto. Perché se invece avesse rinunciato, il rimpianto l’avrebbe perseguitata per il resto della vita. Qualunque cosa fosse successa a sua sorella, doveva sapere.

Alle dieci della mattina seguente, bussò all’imponente porta intagliata dell’ufficio del commissario. Un giovane birmano benvestito aprì la porta, le fece un inchino e la invitò a entrare, chiedendole se desiderasse un tè. La stanza, dipinta di bianco, era luminosissima. Ogilvy le dava le spalle e sembrava intento a guardare fuori da una grande finestra, assorto nei suoi pensieri. Quando si voltò e le andò incontro, vide che era un ometto basso e dalle spalle squadrate, con un naso pronunciato e occhi grigi e ridenti in un volto rotondo e particolarmente rubizzo. Le strinse la mano e le indicò di accomodarsi su una sedia dallo schienale alto di fronte alla sua scrivania di tek lucido, dietro la quale andò a prendere posto. Dopo essersi messo comodo, si accese un sigaro e si schiarì la voce.

«Dunque, signorina Hatton, il mio assistente ha spulciato il nostro archivio dei certificati di nascita e di morte».

«Ebbene?»

«Be’, non ho buone notizie, temo. O forse sì, dipende dai punti di vista».

«Non capisco».

Tossì prima di spiegarle che non c’erano documenti che attestassero che una bambina bianca fosse morta a Mandalay nei mesi di gennaio, febbraio o marzo del 1911. «Quindi, vede, se sua sorella è arrivata fino a Mandalay, è altamente probabile che alla fine di marzo fosse ancora viva».

«Aveva tre settimane quando è stata rapita. Non potrebbero averla fatta passare per la figlia di qualcun altro?»

«Se una coppia britannica, o forse sarebbe il caso di dire europea, avesse cercato di spacciarla come figlia sua, ne avrebbe dovuto registrare la nascita. Siamo molto severi sotto questo aspetto, anche se, per quanto sia triste ammetterlo, non è così impossibile inserire una registrazione falsa conoscendo il medico giusto».

«E nessuno ha registrato una nascita in quel periodo?».

Sospirò. «Oh, eccome. Tre nascite registrate a gennaio. Tutti maschietti, purtroppo».

«E al di fuori di questa regione? A Maymyo, ad esempio?».

Lui annuì. «Qui a Mandalay siamo una piccola comunità, e quello è un centro ancora più piccolo, ma il mio assistente ha controllato anche gli archivi di Maymyo. Non ha trovato niente di utile, temo».

«Mi è stato detto che è qua da moltissimo tempo e che se fossero girate delle voci lei l’avrebbe senz’altro saputo».

«Esatto. E di tanto in tanto capita eccome di sentire tristi storie di bambini smarriti e mai più ritrovati. Negli avamposti più estremi della Birmania, succede spesso che un bambino si metta a girovagare da solo e si perda. E, naturalmente, ci sono un sacco di animali selvatici».

«Oddio, intende…».

Annuì di nuovo e si alzò in piedi. «Mi spiace di non poterle essere di maggiore aiuto».

«Ricorda il periodo in cui mia sorella è stata rapita?». Quando si alzò a sua volta, Belle trattenne il fiato in attesa di una sua risposta.

Gonfiò le guance. «Oh, sì. A prescindere da tutto il resto, era su tutti i giornali. Qua eravamo in stato di massima allerta, tutti con gli occhi ben aperti, capisce».

«E nessuno vide niente?».

Le rivolse un sorriso dolente. «Gli avvistamenti non mancarono di certo. Non ci portarono da nessuna parte. All’epoca, certe donne non avevano niente di meglio da fare. Un po’ di melodramma per ravvivare le loro esistenze, e non c’è niente di meglio di un bambino smarrito per stimolare la fantasia di una signora».

Belle gli tese la mano e lo ringraziò, ma se ne andò con la sensazione di essere arrivata al capolinea.

Quella sera, mentre si dirigevano al pwe, Harry e Belle superarono tanti piccoli fuocherelli accesi lungo il ciglio della strada, con capannelli di persone radunate attorno e ambulanti che vendevano frittelle al cocco e torte di riso fritto. Più avanti, in uno spiazzo aperto dove era stato eretto un padiglione temporaneo fatto di bambù, Harry condusse Belle in fondo alla sala, in un angolo tranquillo. Il padiglione coperto era lungo una decina di metri e largo sei, con un’orchestra sul davanti, un grande spazio libero al centro e dei bracieri accesi disposti attorno al palco. Un pubblico chiassoso – famiglie sedute in gruppo sulle coperte che avevano disteso a terra – accolse l’arrivo dei musicisti con un entusiasmo straripante.

Al segnale di un percussionista, alcuni danzatori intonarono una preghiera a Buddha.

«È uno degli spettacoli più popolari, qui in Birmania», le sussurrò Harry all’orecchio in un momento di pausa prima che i ballerini cominciassero a esibirsi, e quando le si avvicinò, Belle si accorse che puzzava di whisky.

Lo valutò attentamente. C’era qualcosa che non andava, ma non riusciva a capire cosa. Harry sembrava nervoso, se non addirittura irrequieto.

«Va tutto bene?», gli domandò alla fine.

«Perché non dovrebbe?»

«Mi sembra turbato».

Si passò un dito dentro il colletto. «È soltanto il caldo».

«Pensavo che ormai ci avesse fatto l’abitudine».

Lui non replicò.

«Allora, da quant’è che fa l’ispettore? Ha intrapreso questo viaggio per motivi di lavoro?»

«Sì. Come le ho già detto, spero di riuscire a raggiungere il Nagaland». Le rispose in modo piuttosto stizzito, come se fosse infastidito dal fatto che l’avesse dimenticato.

«Me ne parli di nuovo», disse lei.

«Be’, i Naga sono feroci cacciatori di teste. È quello che mi chiedono sempre tutti».

«E non è preoccupato?».

Scrollò il capo. «Non saranno interessati al sottoscritto. E, per rispondere alla sua domanda, faccio questo lavoro da vent’anni. Andrò solamente a ispezionare il territorio».

«E vive qui per tutto l’anno?»

«No. A Rangoon, con Angela».

«Angela?»

«Mia moglie, ovviamente».

Belle aveva dato per scontato che fosse scapolo e si meravigliò. «Non mi aveva mai detto di essere sposato».

Lui si accigliò. «Non credevo di essere tenuto a farlo».

«Voglio dire, pensavo che me ne avrebbe accennato prima. Avete dei figli?».

Fece cenno di no con la testa. «Non abbiamo avuto questa fortuna».

«Sua moglie non è infastidita dalle sue lunghe assenze?».

Le rivolse un’occhiata interrogativa. «Quante domande».

«Mi scusi».

«Be’, se proprio lo vuole sapere, la verità è che ad Angela piacerebbe tornare in Inghilterra».

«E a lei?».

Si strinse nelle spalle. «Più che altro è questione di racimolare abbastanza soldi».

A quel punto, dopo un forte rullo di tamburi, la stella dello spettacolo saltò sul palco con uno scintillante costume colorato, simile a quello di un principe di altri tempi. Danzò a lungo come un ginnasta indiavolato, eseguendo passi di una complessità straordinaria, accompagnato dai tamburi, dai gong e dagli oboi.

«Andranno avanti all’infinito», disse Harry quando l’uomo lasciò il palco sotto uno scroscio di applausi entusiastici. «Non si fermeranno fino all’alba».

«Possiamo provare a cercare il commerciante di cui mi ha parlato?», domandò Belle, ansiosa di togliersi il pensiero.

«Non vuole vedere altre esibizioni?»

«Mi scoppia la testa. È il gran chiasso».

«Nessun problema. Abita in zona».

«Non è qui?».

Harry aggrottò la fronte. «Le ho dato modo di pensare che sarebbe venuto?»

«Senta, non ha importanza. Andiamo e basta, d’accordo?»

«Ma certo».

Si trascinarono via dalla folla di persone rimaste in piedi in fondo al padiglione, poi tornarono sui loro passi, fermandosi nei pressi di un labirinto di vicoletti dove Harry si guardò attorno, storcendo la bocca da un lato e dall’altro.

«Ci siamo persi?», chiese Belle, intuendo che c’era qualcosa che non andava. Temendo un riproporsi dell’attacco di panico avuto in precedenza, esitò.

Lui scosse la testa. «È tutto così diverso al buio. Avrei giurato che fosse la strada giusta».

Mentre lui imboccava il vicolo più stretto e tetro, Belle rammentò che Harry aveva bevuto. Aveva almeno una vaga idea di dove stesse andando?

Lo seguì oltre una svolta a gomito e in un vicolo più ampio, più simile a una strada vera e propria, dove si fermò di fronte a una casa fatiscente identica a tutte le altre. «Penso sia questa».

Si annunciò in inglese e gli rispose un uomo, che disse a entrambi di entrare. La sensazione che ci fosse qualcosa che non andava si intensificò, e Belle tentennò.

Attraverso la porta aperta, riuscì a vedere un ambiente arredato in modo spartano, con delle stuoie sul pavimento e un tavolo basso, dal quale una lampada a olio lasciava nell’oscurità gli angoli della stanza. Un singolo scampolo di tessuto colorato, appeso a due ganci attaccati al muro e teso in mezzo alla stanza, divideva chiaramente gli ambienti. Non appena i suoi occhi si abituarono alla penombra, Belle riuscì a distinguere l’armamentario per la preparazione di alimenti impilati su un altro tavolino. Non sembrava la casa di un ricco commerciante di giada.

Poi vide l’uomo in questione.

L’individuo, con gli occhi scuri e due grossi baffi, indossava una semplice camicia nera e dei pantaloni dal taglio occidentale dello stesso colore, e sedeva a gambe incrociate sul pavimento.

«No», disse, improvvisamente sicura. «Io non entro. Voglio tornare in albergo, Harry. Subito».