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Diana, Cheltenham, 1922
Mi sono svegliata presto sapendo che sarebbe stata una giornata speciale, ma senza ricordare di preciso il perché. Poi, sudata e accaldata, sì, mi è tornato in mente. Ora mi guardo attorno e controllo che sia tutto pronto mentre ripasso le parole di commiato. Un ringraziamento solenne e un addio per sempre senza versare lacrime oppure uno sguardo pieno di angoscia e rammarico? Anche se sono ansiosa, opto per un’uscita di scena solenne e dignitosa. Perché so che le apparenze contano ancora. Il mio baule è già stato spedito, quindi mi restano soltanto alcuni effetti personali, quelle quattro cianfrusaglie che mi accompagneranno in auto con Simone: alcuni cosmetici, lo specchietto d’argento di mia madre, le mie pillole, la mia Parker e il diario. Non c’è molto su quelle pagine, ma vorrei ricominciare a scrivere, se possibile. A quanto pare, anche il dottore pensa che potrebbe giovarmi.
Ora dovrò tornare a usare il mio nome da nubile. Riley. La signorina Diana Augusta Riley. Mi piace. Un addio alla solitudine. Anche se non ho ancora visto di persona il nuovo cottage, Simone e Douglas lo hanno già arredato e io, ovviamente, sono curiosa. Questo non è un cambiamento che attendo senza trepidazione, perciò mi avvicino pian piano alla finestra e mi aggrappo al davanzale nella speranza di intravedere Annabelle per l’ultima volta. Non vogliono che assista alla mia partenza e abbiamo tacitamente concordato che la signora Wilkes la porterà a fare un giro. Ieri sera mi sono seduta sul letto di mia figlia e le ho cantato una sciocca canzoncina che so che le piace tanto. Dopo un momento si è unita al coro, e alla fine abbiamo riso a crepapelle – non so bene perché, ma è stata una risata felice. Ha permesso che le spazzolassi i capelli fino a farli splendere, quindi le ho dato la buonanotte e un bacio su entrambe le guance vellutate. Mi ha guardata in modo strano e ha aggrottato la fronte, come se avesse intuito che me ne sarei andata. Ma il momento è svanito in un attimo.
«Notte, notte, mammina», ha detto, e io ho dovuto tenere a freno le lacrime.
«Buonanotte, cara», ho replicato mentre mi incamminavo verso la porta. «Dormi bene».
E poi sono corsa via dalla sua stanza per evitare che mi sentisse piangere.
Come farò a rassegnarmi alla perdita di mia figlia?
Non sono in grado di rispondere. Non ancora. E la verità è che non lo so. Non so neanche se sto facendo la cosa giusta. La mia mente vortica in una spirale inclemente, e io mi impongo di pensare a qualcos’altro. Come dice Simone, sto chiudendo la porta sulla vecchia me e aprendone un’altra su una persona nuova. Devo restare concentrata. È una cosa che devo fare per forza, a prescindere da ciò che sto per sacrificare o da quello che provo. E devo anche ricordare che lo sto facendo per Annabelle.
Simone dice che non dovrò più fingere con lei. Che la lontananza mi toglierà un peso dal cuore.
Appoggio la guancia contro il vetro della finestra e ne avverto la piacevole frescura sulla pelle. È giugno, ormai. È una bella giornata di sole, e mi chiedo se sono troppo vestita con i due golfini e la gonna di lino. Sfioro il filo di perle attorno al collo e resto senza fiato perché, di punto in bianco, le vedo. Due figure. Annabelle e la signora Wilkes che escono dal cancello principale. Annabelle saltella accanto alla governante, all’apparenza ignara di ciò che sta per succedere, e la signora Wilkes cammina a passo svelto, come se avesse fretta di andarsene. Alzo una mano per salutarle e provo un profondo senso di angoscia. È davvero la cosa giusta da fare? Ricordo le argomentazioni di Douglas. E se la voce mi spingesse a fare del male alla mia bambina? Crede che in Birmania sia andata così? È per questo che è così irremovibile nel sostenere che me ne dovrei andare? Non l’ha mai detto apertamente, ma spiegherebbe un sacco di cose. Osservo Annabelle finché non scompare alla vista, ma non piango. È meglio così. Non sono di alcuna utilità né per lei né per me stessa, e se rimango non mi libererò mai dal senso di colpa che provo costantemente. Starà meglio da sola con Douglas.
Sento bussare alla porta e Simone entra in camera con un abito estivo a fiori sotto un leggero impermeabile color crema.
«Pensi che pioverà?», chiedo.
Fa spallucce. «Potrebbe. Sei pronta?».
Annuisco e do un’ultima occhiata alla mia stanza. Arrivederci, cameretta, penso. Arrivederci, parco. E in questo momento mi sento completamente sperduta.
«Puoi darmi qualche istante?»
«D’accordo. Ho parcheggiato proprio davanti al cancello, così ci vorrà solo un attimo per salire in macchina. Hai preso le tue medicine?».
Le rivolgo quello che spero essere qualcosina di meglio di un sorriso scialbo e mi faccio coraggio.