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Belle e Harry si rividero di fronte a una tipica colazione all’inglese a base di tè, pane tostato, pancetta e uova. Le parve piuttosto mogio quando le chiese se poteva tenerle compagnia e, quando lei glielo permise, scostò una sedia e ci scivolò sopra con movimenti impacciati.

«Le chiedo scusa per ieri sera», mormorò. «Devo aver sbagliato posto».

«Cosa le è saltato in mente, Harry?», volle sapere, ma l’ispettore aveva un’aria talmente sconsolata che Belle, malgrado si fosse spaventata di fronte al cosiddetto commerciante di giada, decise di lasciar correre.

Harry si concentrò sulle proprie mani e, quando rialzò gli occhi, la guardò con un’espressione turbata. Quell’uomo era un fascio di nervi e stava peggiorando man mano che il viaggio proseguiva.

«Ho una brutta notizia».

«Oh? Niente di troppo preoccupante, spero».

«Per lei, intendo».

Inarcò le sopracciglia.

«Sono andato alla stazione per prenderle un biglietto del treno».

«È stato gentile da parte sua».

«Eravamo d’accordo così».

«Già».Trattenne il fiato per qualche secondo prima di continuare. «Non ci sono treni».

«Cosa?»

«Sono saltati dei binari lungo la linea, più a sud».

«E quando li sistemeranno?»

«Non sanno dirlo. Potrebbe volerci del tempo, credo».

«E adesso cosa faccio? Torno indietro sull’Irrawaddy?»

«Le ci vorranno due settimane».

«E a quel punto avrò perso il lavoro».

«Un mio conoscente farà tutto il possibile per scoprire quali sono le condizioni dei binari. Le consiglio di avere pazienza. Se tutto va bene, magari domani avremo maggiori notizie, anche se probabilmente dovrà attendere un pochino di più».

Belle sospirò. Non voleva avere pazienza. A Mandalay c’era un caldo spropositato e presto sarebbe cominciata la stagione dei monsoni. La prospettiva di ritrovarsi bloccata lì per chissà quanti giorni di fila non la entusiasmava per niente.

Si incamminò in direzione del bar, dove aveva intenzione di trascorrere il resto della mattinata, rilassandosi alla relativa frescura di un ventilatore e al sicuro da qualunque minaccia potesse attenderla fuori dall’albergo. Prese una rivista e osservò gli ospiti che andavano e venivano, ma era una mattina monotona e di una noia mortale, così trovò un libro nel salottino dell’hotel e andò fuori, nel piccolo giardino. Con un grazioso ventaglio di avorio alla mano, scacciò via gli insetti che volavano e ronzavano nella giornata torpida e, quando raggiunse un piccolo stagno, contemplò le ninfee bianche che galleggiavano sulla superficie e i pesci rossi che ci nuotavano sotto. Per quanto riguardava la ricerca di sua sorella, si sentiva frustrata e abbattuta. Si chiedeva spesso come sarebbe stato incontrarla adesso, sempre ammesso che fosse ancora viva. Si domandava cosa le avrebbe detto, che aspetto avrebbe avuto, come si sarebbero sentite. I capelli di Elvira sarebbero stati uguali ai suoi o più simili a quelli della madre? Sarebbe stata più alta o più bassa di lei? Anche lei avrebbe avuto gli occhi verdi? “In definitiva”, pensò con rassegnazione, “forse non lo saprò mai e, in ogni caso, Elvira potrebbe anche essere morta”.

Alla fin fine, se avesse abbandonato le ricerche, sarebbe stata libera di tornare a concentrarsi sulla sua carriera. Stava pensando al lavoro e alla possibilità di preparare un nuovo repertorio quando si sentì chiamare per nome. Si voltò di scatto e non riuscì a trattenere un’esclamazione di sorpresa.

«Oliver!».

Lui annuì e rimase dov’era, insolitamente rigido ed esitante.

«Non capisco. Che ci fai qui?»

«Sono venuto perché non mi hai richiamato. Ho lasciato due messaggi della massima urgenza a Harry Osborne».

Si sentiva confusa, travolta da una valanga di emozioni contrastanti. Sentendo la sua voce aveva provato un’esplosione di felicità, eppure non riusciva a dimenticare il modo in cui si erano lasciati. «Come facevi a sapere che ero qui?»

«Ho provato a cercarti in tutti gli alberghi finché non ho trovato quello giusto».

Socchiuse gli occhi per studiare meglio la sua espressione, sperando che le sue emozioni non fossero troppo evidenti. Oliver ricambiava l’attenzione con quei suoi occhi azzurri e sinceri, e Belle non poteva negare di sentirsi attratta da lui, persino dopo tutto quello che era successo. Forte e abbronzato, era rimasto fermo immobile. Per quanto si opponesse, sapeva che si stava lasciando intenerire. Moriva dalla voglia di passargli le dita tra i capelli ribelli e poi di attirarlo a sé per potergli accarezzare il collo… Allungò una mano, ma poi la ritrasse.

«Nessuno mi ha detto che mi avevi cercata», disse con una vocina strozzata.

«Ho lasciato un messaggio a Harry la mattina del tuo arrivo, e poi un altro. Ho telefonato alla reception e il caso ha voluto che in entrambe le occasioni fosse lì nei paraggi. Dato che sanno che siete insieme, me l’hanno passato. Gli ho sottolineato la gravità della situazione e gli ho lasciato il mio numero affinché mi richiamassi immediatamente. Mi ha assicurato che te l’avrebbe comunicato subito, così ho aspettato».

«Come hai fatto ad arrivare fin qui?»

«Sono stato fortunato a trovare un treno espresso che partiva in nottata».

«Non sapevo che ci fossero degli espressi».

Sorrise. «Bestie rare, ma esistono».

Belle si accigliò. «Ma come hai fatto? Sono saltati i binari».

«Non sulla linea diretta a nord».

«Hai visto qualcosa? Danni, intendo?».

Sorrise di nuovo. «No. Ma potrei essermi appisolato».

«Perché sei venuto qui, Oliver?».

Furono interrotti da Harry, che arrivò in giardino.

«Te lo spiego dopo», sussurrò Oliver prima di andare incontro all’ispettore. «Senta un po’, Osborne», disse, «Belle mi ha detto che non le ha riferito il messaggio che le avevo lasciato».

Harry sembrava in difficoltà. «No? Pensavo di averglielo detto».

«Sa benissimo di non averlo fatto».

Harry si rigirò il cappello tra le mani e lanciò un’occhiata a Belle. «Sono davvero desolato. Mi è proprio sfuggito di mente. Ho avuto talmente tante cose di cui occuparmi, capisce».

Oliver sembrava infastidito, ma non aprì bocca.

«Senta, perché non mi concede di rimediare?», proseguì Harry. «Conosco un eccellente ristorante cinese. Speravo di portarci Belle una volta o l’altra, ma perché non ci andiamo tutti assieme? Diciamo a mezzogiorno? Offro io».

Oliver sollevò le sopracciglia all’indirizzo di Belle, che annuì.

«Molto bene», concesse. «Ma è una dimenticanza clamorosa».

«Sì, me ne rendo conto. Scusatemi». Harry si mise il cappello in testa e abbozzò un sorrisetto nervoso. «Be’, ora devo proprio andare a fare una telefonata. Vogliate perdonarmi».

Belle non sapeva se si stesse scusando ancora una volta per non averle riferito il messaggio o perché si doveva congedare per andare a fare una telefonata.

Non appena se ne fu andato, Oliver la raggiunse. «Anch’io volevo chiederti scusa».

«Be’, sembra la mattinata adatta», replicò Belle con un sorriso, incapace di nascondere quanto le facesse piacere che fosse lì con lei.

«Sono stato un imbranato… quella volta. Davvero, non volevo che andasse così. Volevo dirti che per me sei molto più di una storia».

«E ti aspetti che io ci creda?», domandò lei, anche se in tono più garbato rispetto a prima. A dispetto di una vocina insistente nella sua testa, avrebbe tanto voluto fidarsi di lui ed era sicura che le si dovesse leggere chiaramente in faccia.

«Sono disposto ad aiutarti e a non mandare in stampa neanche una singola parola, se servirà a convincerti».

Belle fissò il terreno ai suoi piedi e ci fu un breve attimo di silenzio mentre rifletteva. Poi alzò gli occhi e, quando i loro sguardi si incrociarono, accadde qualcosa di meraviglioso, e si sentì talmente desiderata da non poterlo respingere.

«Ora come ora ho un estremo bisogno di un amico, Oliver, ma devo essere assolutamente sicura di potermi fidare di te».

Annuì con aria solenne.

«In tal caso…», continuò, quindi tirò fuori dalla borsa il secondo biglietto anonimo e glielo porse.

Lui lo lesse e la guardò negli occhi. «Stanno cercando di spaventarti. Ti fidi di Harry?»

«Certo. È stato molto disponibile. Anche se ieri sera mi ha portata in un posto stranissimo. Ha detto che è stato un errore».

Oliver gonfiò le guance, poi espirò un poco alla volta. «Chissà cosa c’è dietro».

«Parli di Harry?»

«No, mi riferisco al biglietto».

Lei scosse la testa. «Be’, sono riusciti a spaventarmi. Ho paura persino della mia ombra da quando l’ho ricevuto, se non addirittura da prima, a dire il vero. Ho avuto un attacco di panico al mercato».

«Sono stato in pensiero per te. Ci sono stati dei disordini a Rangoon, e gira voce che il fenomeno si stia diffondendo. Forse raggiungerà persino Mandalay».

«Raccontami».

«Gli studenti universitari sono in rivolta. È la seconda rivolta studentesca, e stavolta è stata scatenata dall’espulsione di Aung San e Ko Nu».

«E chi sarebbero?»

«I capi dell’Unione studentesca dell’università di Rangoon. Hanno rifiutato di rivelare il nome dell’autore di un articolo apparso sul giornale universitario. Conteneva un attacco feroce nei confronti di un alto funzionario dell’università».

«E sono stati espulsi per questo?»

«Gli atti di ritorsione dei britannici per sedare la sommossa sono stati orribili. La paura, come ti ho detto, è che possano estendersi fino a Mandalay, e presto. Ho telefonato per avvertirti, ma, visto che non richiamavi, ho preso un treno per raggiungerti. Dovevo accertarmi che tu fossi al sicuro».

«Non dovresti tornare indietro per documentare ciò che accade?».

La prese per mano e il calore della sua pelle le fece formicolare le dita.

«Già fatto, e non c’è molto da dire in questo momento. Comunque sia, volevo vederti, e adesso che sono qui non ci penso neanche a lasciarti da sola. Chiunque stia cercando di turbarti dovrà vedersela con me».

All’ora di pranzo, Belle e Oliver si incontrarono con un Harry particolarmente loquace. Strada facendo, raccontò loro del suo lavoro e degli oscuri recessi della Birmania che non aveva ancora esplorato e ispezionato. Poi si mise a parlare di Angela, di quanto fosse una persona gentile, bionda e minuta, ma comunque graziosa. Si erano conosciuti a Londra, si erano sposati e si erano trasferiti in Birmania, anche se lei non ci sarebbe mai voluta andare. Mentre continuava a recitare il suo monologo, li condusse tra le affollate viuzze secondarie di Mandalay, dando l’impressione di essere un tantino inquieto. Per quanto Belle si stesse abituando alle sue eccentricità, il nervosismo di Harry la stupì ancora una volta. La gente era uscita a occuparsi delle proprie attività o a fumare nei pressi dei chioschetti del tè o dei banchi alimentari. Belle sentì l’odore del banco del pesce essiccato ancor prima di averlo raggiunto e dovette mettercela tutta per evitare di tapparsi il naso. Poi si fermò accanto a una donna che vendeva ciotole piene di stranezze gialle, arancioni e rosse, che somigliavano in tutto e per tutto a vermi dai colori sgargianti.

«Dolciumi», spiegò Harry, notando la sua espressione confusa.

Alle sue spalle c’erano ceste di verdura e fagioli impilate l’una sull’altra. Poi un banco stracolmo di noci e radici. L’ambiente era chiassoso e la metteva un po’ a disagio, visto che loro tre erano gli unici non birmani in circolazione, ma Oliver la teneva a braccetto e di tanto in tanto le dava una piccola stretta, ricordandole che le aveva promesso che non l’avrebbe lasciata da sola.

Alla fine, raggiunsero una zona più fatiscente, ma più tranquilla.

«È sicuro che sia da queste parti?», domandò Oliver.

Harry annuì con veemenza. «Sì, sì. Certo. È un po’ fuori mano, ma mi è stato assicurato che è davvero il migliore».

«Non c’è mai stato prima d’ora?»

«No, ma sono fiducioso».

Oliver fece spallucce. «Se lo dice lei».

Proseguirono, infilandosi in un terribile dedalo di viuzze sempre più squallide che si addentravano nel quartiere cinese.

«Pensi che sia una buona idea?», sussurrò Belle a Oliver quando Harry attraversò la strada e si fermò davanti a quello che doveva essere il ristorante.

«Immagino che lo scopriremo presto». Le mise un braccio attorno alle spalle e seguirono Harry all’interno del locale.

A parte loro e un barista solitario, il ristorante era deserto.

«Perché è così vuoto se dicono che si mangia tanto bene?», chiese Belle. «Non capisco».

«Siamo arrivati presto», rispose Harry. «Penso che abbiano appena aperto».

«Ma io non riesco a sentire l’odore di alcuna pietanza, e voi?»

«Forse non hanno ancora cominciato a cucinare».

«A me andrebbe proprio una birra», disse Oliver. «Anche se non mi pare che ci siano delle bottiglie dietro al bancone del bar».

«Probabilmente le tengono al fresco sul retro, nei frigoriferi», spiegò Harry.

Oliver schioccò le dita all’indirizzo del barista, che annuì e sparì oltre una porta basculante.

«Ecco», disse Harry. «Proprio come dicevo io. Le tengono sul retro. Ora, se volete scusarmi, devo andare a cercare la toilette».

Mentre Harry era in bagno, Belle e Oliver parlarono per qualche minuto. Lui le disse che aveva sentito la sua mancanza, e lei gli raccontò dell’emozionante giro in mongolfiera sopra Bagan. Tuttavia, malgrado incrociasse spesso il suo sguardo, Belle si accorse che di tanto in tanto scrutava l’ambiente, come se stesse cercando qualcosa. Qualche altro minuto dopo, visto che Harry non era ancora tornato, Oliver si alzò di scatto, afferrò la mano di Belle e la fece alzare.

«Non mi piace», disse con voce tesa.

Lei rabbrividì e si aggrappò alla sua mano.

«Andiamo. Usciamo da qui. C’è qualcosa che non va».

La spinse davanti a sé e fecero uno scatto in direzione della porta. Una volta fuori, continuò a tenerla per mano e si misero a correre.

Con un lampo accecante di luce bianca, l’esplosione fece tremare la strada, e il calore fu talmente intenso che a Belle parve che le si fossero sciolte le ossa. Sbalzata contro il muro di una casa, non era in grado di trarsi in salvo e il cuore prese a martellarle all’impazzata all’udire altre urla terrorizzate. I frammenti e i vetri infranti scagliati in aria la costrinsero ad accucciarsi e a proteggersi la testa con le braccia. Incredula e sotto shock, provò a deglutire, ma con la bocca piena di sabbia, la gola le faceva davvero male, e il sapore acre del fumo che sentiva sulla lingua le fece venire un conato di vomito. Dapprima le ricordò il sapore del carbone, ma, quando si mescolò al sangue che aveva in bocca, diventò rancido e amaro. Cercò di chiamare Oliver, solo vagamente conscia del fatto che poteva averlo perso. Non riusciva a sentirlo in mezzo a quel frastuono assordante, né a vederlo oltre la fitta nube di cenere nera che si stava gonfiando sopra la strada. Chiuse gli occhi secchi e infiammati e si rese conto di quanto le facesse male la testa, come se l’avessero presa a pugni. Quando riaprì gli occhi, la vista le si era annebbiata. Faceva caldo. Davvero troppo, troppo caldo. Provò a urlare, ma la gola, ancora irritata dalla polvere e dal calore, emise soltanto un verso rauco. Per un istante, ebbe la sensazione di aver preso a fluttuare. Poi diventò tutto nero.

Quando riprese i sensi, Oliver era accovacciato al suo fianco, con i luminosi occhi azzurri che spiccavano sul viso sporco e coperto di polvere. “È vivo”, pensò. “È vivo”. Lui le accarezzò i capelli e le si sedette accanto. Intontiti e sconvolti per quanto appena accaduto, non aprirono bocca. Dopo qualche minuto, Oliver sembrò riaversi, si alzò e l’aiutò a rimettersi in piedi. Poi si aggrapparono l’uno all’altra, abbandonandosi alla travolgente sensazione di sollievo scatenata dall’essersi ritrovati vivi e vegeti.

«Credi di riuscire a camminare?», le domandò Oliver quando si staccarono.

Lei annuì.

«Pensavo…». Inebetita dall’esperienza traumatica, le si spezzò la voce e non riuscì a pronunciare quelle terribili parole.

«Anch’io». E Belle vide che lui aveva gli occhi inumiditi dalle lacrime.

Oliver la sostenne mentre zoppicava verso l’altro lato della strada, dove si appoggiò a un muro con il cuore che le batteva forte. Poi si voltò ad aiutare chiunque avesse bisogno di rimettersi in piedi. Chi aveva riportato solo pochi graffi si stava già rialzando da solo, mentre chi era rimasto gravemente ferito giaceva ancora a terra. Oliver assicurò a tutti che stava arrivando un’ambulanza e fece il possibile per ciascuno di loro prima di tornare da Belle.

Poi allungò le braccia verso di lei. «Lascia che ti dia un’occhiata».

Invece di stringergli le mani, Belle gli pulì uno sbaffo di polvere nera dalla guancia sinistra e poi chiuse gli occhi.

«Belle?».

Lei annuì. Stordita e frastornata com’era, trovava però impossibile esprimere la bufera che stava imperversando dentro di lei. Avrebbe tanto voluto mettersi a piangere, ma aveva gli occhi secchi e le lacrime le erano, chissà come, rimaste bloccate in gola.

«Tu stai bene?», chiese quando riaprì finalmente gli occhi.

«Io sì. E adesso fatti dare un’occhiata».

Era sporca di polvere e pietrisco a seguito dell’esplosione, e all’inizio gli fu difficile capirci qualcosa, ma dopo qualche istante concluse che aveva riportato solo dei tagli e un paio di graffi, ma nessuna ferita grave.

Suggerì di far chiamare un dottore dall’albergo piuttosto che scarpinare fino all’ospedale, dove il personale medico sarebbe stato oberato di lavoro e lei avrebbe ricevuto cure mediocri. Quando tornarono indietro ripercorrendo le solite stradine tortuose, a Belle tremavano ancora le gambe, ma si appoggiò a lui, che la cinse con un braccio e l’aiutò a procedere a piccoli passi, strascicati e incerti. Alla fine, trovarono un risciò solitario.

Mentre Oliver la sosteneva e l’aiutava a varcare la porta per entrare nell’atrio dell’hotel, incrociarono Harry che correva giù dalle scale, con la valigia in mano. Non appena li vide, sbiancò di colpo e cercò di superarli con uno spintone, mormorando qualcosa a proposito di un impegno per il quale era richiesto altrove.

Oliver lo afferrò per un braccio. «Non penso proprio», disse e, dopo aver lanciato un’occhiata a Belle per assicurarsi che stesse bene, la lasciò andare e quasi trascinò l’ometto in un angolo in fondo alla sala d’aspetto dell’albergo. Belle li seguì.

«Che fine avevi fatto?», volle sapere Oliver, assumendo un’aria minacciosa.

Harry lo fissò con gli occhi sbarrati e tentò di rispondere, ma gli uscì di bocca solo un balbettio incomprensibile.

«Io… io… io sono uscito da dietro».

«Vediamo se ho capito bene. Sei uscito da dietro. Perché?»

«Per… per… andare in bagno».

«Ma non sei tornato dentro?».

Harry si osservò i piedi, poi alzò lo sguardo su Belle, il senso di colpa stampato in faccia.

«Ascoltami bene, verme schifoso», ringhiò Oliver, «ci hai quasi fatti ammazzare. Ora mi spieghi per filo e per segno cosa sta succedendo».

L’ispettore, che continuava a spingere indietro gli occhiali che gli calavano sul naso, sembrava terrorizzato.

Oliver gli stava stringendo il braccio e iniziò a scrollarglielo con forza. «La verità, Harry».

Lui continuava a tacere.

«Vuoi davvero che ti spezzi un braccio?».

Harry scosse la testa. «Ti prego, non farmi del male», disse con un singhiozzo. «Io non lo sapevo».

«Non sapevi cosa?», domandò Belle, lasciandosi cadere di peso su una sedia.

«Mi hanno detto che non avevo altra scelta».

«Altrimenti?».

Gli si era rivolta con freddezza e Harry impallidì. Quando, a capo chino, indirizzò le sue parole al pavimento, la sua voce non era altro che un sussurro.

«Se non avessi fatto come dicevano loro, avrebbero fatto del male a mia moglie».

Belle si passò una mano tra i capelli impolverati e si massaggiò la cute. Stava dicendo la verità? C’era Harry dietro al biglietto che aveva ricevuto? Poi notò un taglio sanguinante sul proprio braccio e, sotto gli occhi di Oliver, se lo tamponò con la camicia. Quando ebbe finito, studiò il viso di Harry; vide che era in condizioni pietose. E, per quanto fosse arrabbiata e altrettanto scossa, non poté fare a meno di provare un briciolo di compassione per quell’uomo tremante e con i nervi a pezzi.

«E cosa volevano che facessi?», chiese Oliver.

Harry alzò gli occhi e per la prima volta incrociò lo sguardo inferocito del giornalista. «Giuro che non sapevo che sarebbero arrivati a tanto».

«E a cosa pensavi che sarebbero arrivati, allora?»

«Pensavo che volessero limitarsi a spaventarla».

Oliver sbuffò. «Be’, questo sì che è ammirevole. Perché per te è normale spaventare una giovane donna che non ha fatto niente di male, giusto?».

Harry si morse un labbro e rivolse uno sguardo implorante a Belle. «Mi hanno detto che avrebbero fatto del male ad Angela. E lei è già molto tesa, capite».

Oliver allentò la presa e lo spintonò bruscamente per farlo sedere su una sedia.

«Penso sia il caso che tu ci racconti tutto».

Harry non aprì bocca.

«Harry», disse Belle, sporgendosi verso di lui. «Devi parlare. Ce lo devi».

«Mi dispiace», replicò, guardandola di sfuggita.

«Allora?».

Ancora una volta, Harry non rispose.

«Ora stammi bene a sentire, piccola carogna», intervenne Oliver, ma poi si trattenne e fece avanti e indietro per un istante o due, sforzandosi di tenere a bada la collera. Belle era sicura che fremesse dalla voglia di assestare un pugno all’altro uomo e gli fece cenno di mantenere la calma.

«Chi è stato, Harry? Chi ti ha costretto a comportarti in questo modo?», chiese lei.

L’ispettore assunse un’espressione abbattuta e gli si appannarono gli occhiali. «Trattienila, mi hanno detto».

Oliver si voltò verso di lui. «Chi?»

«Giuro che non lo sapevo che ci sarebbe stata una bomba. Mi avevano detto di contattare un numero e dire che Belle stava andando al ristorante. Il barista mi ha detto che doveva parlarmi di una cosa e siamo andati sul retro, in un magazzino, dove mi ha comunicato che ce ne dovevamo andare. Poi ho sentito l’esplosione e ho capito».

«D’accordo, Harry», replicò Oliver con freddezza. «Allora immagino che faremo così…».