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Mentre faceva avanti e indietro per la stanza, Belle iniziò a sentire caldo e cercò l’interruttore per mettere in funzione le pale. Lo trovò e lo accese, ma il ventilatore si limitava a spostare l’aria calda e non le era di alcun giovamento. Non vedeva l’ora che tornasse Oliver, nella speranza che il legame che li univa le togliesse le perplessità che Gloria era riuscita a instillarle nella mente. Per quanto la necessità di credere in Oliver avesse radici profonde, e malgrado avesse preso le sue difese, il minuscolo seme del dubbio aveva attecchito. E se invece ci fosse stata una minima possibilità che Gloria avesse ragione? Ma no, non poteva essere. Era semplicemente spaventata e preoccupata, e non sapeva più cosa pensare.

Alla fine, quando tornò a casa con una valigetta in mano, il suo sguardo le parve impenetrabile ed ebbe un tentennamento. “Amarti mi spaventa”, pensò, e chinò il capo affinché non notasse cosa le si sarebbe letto negli occhi.

«Qualcosa non va?», fu l’unica cosa che le chiese.

«È venuta Gloria».

«Ma io…».

Belle lo interruppe. «Ha detto che non dovrei fidarmi di te».

Un lampo di irritazione gli attraversò il volto. «Perché l’hai fatta entrare?».

Si fissarono a vicenda.

«Belle, non è di me che devi preoccuparti».

«Lo so. Ma di chi, allora?».

Lui fece spallucce. «Non lo so ancora, ma guarda, ho trovato qualcosa». Prese la valigetta e tirò fuori uno scampolo ingiallito di giornale che, a giudicare dall’angolo annerito, sembrava scampato al fuoco che aveva distrutto il resto.

«L’ho trovato per caso mentre cercavo riferimenti alla Valle Dorata. È un minuscolo frammento di un articolo più lungo, ma si riesce ancora a leggere la data. Otto anni fa, poche settimane prima che arrivassi in Birmania. A quanto pare, durante dei lavori di ristrutturazione in una casa nella Valle Dorata, venne rinvenuto lo scheletro di un neonato mentre gli operai scavavano in giardino per prepararsi a costruire una dépendance».

Belle si sentì sbiancare. «Era la casa dei miei genitori? È per questo che mia madre stava scavando?».

Cosa sapeva sua madre, pensò? E se non era stata Diana a seppellire la bambina, allora chi era stato? Immersa nei suoi pensieri, non sentì cosa le stava dicendo Oliver.

«Hai capito?».

Scosse la testa, avvilita.

«Ho detto che non dice di chi fosse, Belle. Ma dice che era il numero ventuno, quindi non era la casa dei tuoi genitori».

«Ma era talmente vicina. Questa dev’essere la prova che mia sorella è stata seppellita lì, no?».

Lui annuì. «Potrebbe essere. Come ti avevo anticipato, sono andato a controllare negli archivi di un altro giornale, ho un amico che lavora lì come redattore, e l’ho trovato infilato in mezzo ad altri due articoli sullo sviluppo edilizio nella Valle Dorata. Non c’è altro sullo scheletro. Immagino che abbiano insabbiato l’intera vicenda. Non ho trovato nient’altro».

«Pensi che mio padre ne fosse stato informato?»

«Non saprei. Il caso era stato chiuso tanti anni prima. Nessuno ha portato avanti delle indagini, anche se è evidente che il resto dell’articolo a cui apparteneva questo frammento è stato distrutto…». Fece una pausa. «Deve significare qualcosa. Comunque, farò il possibile per scoprire a chi apparteneva quel giardino».

«A quale scopo?»

«Se Elvira è stata sepolta lì, non vuoi sapere chi ne è stato responsabile?».

Arrivarono un’ora dopo all’ufficio del registro catastale, dove alla fine riuscirono a risalire alla famiglia che all’epoca abitava al numero ventuno. Quando saltò fuori che le persone in questione erano George de Clemente, commissario della divisione di Rangoon, con sua moglie Marie e una bambina piccola, Oliver lanciò un fischio.

«Edward ti ha mai fatto accenno alla casa al numero ventuno?».

Belle scosse la testa. «Ha detto che gli piacerebbe comprare casa mia».

Oliver inarcò le sopracciglia. «Interessante».

«Questo George dev’essere un parente di Edward e Gloria. È un cognome inconsueto».

«Controllerò chi ha ereditato la casa o chi l’ha acquistata».

Mentre lui continuò a leggere per qualche altro minuto, Belle non riusciva a capire perché nessuno le avesse detto che era stato ritrovato uno scheletro sepolto nel giardino della casa al numero ventuno. Gliel’avevano nascosto di proposito? O era l’oscuro segreto di qualche altra famiglia e non aveva niente a che vedere con Elvira? Una gravidanza indesiderata, magari?

«Eccoci qua. Pare che la casa sia stata ereditata dal nipote della coppia, Edward de Clemente, quindi eccoti la tua risposta».

«Gloria ha una casa nella Valle Dorata. Non ci sono mai stata, ma forse vive lì. E se è la stessa casa, perché non mi ha detto che ci hanno ritrovato uno scheletro?»

«È quello che penso anch’io. Strano, non trovi?».

Belle annuì. «Cosa pensi che abbia a che fare Edward con tutta questa storia?».

Lui fece una smorfia. «Non lo so. Forse niente. Comunque, è da un po’ di tempo che so che Edward non si limita a lavorare come consigliere del commissario».

«Cos’altro fa, allora?»

«Lavora per l’unità di intelligence di Rangoon».

Belle era orripilata. «Pensi che ci sia lui dietro alla bomba a Mandalay?»

«Meglio evitare di saltare a conclusioni affrettate. Abbiamo bisogno di prove inconfutabili per poterlo dimostrare».

«Dunque, cosa sappiamo su questo George de Clemente?».

Oliver aggrottò la fronte e valutò la domanda. «Be’, qui dice che avevano solamente una figlia femmina. Certo, è possibile che lui e sua moglie abbiano avuto un altro bambino. Forse dei gemelli, di cui uno è morto».

«Ma perché seppellirlo in giardino?»

«Magari era nato morto?»

«Questo non spiega un bel niente. Perché non seppellirlo al cimitero, in chiesa? Dev’essere Elvira».

«Potrebbero averlo fatto per altre ragioni. E se fosse stato il figlio di una domestica?».

Belle chinò il capo.

«Per prima cosa, arriviamo a stabilire cosa ne è stato di questo George. Scopriamo dove abita adesso».

Dall’ufficio del catasto, andarono agli archivi dei dipendenti pubblici per vedere se fosse possibile trovare qualche informazione tra i pochi documenti consultabili dal pubblico. Ammesso che molti atti sarebbero stati segretati, valeva la pena fare un tentativo. Mezz’ora dopo, la loro perseveranza venne premiata, perché lessero una nota a piè di pagina sotto un paragrafo dedicato a George de Clemente, nel quale veniva descritto con dovizia di particolari che lui e la sua famiglia si erano trasferiti a Kalaw nel 1911.

«L’anno in cui è scomparsa Elvira», disse Belle.

«Conosco un tizio che ha lavorato per anni a Kalaw, nella sanità pubblica. Forse saprà dirci qualcosa di più».

Il Dicastero delle poste e telegrafi era stato fondato nel 1884 e, visto che Oliver era un giornalista, il quotidiano per cui lavorava l’aveva aiutato a procurarsi quasi subito una linea telefonica. Mentre lui faceva alcune telefonate, Belle lo osservò, mordendosi l’interno della guancia e interrogandosi sulla famiglia de Clemente. Quale diamine poteva essere il collegamento tra loro e sua sorella? Si sentiva stremata per le tante domande che le vorticavano per la testa, ma era anche emozionata. Bramava con tutta sé stessa di sapere con esattezza cos’era successo tanti anni prima e perché tali informazioni fossero andate perdute o fossero state tenute nascoste.

Quando Oliver smise di fare telefonate, fu per dirle che la famiglia de Clemente aveva lasciato la Birmania per andare a vivere in America, ma che fino a quel momento aveva tenuto una bambinaia cinese, la quale, una volta partita la famiglia, era tornata a gestire un chioschetto dei giornali a Rangoon. «Non hanno mai vissuto a Kalaw».

«È strano».

«Già. Perché andare a Kalaw se avevano intenzione di lasciare il Paese?»

«A meno che non ci siano andati in vacanza. È un posto collinare, no? Un po’ come Maymyo».

Oliver annuì. «Penso che dovremo tornare al segretariato. Conosco l’impiegato dell’ufficio che rilascia le licenze di servizio. Se riuscissimo a trovare la bambinaia, potrebbe sapere qualcosa sul neonato sepolto nel giardino della casa al numero ventuno».

Belle rise. «Perché le bambinaie sanno sempre tutto».

«E se ha ottenuto una licenza per il suo chiosco, la troveremo».

«Loro sanno tutto e tu conosci tutti».

Oliver simulò un inchino. «Sto solo facendo il mio dovere, mia signora. I britannici tengono tutto segreto, quindi non mi resta altra alternativa che scovare le informazioni di cui ho bisogno in qualunque altro modo possibile».

Belle gli rivolse un sorriso riconoscente. «Be’, ne sono veramente lieta».

«Sembri molto british…», disse lui, ricambiando il sorriso. «Ma non farti troppe illusioni. La bambinaia potrebbe essersi trasferita altrove, o magari potrebbe persino essere tornata a vivere in Cina».

Quando si ritrovarono nei pressi del segretariato, Oliver le indicò un chiosco del tè con tavoli e sedie all’aperto, all’ombra di un grande tendone.

«Meglio se aspetti lì».

Lei scosse la testa con decisione. «Vengo con te».

«Tesoro, conosco quel tizio. È un tipo all’antica. Non parlerà con una donna. Se vieni anche tu, desterai soltanto sospetti. Se vado da solo, penserà che sto facendo ricerche legate a una notizia per il mio giornale».

«A proposito del tuo giornale, non dovresti essere al lavoro?»

«Sono in aspettativa. Senti, non ci metterò molto, ma stai attenta. Chiunque abbia ordito l’attacco a Mandalay potrebbe tranquillamente averti seguita».

«Oddio».

«Forse non è una cosa negativa. Potrebbe aiutarci a farlo o farla uscire allo scoperto. Siamo in un luogo pubblico e c’è troppa gente perché ti possa capitare qualcosa di male. Se senti anche solo vagamente puzza di guai, entra in quella caffetteria e chiedi aiuto al proprietario. È un amico».

Oliver se ne andò, e Belle attraversò la strada per raggiungere uno dei tavoli, dove prese posto accanto a un gruppetto di signore e poi ordinò un tè. Era una giornata torrida che prometteva temporali e si sentiva infiacchire da quell’umidità estrema. In lontananza, il brusio che si levava dalle strade affollate di Rangoon andava avanti incessantemente. Con i nervi a fior di pelle, rimase seduta a scrutare le persone che si aggiravano davanti all’imponente segretariato. Alcune, che non erano britanniche, aspettavano stizzite che le facessero entrare, mentre uomini altezzosi che procedevano a passo svelto andavano e venivano a loro piacimento. Pregava che Oliver non ci mettesse molto. Ma quanto era stato scrupoloso, non lasciando niente di intentato e dimostrando di essere un vero giornalista d’inchiesta.

Più Belle si avvicinava a conoscere il suo passato, più le sembrava reale. Quanto doveva essere stato devastante per sua madre fronteggiare le accuse mentre stava cercando di fare i conti con un dolore straziante. L’aveva giudicata per così tanto tempo. Si disse che all’epoca era soltanto una bambina e non avrebbe potuto fare altrimenti. Ma non le era di alcun aiuto. “Mi dispiace, mamma, mi dispiace tanto”, sussurrò tra sé e sé. Ma era troppo tardi.

Una voce si insinuò nei suoi pensieri, e strizzando gli occhi a causa del riverbero del sole, alzò lo sguardo e vide che Edward si stava avvicinando al suo tavolo. Si sentì attraversare da un brivido di paura e si sforzò di mantenere la calma. Lui sembrava a disagio, la pelle più arrossata del consueto, come se fosse troppo accaldato.

«Belle». Il suo fu un saluto conciso.

Lei provò a deglutire, ma le si era chiusa la gola, così fece scattare il polso per indicargli una sedia libera.

Non si accomodò e, accigliandosi, parve osservarla con attenzione. «Ho sentito dire che stai facendo un sacco di domande. Devi stare più attenta alle persone a cui ti rivolgi e a quelle che parlano in tua vece. Se volevi sapere qualcosa, bastava che tu me lo chiedessi».

«Io…».

«Lascia perdere il tuo tè, mia cara, vorrei che tu venissi con me».

Le si era rivolto con una certa concitazione e un tono che non ammetteva repliche, ma Belle scrollò il capo e, conficcandosi l’unghia del pollice nel palmo della mano, ritrovò la voce. «Scusami, Edward, sono davvero felicissima di rivederti, ma sto aspettando Oliver».

«Pensavo che fossimo amici, io e te». Inclinò la testa e stavolta le sorrise, ma c’erano ben poco calore e sincerità in quel sorriso, e Belle notò le ombre scure che aveva sotto gli occhi.

«Sembri stanco», disse.

«È sempre così in questo periodo dell’anno».

Anche se Belle aveva capito cosa intendesse, quella faccia torva diceva qualcosa di completamente diverso. Si asciugò la fronte con il palmo della mano e pregò che Oliver tornasse in fretta. «Fa veramente caldo, eh? Ma come ti dicevo…».

«La mia è una semplice richiesta, Belle. Non mi sognerei mai di costringerti, ma dico sul serio, ho bisogno che tu venga con me. Per il tuo bene, capisci». Il tono era cambiato di nuovo, era diventato più carezzevole.

«Ma, Edward, il punto è che non capisco», disse lei, cercando di parlare in modo quanto più spensierato e cordiale possibile, malgrado un persistente senso di paura. «Di cosa si tratta?»

«Ho una macchina che ci sta aspettando», continuò lui, senza rispondere alla sua domanda. «Non posso spiegartelo adesso. È una questione di poco conto e non ci vorrà molto. Avremo finito in men che non si dica. Vorremmo soltanto farti un paio di domande. Non ti succederà niente di male e ti riporterò qui in un batter d’occhio».

«Vorremmo chi?»

«I miei colleghi, chi altri?».

Belle prese fiato, poi espirò lentamente. Il caldo era aumentato a dismisura e adesso era diventato insopportabile.

Mentre Edward tirava fuori un fazzoletto e si asciugava la fronte, Belle lanciò un’occhiata alla sua sinistra e intravide Oliver in lontananza, diretto verso di loro. Sperava che Edward non avesse sentito il sospiro di sollievo che aveva tirato, vedendo il suo amato, e che l’avrebbe tradita. Rimase seduta e guadagnò tempo dicendogli che non vedeva l’ora di assistere all’arrivo dei monsoni. Dentro, stava tremando. Non sarebbe mai andata con Edward, neanche per idea.

«Come sta Gloria?», chiese alla fine.

«Gloria sta bene, molto bene. Grazie per averlo chiesto. Ad ogni modo, vogliamo andare? Ti riporterò indietro in un battibaleno, fai la brava».

La stava trattando con condiscendenza, pensò, ma era indubbiamente agitato.

Oliver li aveva quasi raggiunti, ma Edward doveva aver sentito il rumore dei suoi passi, perché si voltò a vedere chi stesse arrivando.

Belle incrociò lo sguardo di Oliver, poi si alzò in piedi e afferrò la borsa per dare l’impressione di voler seguire Edward, anche se le tremavano le gambe. Appoggiò una mano sul tavolo per ritrovare l’equilibrio e sperò di riuscire a mandare in porto quella messinscena. «Edward vuole che vada con lui. Dice che non ci vorrà molto. Così, faccio giusto…».

«È stato mandato dalla polizia?», domandò Oliver all’altro uomo, interrompendola. «Volete metterla in stato d’arresto?»

«Certo che no. Perché dovremmo? Sto solo cercando di tenerla d’occhio».

«In tal caso, a meno che non vogliate arrestarla, lei rimane con me. Ci penso io a tenerla d’occhio. Giusto, Belle?».

Lei annuì.

Edward si voltò verso di lei e le rivolse uno sguardo duro e dispiaciuto. «Non posso dirti come scegliere le tue amicizie, ma posso dirti che stai commettendo un gravissimo errore. Vorrei solo che mi avessi prestato ascolto».