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Avrebbero dovuto passare un’altra notte a Maymyo, e Belle aveva intuito che era cambiato qualcosa di essenziale. La loro relazione aveva cominciato a pendere da un lato ben preciso, era leggermente diversa. Quando si spogliò davanti a lui, a capo chino e ammutolita, provò imbarazzo e un insieme di sensazioni mai provate prima. Speranza? Trepidazione? Magari persino un po’ di apprensione? Forse essere scampati insieme a una morte quasi certa l’aveva resa più attenta ai suoi sentimenti più profondi, forse aver trascorso insieme una giornata tranquilla aveva cementato il loro legame, o forse era perché era finalmente riuscita a parlare del massacro a Rangoon. O magari era il complesso di tutte quelle cose. In ogni caso, sentiva di aver perso la capacità di comunicare attraverso le parole e l’atmosfera in camera da letto era satura di un bisogno inespresso. Fin dall’inizio, tra loro c’era sempre stata una forte attrazione. Oliver non le toglieva gli occhi di dosso e, quando Belle sollevò la testa e incrociò il suo sguardo, ci trovò tutta la profondità del suo desiderio. A prescindere da cosa li avesse fatti avvicinare sempre di più, era giunto il momento.

Si spogliò a sua volta e, quando restarono nudi uno di fronte all’altra, abbassando la guardia, fu come se avessero tacitamente concordato di mettere a nudo anche la loro anima, di scoprire i loro difetti, le insicurezze, il palese desiderio. Non faceva freddo, ma Belle rabbrividì e allungò una mano verso di lui.

A letto, Oliver le ordinò di sdraiarsi e di restare immobile. Quasi non mosse nemmeno un dito, Belle, mentre lui le accarezzava il corpo e, lasciandolo fare, percepiva ogni singolo momento con una sensualità talmente amplificata da diventare, visto che continuava a trattenersi un po’, una specie di dolcissima tortura. Ogni tocco delle sue dita – sul collo, sui seni, sulle cosce, sulla bocca – le provocava una scarica elettrica. Ogni volta che la sfiorava con le labbra, la lasciava senza fiato. E poi cambiò di nuovo tutto. Con l’aumentare del fervore, sentì che tutte le tensioni e le preoccupazioni che si portava dietro da così tanto tempo si stavano allentando; e stava lasciando andare anche il dolore e la paura. Lo voleva talmente tanto che la sua mente non riusciva a pensare ad altro.

«Adesso facciamo l’amore», lo incitò con tono pressante.

Il sesso in sé fu potente, sconvolgente, e le fece venire voglia di piangere, anche se non sarebbero state lacrime di tristezza; sarebbero state lacrime liberatorie, di gioia, e poi, prima di rendersi conto di cosa stesse succedendo, una risata cominciò a scuoterle il petto. Proruppe dalle sue labbra, crebbe e divenne inarrestabile. Una risata così innocente e spontanea, di cui in passato non serbava ricordo. Le sembrava di essere tornata bambina e si sentiva libera, come uno degli uccelli che aveva liberato alla pagoda Shwedagon.

Oliver rise insieme a lei, poi si puntellò su un gomito e studiò attentamente la sua espressione, con una concentrazione assoluta. «Sapessi da quanto tempo aspettavo questo momento!».

Belle socchiuse gli occhi. «Da quanto?»

«Mmm». Storse la bocca, come se ci stesse pensando. «Dal primo momento in cui ti ho messo gli occhi addosso».

Sorrise compiaciuta e un brivido d’eccitazione percorse ogni centimetro del suo corpo ancora formicolante.

«Stai bene? Non ti ho fatto male, vero?».

Gli punzecchiò le costole. «Se quello era farmi male, puoi farmene ancora un po’, per favore?»

«Adesso?»

«Ah-ah».

Rise. «Sei una maestra quando si parla di ardue imprese».

Stavolta se la presero incredibilmente comoda, e in seguito le disse che l’amava e che l’avrebbe amata sempre. Belle gli prese una mano e gli baciò la punta delle dita, quindi si accoccolò accanto a lui, esausta, ma con la mente sgombra.

Il giorno successivo, Oliver sistemò i loro bagagli nelle rastrelliere sopra i sedili di quello che si era rivelato essere un treno per Rangoon senza vagoni di prima classe. Condivisero il loro con alcuni indiani addormentati e, sporadicamente, con varie donne birmane che portavano frutta e verdura più a sud. Al di là della puzza di sigaro, non era così male. Tuttavia, quando vennero raggiunti da un venditore di pesce, Belle si vide costretta a spostarsi, sbiancando, accanto a un finestrino talmente inceppato da far passare soltanto un leggerissimo accenno d’aria calda. Da lì riusciva a sentire l’odore del fumo dei fuochi dei villaggi e dei venditori ambulanti che cucinavano sulla brace accanto ai binari del treno. Il fumo la fece tossire, ma era comunque un passo avanti rispetto alla nausea provocata dalla puzza di pesce.

Ogni ora o giù di lì, orde di ambulanti si avventavano contro i finestrini o percorrevano il corridoio centrale vendendo riso appiccicoso e spaghetti piccanti. Belle e Oliver non capivano perché il treno continuasse a fermarsi e ad aspettare. In certi casi, sembrava che stessero ancora lavorando alla riparazione dei binari, ma altre soste restavano inspiegabili e nessuno sembrava in grado di rispondere alle loro domande in merito ai continui ritardi. Ogni volta che si fermavano, Oliver insisteva affinché Belle restasse al suo fianco, perché era risaputo che i ladri frequentavano le stazioni più remote e isolate, pronti a sgattaiolare a bordo e a derubare i passeggeri addormentati.

Ora che aveva superato il trauma iniziale causato dall’esplosione, Belle era felice e la rincuorava essere di nuovo con lui, anche se le sarebbe piaciuto che le circostanze fossero diverse. Sentiva la sua presenza in modo viscerale. Il fatto che le avesse salvato la vita valeva più di qualsiasi altra cosa al mondo, e si appoggiò a lui, inspirando a fondo l’odore della sua pelle e pregando di non incappare in altre minacce. Oliver, invece, sembrava inquieto, sempre intento a scrutare i passeggeri che salivano e scendevano dal treno e a lanciare occhiate alle piattaforme a ogni fermata. Portava gli occhiali da sole e un cappello di paglia, grazie ai quali era difficile che qualcuno notasse cosa stava facendo, ma Belle riusciva a percepire tutta la sua tensione. Anche lei squadrava tutti i nuovi arrivati, ma, quando salirono cinque o sei agenti di polizia, si rilassò un pochino.

Dopo seicentoventi chilometri per i quali c’erano voluti tre giorni di estenuante viaggio, molto più di quanto fosse ragionevole, tornarono al caldo umido e appiccicoso di Rangoon e andarono subito all’appartamento di Oliver. Provando un enorme senso di sollievo, e senza avere la più pallida idea di cosa potesse attenderli, si sdraiarono sul letto senza neanche cambiarsi. Lui le prese una mano e il suo respiro rallentò immediatamente. Belle, troppo stanca per fare chissà quali ragionamenti, sapeva però che quanto accaduto tra loro indicava una cosa nella quale aveva segretamente sperato, per quanto solo vagamente compreso. Aveva un senso, quella relazione, un senso che parlava del presente, sì, ma anche del futuro. E sapeva che la forza del loro amore avrebbe portato a una vita completamente diversa. Se non altro, di quello era convinta. Poi chiuse gli occhi, si accoccolò al suo fianco e si addormentò.

Belle si svegliò per prima e scoprì che avevano dormito avvinghiati, come se i loro corpi, malgrado loro fossero troppo stanchi, avessero saputo ciò di cui le loro anime avevano bisogno. Gli sfiorò la barbetta sul mento e si godette quel senso di conforto, la vicinanza, il suo alito caldo sulla guancia, e quando aprì gli occhi, Oliver le sorrise. Lo baciò con foga sulle labbra e sentì la sua erezione che premeva di nuovo contro il suo corpo. Mentre tracciava i contorni del suo bel viso con la punta delle dita, si accorse di quanto fosse stupendo, la pelle dorata e lucente, gli occhi azzurri e pieni di sentimento. Fecero l’amore, dapprima con gentilezza, ma finendo con una tale passione che si ritrovò a urlare. Oliver le coprì delicatamente la bocca per zittirla e le sussurrò di fare piano. Quando l’alzarsi e l’abbassarsi del suo petto tornarono alla normalità, Belle si divincolò dall’abbraccio e scivolò in bagno per andare a lavarsi. Ormai tutti i suoi vestiti erano sporchi, perciò sciacquò una camicetta e una gonna lunga e le mise ad asciugare sopra la vasca.

Quando uscì dal bagno, con i capelli umidi e appiattiti attorno al viso, vide che Oliver le stava dando le spalle ed era intento a preparare il caffè.

Sentendola, si voltò e le sorrise con una tale dolcezza che a Belle si fermò letteralmente il cuore. Provare così tanto amore mentre si era attanagliati dalla paura era davvero indescrivibile.

«Scusa, non c’è da mangiare», commentò lui. «Faccio un salto a prendere qualcosa».

«Non ho così fame. Il caffè andrà bene».

«Vieni qui», disse con un sorriso ancora più grande a illuminargli il viso.

Tutto d’un tratto, però, la cruda realtà prese il sopravvento, e con essa la paura divenne più forte. Le si strinse il petto mentre sussurrava: «Qualcuno ha tentato di uccidermi». Rimase dov’era e ispezionò il pavimento. Qualsiasi cosa pur di non doverci pensare.

«Andrà tutto bene», disse lui.

Alzò la testa per guardarlo in faccia. «Davvero?».

Oliver fece cenno di sì con la testa. «Vieni qui», ripeté.

Gli si avvicinò, e lui la tenne stretta e le accarezzò delicatamente i capelli. «Faremo in modo che vada tutto bene. Insieme».

Si sentiva più al sicuro sapendo che era lì con lei. Ciò che li teneva uniti era un legame istintivo. Era un legame sincero con il quale ciascuno dei due dichiarava all’altro: so chi sei e scoprirò ciò che ancora non conosco. Le vennero in mente le parole «anime gemelle» e, per quanto sembrasse un cliché, era la verità.

Quando si incamminarono verso l’hotel Strand e cominciarono a percorrere quelle strade familiari, a Belle vennero le palpitazioni per l’agitazione. Anche se la città era frenetica e c’era gente ovunque, sapeva che se qualcuno avesse deciso di pedinarli, scivolare tra le ombre senza farsi notare sarebbe stato un gioco da ragazzi. Oliver continuava a incoraggiarla, eppure lei temeva un’altra aggressione e aveva paura che ogni uomo a cui passavano accanto stesse nascondendo un coltello, o persino una pistola. Rimase aggrappata a lui, ma i suoi occhi sfrecciavano da una parte all’altra, e non era in grado di tenere a bada le sue paure. Percependo la sua ansia crescente, Oliver la condusse in mezzo alla folla e si affrettò a fermare un risciò.

Arrivati in albergo, lasciò una lettera di dimissioni alla reception e le venne consegnata una busta spedita per posta aerea che era arrivata mentre era via. La infilò in borsa per leggerla in un secondo momento, poi corse in camera sua per recuperare alcuni dei suoi effetti personali. Prima se ne andava da lì, meglio era.

Non ci mise molto. Aveva appena finito di mettere in una valigia i vestiti e i cosmetici e si stava accingendo ad andarsene quando Rebecca entrò nella stanza, le curve messe in risalto da un classico abito rosso attillato.

«Belle! Dove sei stata? Hai una pessima cera».

Belle sorrise all’amica e notò la stanchezza che le si leggeva negli occhi, e i capelli che avevano bisogno di una bella spazzolata. Sembrava fosse stata di nuovo fuori per tutta la notte.

«È una storia lunghissima», disse Belle.

Rebecca si lasciò cadere sul letto. «Be’, dimmi almeno dove stai andando. Torni a casa in Inghilterra?»

«Non ancora. Ho lasciato il lavoro e mi trasferisco a casa di Oliver».

Gli occhi di Rebecca erano pieni di incredulità. «Perbacco! Be’, buon per te, ma hai pensato alle solite malelingue? Ci andranno a nozze».

«Non mi importa più, davvero».

«Ma perché lasci il lavoro? Sei una cantante meravigliosa».

Belle incrociò lo sguardo dell’amica e fece una faccia abbattuta. «Mi spiace sul serio, ma adesso non posso dirtelo. Te ne parlerò quando sarà tutto finito, te lo prometto».

«Ha qualcosa a che vedere con le ricerche di tua sorella? Hai scoperto cos’è successo?», domandò Rebecca, perspicace come al solito.

«Non ancora».

Quando annuì, negli occhi di Rebecca c’era un velo di tristezza. «Mi mancherai».

Le due donne si abbracciarono, poi Belle raggiunse Oliver davanti all’albergo. Il portiere garantì che avrebbe fatto in modo che il suo baule venisse portato al deposito della stazione, quindi Oliver gli chiese di ripetere la storia che gli era stata raccontata da suo padre a proposito della bambina sentita urlare nel cuore della notte. Dopo aver chiesto loro di assicurargli che non avrebbero rivelato a nessuno da chi avevano appreso quelle informazioni, l’uomo scese un po’ più nel dettaglio rispetto alla volta precedente.

«La cosa che non avevo detto è questa… poco dopo l’incidente, mio padre fu licenziato con una falsa accusa».

«Venne messo a tacere», osservò Oliver.

«Perché non me l’avevi detto prima?», domandò Belle.

Il portiere alzò gli occhi al cielo, poi tornò a guardarla. «Si vergognava. Non mi sentivo in diritto di parlarne. Ed ero nervoso anche per il mio lavoro».

Belle annuì. «Mi dispiace tanto».

Il portiere si strinse nelle spalle. «È successo talmente tanto tempo fa, ma ha rovinato la vita di mio padre. Non gli vennero lasciate delle referenze ed ebbe difficoltà a ritrovare un lavoro».

Oliver gonfiò le guance e sbuffò. «Che gente!».

Ringraziarono il portiere e, dopo aver lasciato l’albergo, si fermarono a fare provviste in un negozio che era di strada. Quindi, assicurandosi di non essere stati seguiti, presero un risciò. Quando tornarono al suo appartamento, Oliver aprì la porta e le disse che aveva avuto un’intuizione e voleva passare al setaccio gli archivi di un altro giornale. Sarebbe dovuta restare da sola e non ci volle molto a convincerla a rimanere in casa con la porta chiusa a chiave.

«Almeno nessuno sa che sei qui», disse lui. «Così ti lasceranno in pace».

Belle fece una smorfia. «Rebecca lo sa».

«Terrà la bocca chiusa?»

«Non lo so. Forse non avrei dovuto dirglielo. O avrei almeno dovuto chiederle di non parlarne con nessuno».

«Ormai non possiamo farci nulla. Non avrai problemi se non lasci l’appartamento, ma, ti prego, non aprire la porta a nessuno. Non ci metterò molto». Poi, come se avesse avuto un ripensamento, aggiunse: «Meglio che tu stia alla larga dalla finestra, però».

Non appena se ne fu andato, Belle si preparò del pane tostato e un’altra tazza di caffè prima di provare a sedersi a leggere un giornale. Qualche minuto dopo, troppo nervosa per concentrarsi, era di nuovo in piedi a esaminare le costole dei libri di Oliver, e fu allora che si ricordò della lettera arrivata per posta aerea. Si lasciò cadere su una sedia, armeggiò con la fragile busta, l’aprì e la lesse.

 

Mia cara Annabelle,

spero che questa mia lettera ti trovi in buona salute. Volevo informarti che presto dovrei venire in visita in Birmania. Mi sono sempre ripromessa che un giorno o l’altro ci sarei tornata, e se non affronto subito questo viaggio, temo che non mi deciderò mai più. Spero davvero tanto che avremo modo di incontrarci. Certo, non so se vivi ancora a Rangoon, ma chiamerò lo Strand alla prima occasione utile.

Be’, mia cara ragazza, penso che per il momento sia tutto. Prenditi cura di te.

Con i più cordiali saluti,

Simone

 

Belle rilesse due volte la lettera, poi si appoggiò allo schienale e pensò a Simone. Era straordinario. Non avrebbe mai immaginato di avere la possibilità di incontrare la vecchia amica di Diana lì in Birmania, ma sarebbe stata una fantastica opportunità per saperne di più su sua madre. Aveva undici anni quando suo padre le aveva detto che non l’avrebbero più rivista, e Belle ricordava soltanto che pioveva e che aveva appena cominciato a frequentare il college femminile di Cheltenham. Anche se aveva pianto un po’ alla notizia della morte di sua madre, le lacrime le erano sembrate forzate, le emozioni confuse e difficili da decifrare. Di Diana non avevano più parlato. E adesso i sentimenti di Belle erano persino più incerti. Anche se adesso capiva quanto avesse contribuito la perdita di Elvira al malessere di sua madre e alla conseguente noncuranza, il dolore provato da piccola restava comunque. La bambina che era in lei non riusciva ancora a perdonarla e questo le lasciava un senso di tristezza. Non riusciva a fare a meno di pensare che sua madre avrebbe potuto trovare un altro modo per affrontare la tragedia. Avrebbe potuto sforzarsi di più. Per quanto riguardava Simone, invece, non sapeva se in futuro sarebbe ancora stata lì per accogliere l’arrivo della vecchia amica di sua madre.

Mentre stava riflettendo, qualcuno bussò molto delicatamente alla porta e, prima che le tornasse in mente l’avvertimento di Oliver, si era già diretta all’ingresso. Con una mano sulla chiave, esitò e si rimproverò. Era stata una mossa stupida. Ora chiunque fosse doveva aver sentito i suoi movimenti. Bussarono di nuovo, più forte. Belle continuò a restare immobile, pietrificata dalla paura. Aspettò e, dopo qualche istante, udì una voce di donna.

«Belle, lo so che sei lì».

Gloria. La sua era una voce che avrebbe riconosciuto tra mille. Doveva dire qualcosa? Permettere all’amica di entrare?

«Belle?»

«Sì?»

«Per l’amor del cielo, fammi entrare. Sono preoccupata per te».

Appoggiò un attimo la fronte al fresco pannello di tek, poi aprì la porta, non sapendo se stava facendo la cosa giusta. In fin dei conti, Gloria era la sorella di Edward, e lei si sentiva sempre più dubbiosa nei suoi confronti.

Gloria entrò a passo impettito e si mise a studiare il viso di Belle, come se fosse a caccia di indizi. «Che sta succedendo, Belle?».

Belle era diffidente e stava cominciando ad arrossire. «Non so di cosa stai parlando».

La donna, invece, sembrava sinceramente divertita. «Suvvia. Hai lasciato il lavoro, vivi nell’appartamento di un uomo poco raccomandabile dal quale ti ho già messa in guardia. Questa è una follia».

Si lasciò cadere sulla sedia su cui poc’anzi era seduta Belle. «Hai del caffè, cara? Sono trafelata».

Lei annuì, felice di avere la possibilità di nasconderle il viso in fiamme con la scusa di darle le spalle per preparare il caffè. Sapeva che la gente avrebbe iniziato a sparlare non appena avesse scoperto che si era trasferita lì, ma perché per Gloria se ne faceva un problema? In genere all’amica non importava un fico secco di ciò che pensava la gente e, anzi, si vantava dell’esatto contrario.

«Ecco il tuo caffè», disse, sforzandosi di sorridere.

Gloria prese la tazzina, poi tirò fuori un portasigarette d’argento e ne offrì una a Belle.

Quando declinò, Gloria inclinò la testa. «Oh, ma certo, la tua voce».

«Come facevi a sapere che mi trovavo qui?», domandò Belle.

«Oh, sai com’è, un uccellino. Doveva essere un segreto? Gliel’ho cavato fuori con la forza».

«Rebecca?».

Gloria socchiuse gli occhi e le rivolse un sorrisetto soddisfatto. Poi, quando assunse un’espressione più severa, Belle diventò subito apprensiva. Vero, a Gloria non piaceva Oliver, ma c’era qualcos’altro? Qualcosa che avrebbe dovuto sapere?

«Dimmi perché hai lasciato il lavoro», chiese la donna con uno sguardo critico che si trasformò subito in pura incredulità. «Buon Dio, non te l’avrà chiesto lui?»

«Oliver?»

«Mia cara, ti esprimi a monosillabi. Oliver, chi altri? Questa era casa sua l’ultima volta che ho controllato».

«Ho avuto un semplice ripensamento. Non è stato lui a chiedermi di lasciare lo Strand. Potrei tornare in Inghilterra».

A giudicare dalla faccia di Gloria, sembrava lieta della notizia. «Ma perché sei venuta a stare da Oliver? Sai che ha una brutta reputazione. Non voltare le spalle ai tuoi veri amici».

«Quale reputazione?»

«Donne, tesoro. Te l’ho già detto. E il fatto che stia dalla parte sbagliata della legge. Ne abbiamo già parlato, no?».

Belle annuì, ma era sempre più dubbiosa sul vero motivo della visita di Gloria.

«Non si può mai sapere con certezza per chi stia lavorando».

«Fa solo il giornalista».

«Così dice, ma non puoi fidarti di lui. E, naturalmente, è anche un americano».

Belle sospirò, frustrata. «E questo che c’entra?».

Negli occhi di Gloria guizzò un lampo e gli angoli della sua bocca si incurvarono verso il basso. Giusto un pochino. Quanto bastava per rivelare i suoi pregiudizi. Malgrado gli atteggiamenti ribelli, sotto sotto era una conformista.

«Pensa alle conseguenze di stare con un uomo come lui», disse Gloria.

«Quali conseguenze?»

«Ti deluderà, tanto per dirne una».

«E poi?».

Gloria gettò indietro la testa e si strinse nelle spalle, come se i difetti di Oliver fossero lampanti.

Belle sospirò. «Sto bene così, Gloria. E senti questa, ho appena scoperto che mia madre non ha avuto niente a che fare con la scomparsa di Elvira».

La donna fissò il fondo della sua tazza di caffè, un tantino inquieta. «Come l’hai saputo?».

Belle esitò, quindi decise di non dirle niente a proposito della bomba. «È una lunga storia».

Gloria non sembrava affatto rabbonita e continuò a insistere con caparbia determinazione. «Cara, non restare qui. Sai bene quanto parleranno a vanvera non appena trapelerà la notizia. Vieni a stare da me, piuttosto, almeno finché non tornerai in Inghilterra. Starai molto più tranquilla».

«Fammici pensare».

«Preferirei che venissi adesso».

«Come ti ho appena detto, fammici pensare».

«Allora tornerò a prenderti più tardi, nel pomeriggio. E adesso», si guardò attorno, «raccontami delle tue avventure a Mandalay».

Belle le descrisse con entusiasmo il viaggio sul fiume e il giro in mongolfiera, ma non le parlò di Mandalay. Le spiegò che la ricerca della bambina bianca non l’aveva portata a niente e che quello, unito a tutti i disordini scoppiati a Rangoon, era il motivo per cui stava considerando l’idea di tornare in Inghilterra. Gloria annuì e propose di avvalersi dell’aiuto di Edward per prenotare quanto prima un posto in nave se era davvero decisa di andarsene.

«Qualunque sia la tua decisione», aggiunse, «ti assicuro che io ed Edward faremo del nostro meglio per darti una mano. Ma, Belle, non potrò mai sottolinearlo abbastanza. Devi prendere le distanze da Oliver. È pericoloso».

«C’è qualcosa che lo riguarda di cui non mi hai parlato?»

«Cos’altro ti serve sapere?».

Fremette di fronte al compiacimento con cui Gloria dava per scontato di essere nel giusto, poi si sentì avvampare di nuovo le guance, stavolta per l’irritazione. Ne aveva abbastanza.

L’altra, notando la faccia che faceva, scosse la testa e alzò le mani, in un gesto che avrebbe dovuto essere conciliante. «Voglio solo saperti al sicuro».

Gloria non era una donna abituata a essere contraddetta, ma Belle prese le difese di Oliver. Il legame che li univa era l’unico sprone di cui aveva bisogno per schierarsi dalla parte dell’uomo che amava. «Ti sbagli su Oliver. È un brav’uomo. E io mi fido di lui».

Le due donne si fissarono per un istante, poi Gloria inarcò un sopracciglio e fece un sospiro profondo, come se fosse alle prese con una bambina recalcitrante. «Be’, non ha importanza. Non litighiamo, e la mia offerta è ancora valida. Come ti ho già detto, non voltare le spalle ai veri amici».

Belle distolse lo sguardo. Gloria le era sempre piaciuta, l’aveva persino ammirata. Era sempre stata una donna divertente e pronta a darle una mano, ma adesso si stava irrigidendo sempre di più a causa della rabbia repressa.

Mentre la donna tirava fuori un’altra sigaretta, Belle ripercorse le tappe della loro amicizia, setacciando i ricordi e tornando indietro nel tempo fino al loro primo incontro a bordo della nave. All’epoca, l’interesse di Gloria l’aveva lusingata, ma adesso si sentiva pervadere dalla diffidenza. La loro era davvero stata un’amicizia così spontanea? O Gloria aveva appositamente coltivato la conoscenza dopo aver scoperto il cognome di Belle?

Furibonda per la sua costante insistenza nel dirle che non c’era da fidarsi di Oliver, scrollò il capo. Sapeva che la fiducia che ora riponeva in lui non era il risultato di chissà quale enorme errore di valutazione, come insinuato da Gloria, e non le avrebbe mai permesso di farle cambiare idea. Quella donna non aveva alcun diritto di piombare così in casa sua e ordinarle, in pratica, di fare le valigie.

«Penso che faresti meglio ad andare», disse alla fine, riuscendo a nascondere il fatto che le si stava spezzando la voce e conscia che tra loro si era appena incrinato qualcosa. La verità era che non sapeva più chi fosse Edward, né cosa stesse combinando, e lo stesso valeva per Gloria.