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Diana, Minster Lovell, 1925
Ho vissuto come se tutta la mia esistenza fosse stata determinata da un singolo momento in quel giardino in Birmania. Vorrei urlare al mondo che quella non sono io, ma poi mi chiedo quanto sia vero. Forse ciascuno di noi ha un solo momento determinante al quale non potrà mai sfuggire.
Quello in cui me ne sbarazzo davvero è un giorno come tanti altri. Il sole sta cercando di brillare oltre una cortina di nubi e io sono seduta sulla solita sedia.
Mi sembra di annegare quando mi chiede di descrivere il giorno in cui ho perso Elvira. Mi dice che non devo farlo per forza, ma io so di averne il dovere. Chiudo gli occhi. Ci provo e ci riprovo, ma c’è qualcosa che continua a fermarmi, come se un muro di mattoni mi stesse impedendo di andare oltre. Spingo per abbatterlo, eppure non cede. Dice che mi sto sforzando troppo e mi incoraggia a non concentrarmi affatto sulla carrozzina, ma a richiamare alla mente tutti gli altri bei dettagli del giardino. Man mano che mi rilasso e comincio a smarrirmi nei ricordi, la deliziosa dépendance inizia a prendere forma, anche se non mi ci immagino dentro. Gli altri spezzoni cominciano a tornare a galla. E quando metto a fuoco l’albero di bahuinia, con le sue foglie a forma di cuore e i fiori bianchi e rosa, e le fronde enormi con i rami da cui si dondolano le scimmie, sorrido. Riesco a vedere gli uccelli verde brillante, a sentire il magnifico profumo dei fiori: le rose nei mesi di giugno e luglio, gli enormi cespugli di poinsezia con i loro fiori rosso acceso a dicembre, gli aster viola circondati da delicate farfalle bianche in primavera. Poco a poco, torno indietro nel tempo ed è come se fossi davvero di nuovo lì in Birmania, oppressa dal caldo umido.
Sento che mi chiede cos’altro riesco a vedere, ma è come se la sua voce giungesse da molto lontano. Scuoto la testa e comincio a respirare più in fretta. «Solo la carrozzina sotto il tamarindo», dico.
Il dottor Gilbert non parla più.
Poi, quando sento di non poterlo sopportare ulteriormente, vengo investita da un’immagine sfocata. Strizzo gli occhi, chiudendoli ancora di più, e provo a metterla a fuoco. Oppure no. Non saprei dire quale delle due. La scena acquista nitidezza e riesco a distinguere una donna vestita di nero che si allontana di corsa dalla carrozzina con un fagotto tra le braccia. È tutto finito in un battibaleno, e mi chiedo se non me lo sia immaginato, ma poi la scorgo di nuovo quando si volta a controllare che nessuno l’abbia vista e, per un brevissimo istante, ho la sensazione di conoscerla.
«Non sono stata io a fare del male alla mia piccina. Non sono stata io».
Riapro gli occhi e vedo che il dottor Gilbert mi sta sorridendo. «Ben fatto, mia cara», dice. «Ben fatto».