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Per la visita al club Pegu di quella domenica, Edward aveva indossato un completo di lino chiaro dal taglio elegante e Belle un abito da giorno a pois bianchi e blu, stretto in vita da una cintura di pelle rossa. Aveva legato i capelli e completato il tutto con un cappello bianco a tesa larga ornato da un fiocco rosso che si abbinava alla cintura. Anche se non aveva ancora ben capito cosa pensare di Edward, voleva apparire al meglio e fare una buona impressione.

Strada facendo, superarono i soliti edifici in stile coloniale, con le facciate decorate da arcate, modiglioni e pilastri elaborati: edifici che rafforzavano l’idea di potere e invincibilità dell’Impero. Poi fu la volta delle case private, con i cornicioni sporgenti che fornivano un riparo dall’ardente sole birmano per la pelle delicata degli inglesi.

«Niente male, vero?», esordì Edward e, ancor prima che lei potesse riordinare le idee, proseguì chiedendole come stava andando, così Belle gli raccontò della chiacchierata con l’ispettore Johnson.

Edward socchiuse gli occhi scuri, corrucciò la fronte e si fermò a pensare per un momento. «È un uomo fidato, ma prima ti saresti dovuta consultare con me. Avrei fatto le presentazioni ufficiali. Ho contatti di tutto rispetto, come potrai immaginare».

«Tu lavori per la polizia?»

«Non esattamente. Sono un consigliere dell’Alto Commissario, tra le altre cose. Comunque, ti farà piacere sapere che ho fatto qualche ricerca».

«E quindi?», chiese lei, pensando che aveva proprio un’aria compiaciuta.

«Pare che tua madre si stesse comportando in modo strano all’epoca della scomparsa della bambina, e questo alimentò le accuse che condussero agli arresti domiciliari».

«Strano in che senso?».

L’uomo sollevò il mento, poi se lo massaggiò come se fosse restio a parlare.

«Per favore?»

«Credo che l’abbiano sorpresa a raspare nel terreno in camicia da notte».

Andò avanti spiegandole che l’avevano trovata con le mani e le unghie nere di terra, cosa che aveva portato a sospettare che stesse cercando il punto dove aveva sepolto la bambina. Belle si immaginò la terribile scena, sua madre in ginocchio e in lacrime.

«L’ayah dichiarò che la bambina piangeva incessantemente e che le sofferenze della piccola disturbavano moltissimo tua madre, al punto che più di una volta diede in escandescenze. Ne dedussero che avesse cercato di acquietare la neonata, spingendosi oltre».

Belle scosse la testa in preda allo sgomento.

«La polizia scavò in tutto il giardino senza trovare niente, salvo un singolo scarpino di lana rosa da bambina».

«Di Elvira?»

«Penso di sì. Non sono riuscito a scoprire cos’è accaduto in seguito, se non che i tuoi genitori sono tornati in Inghilterra. Non hanno nemmeno venduto la casa prima di partire».

«Quindi mia madre è stata dichiarata innocente?».

Edward scrollò il capo e fece una smorfia. «Non proprio. Il caso è rimasto aperto per un po’. Pare che non abbiano concluso nulla, né in un senso né nell’altro».

«Perché l’hanno lasciata andare?»

«A mio avviso, tutta quella faccenda doveva aver sollevato un tale polverone che i piani alti giunsero alla conclusione che non c’era altro da fare. Non avevano prove concrete, o almeno, non che io sappia. Penso che qualunque cosa avessero scoperto all’epoca sia stata nascosta sotto il tappeto tanto tempo fa».

Belle sospirò.

«L’ispettore Johnson mi ha detto che gli archivi del commissariato sono andati distrutti in un incendio».

«Esatto».

«Allora come fai a sapere tutte queste cose?».

Edward si accigliò. «Come ti ho appena detto, ho contatti di tutto rispetto».

Lei annuì. «Sai, sono andata a vedere la casa».

Parve sorpreso. «Da sola?».

Belle scosse la testa, ma, per motivi che non riusciva a spiegare, non le andava di confessargli di esserci andata con Oliver. Né di rivelargli che avevano in programma di rivedersi il suo prossimo giorno di riposo. «È in condizioni pietose», disse piuttosto.

«Sì, ci credo. Sai che adesso potrebbe tranquillamente essere tua, no?»

«Sul serio?»

«Te l’ho detto, non l’hanno venduta».

«Come fai a saperlo?».

Lui esitò per un secondo. «È abbastanza risaputo. Ovviamente dovrai seguire tutte le procedure legali all’ufficio del catasto, dimostrare che sei chi dici di essere e presentare il certificato di morte di tuo padre, cose di questo genere».

Belle faticò a metabolizzare la notizia. Solo un attimo prima era una forestiera, e adesso c’era la possibilità di diventare la proprietaria di quella villa enorme.

«Probabilmente vorrai venderla. Basta che mi avvisi se vorrai disfartene. Non mi dispiacerebbe comprarla. Certo è che saranno necessari dei lavori. Un sacco di lavori».

Lei annuì e, volendo cambiare discorso, gli chiese chi avrebbero potuto incontrare al club Pegu.

Giunti alla periferia della città, si avvicinarono al club. Belle vide un grande edificio vittoriano interamente circondato da alberi e abbracciato da una veranda ombreggiata; l’aria era carica del profumo dei fiori di gelsomino e frangipani. Edward le spiegò che era stato costruito prevalentemente in tek negli anni Ottanta del 1800 per gli ufficiali dell’esercito britannico e i civili che lavoravano nell’amministrazione. E aveva fama di essere uno dei circoli signorili più rinomati del sud-est asiatico, un po’ come il club Tanglin a Singapore.

«L’ingresso è consentito ai soli soci», aggiunse, «perlopiù membri del governo, ufficiali dell’esercito e imprenditori di spicco. Purtroppo ora come ora è più che altro una reliquia. I tempi cambiano, dico bene? E a volte in peggio».

«Ed entrano soltanto gli uomini?»

«Non più, o almeno, non nei fine settimana. Nell’immaginario collettivo, questo posto era la vera sede del potere della Birmania».

Entrarono nella sede principale del circolo, con i pavimenti di parquet lucido che brillavano e i grandi ventilatori a soffitto che spostavano l’aria calda.

Tenendole una mano poggiata poco sopra il fondoschiena, Edward la guidò oltre la sala da biliardo e un’ampia sala da pranzo, fino a un salottino buio ma accogliente sul retro dell’edificio. Belle passò in rassegna i volti annoiati di uomini di mezz’età intenti a fumare il sigaro o nascosti dietro i giornali, mentre le loro mogli dedicavano scialbi sorrisi al niente e sorseggiavano gin con ghiaccio.

Quando si furono accomodati entrambi su poltrone consunte di pelle marrone, Edward le suggerì di provare il Pegu Cocktail prima di pranzo.

«È il nostro cocktail distintivo. Gin e succo di lime. Succo Rose’s, ovviamente».

Belle annuì, avendo già capito che in quel Paese essere astemi era proprio impossibile, ma si ripromise di limitarsi a una sola bevuta. Non si era ubriacata quando lei e Rebecca erano andate a Chinatown, non aveva osato spingersi a tanto, ma si era scolata due bottiglie di birra e le erano bastate.

Arrivarono le bevande, servite in bicchieri ghiacciati con una fettina di lime, e quando Belle ne bevve un sorso, pensò che avesse lo stesso sapore dell’uva. «Davvero rinfrescante», commentò mentre il gin le spumeggiava nel sangue e le dava subito alla testa.

Rimasero seduti in silenzio per qualche minuto, e lei si guardò attorno, esaminando la clientela. I presenti erano proprio come li aveva descritti Edward e vestivano in modo formale persino di domenica. Le poche donne, che in prevalenza indossavano abiti a fiori accollati e tendenzialmente scialbi, parlavano a bassa voce, mentre il brusio più alto era composto da voci nettamente maschili.

«Il circolo prende il nome dal Pegu, un fiume birmano», disse Edward.

«È solo per i britannici?».

Lui si accigliò. «Ho paura che siamo piuttosto all’antica. Niente asiatici. So che le cose stanno cambiando e c’è chi pensa che dovremmo cambiare anche noi, ma…». Allargò le braccia, mani rivolte verso l’alto, minimizzando.

Belle si chiese cosa avrebbe detto Oliver. Doveva essere proprio ciò che detestava dei colonialisti britannici, e forse aveva ragione. Nemmeno lei giustificava il plateale atteggiamento anti-birmano e vedeva il modo in cui quegli uomini dalla mentalità ristretta si sentivano obbligati a difendere a ogni costo il potere e la supremazia britannici.

Edward si schiarì la voce e passò un dito all’interno del colletto della camicia. Se Belle non avesse saputo come stavano realmente le cose, avrebbe detto che sembrava un po’ nervoso.

«Senti un po’, Belle», disse, «in realtà speravo che mi permettessi di portarti a cena fuori una di queste sere. Una cosa tranquilla. Soltanto noi due».

Sorpresa, lo fissò a bocca aperta.

«Per conoscerci meglio», aggiunse, stampandosi un gran sorriso in faccia. «Sarebbe così sconveniente? La prossima sera che non lavori?»

«No… voglio dire, certo che non sarebbe sconveniente… è solo che…». Non finì la frase.

«O magari preferisci accompagnarmi alla prossima cena a casa del governatore?».

Lei fece per replicare, ma Edward le rivolse un cenno di scuse e si alzò in piedi. «Ah, ecco il vecchio Ronnie Outlaw. Potrebbe esserti d’aiuto».

Anche Belle si alzò.

L’uomo che si avvicinò al tavolo era chiaramente in pensione. Aveva un’andatura appena zoppicante e si sorreggeva a un bastone con il puntale d’argento. Gli enormi baffi bianchi compensavano l’assenza di capelli in testa, e quando Edward gli diede una pacca sulla schiena e gli spiegò che Belle sperava di incontrare chi all’epoca potesse aver conosciuto i suoi genitori, gli Hatton, l’anziano si mise sull’attenti.

Poi socchiuse gli occhi di un azzurro slavato e si accomodò su una poltrona. «Li conoscevo poco, e all’epoca ero assegnato a Mandalay, quindi le nostre strade non si sono incrociate più di tanto. Hanno fatto una brutta fine?». Inarcò le sopracciglia e scoccò un’occhiata a Edward, che annuì. «Le sue decisioni hanno dato fastidio a qualche personalità influente, quando presiedeva l’Alta Corte?».

Edward fece ancora cenno di sì.

«Allora, giovane fanciulla, da dove viene?», continuò Ronnie.

«Da Cheltenham», rispose lei con tutta la grazia che riuscì a chiamare a raccolta.

«College femminile?».

Belle annuì, ma continuava a domandarsi a chi avesse dato fastidio suo padre.

Ronnie rimase in silenzio per qualche secondo e Belle si chiese se le rivelazioni fossero finite lì, ma poi, all’improvviso, gli brillarono gli occhi. «Stia a sentire. Alla fine, quando ci trasferimmo a Rangoon, mia moglie, Florence, fece amicizia con una donna, Simone qualcosa… Simone… Oh, accidenti, come si chiamava? La moglie del dottore. Comunque, sono quasi sicuro che Simone fosse molto legata a sua madre».

«Sa mica dove abita?»

«Non ne ho la più pallida idea, ma penso che lei e Florence si scrivano ancora delle lettere. Sa che le dico? Perché non chiede alla sorella di Edward di portarla su a Gossip Point? Tutte le signore si incontrano lì. Può farsi una bella chiacchierata con Florence. Le dica che è andata a scuola a Cheltenham e se la farà amica a vita».

«Davvero?».

L’uomo fece una piccolissima pausa prima di rispondere. «Nostra figlia, Gracie, è stata là in convitto per quattro anni».

«E adesso vive a Cheltenham?».

Ronnie abbassò gli occhi, poi risollevò lo sguardo. «Purtroppo, no. Si è presa la malaria. Non è mai arrivata al suo sedicesimo compleanno».

«Mi dispiace tantissimo».

«La ringrazio».

Calò un attimo di silenzio durante il quale Belle non seppe cosa dire. Per fortuna, però, intervenne Edward, che ringraziò Ronnie per il suo aiuto e gli offrì uno stengah, un drink composto da whisky e soda in parti uguali, servito con ghiaccio.

«Gloria dice che hai dei contatti nel mondo dello spettacolo», disse Belle quando Ronnie, una volta finito il suo drink, li lasciò da soli.

«Sì, è vero. Potrei mettere una buona parola per te, se lo desideri».

Gli sorrise, felice. «Mi faresti una grande cortesia. Sai, per il futuro, dopo la Birmania».

«Forza, parlami dei tuoi sogni».

«Viaggiare e continuare a cantare per guadagnarmi da vivere, ovviamente».

«Mi piacciono le ragazze indipendenti», disse lui con una risata, e si sporse per stringerle la spalla.

Quando svoltò nel corridoio che portava alla sua stanza, Belle si fermò. Aveva chiesto a Edward di lasciarla poco lontana dall’albergo per potersi ritagliare un po’ di tempo per riflettere. Troppo caldo, era stato un errore. Per il momento, a parte Rebecca, nessuno sapeva del biglietto anonimo, ma per lei era un chiodo fisso. Quando aveva chiesto all’indovino di chi si sarebbe dovuta fidare, l’uomo le aveva detto che era la domanda sbagliata e che presto avrebbe affrontato un viaggio. Di quello, per ora, neanche l’ombra. Tanto erano solo un mucchio di sciocchezze, probabilmente.

Aveva sperato di prendere una boccata d’aria fresca, ma con quel caldo tropicale finì col barcollare in camera con il vestito madido di sudore. I pomeriggi erano davvero inaffrontabili. Non c’era da stupirsi se la maggior parte dei britannici scappava a casa per fare un riposino, malgrado il caldo riuscisse comunque a penetrare anche le pareti più spesse. Prima di andarsene, Edward le aveva ricordato l’invito ad accompagnarlo a cena a casa del governatore. Quando l’aveva ringraziato e aveva accettato, le era parso sinceramente felice e le aveva detto che a tempo debito le avrebbe comunicato la data precisa. Belle decise che avrebbe potuto parlargli del biglietto in quell’occasione.