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Diana, Cheltenham, 1921

 

Mentre l’uomo con l’impermeabile blu sale le scale, mi trovo disperatamente a desiderare che Simone sia qui. Quando mi sono sentita scoraggiata, mi ha portato un regalo per Elvira – un bellissimo sonaglio d’argento – ed era così carino che le ho creduto quando mi ha detto che i tempi bui sarebbero passati. È stata un’infermiera e cerca sempre un modo per vedere il lato positivo. Lei saprebbe cosa dire a quest’uomo con l’impermeabile – mentre a me l’unica cosa che viene in mente è scappare a nascondermi in bagno. Persino io so che non sarebbe la cosa giusta da fare, eppure non riesco a fare a meno di credere che più mi dimostro pazza, meglio sarà per tutti gli altri.

L’uomo arriva in cima alle scale e allunga una mano. «Signora Hatton, sono il dottor Williams».

«Lo so chi è lei», dico, riconoscendo il medico con la faccia da faina, i capelli bianchi e gli occhi di un azzurro slavato. «Ci siamo già incontrati. Lei è l’uomo che cura i matti».

«Sono proprio io, anche se in genere preferiamo il termine “psichiatra”. Vogliamo entrare?». E indica la porta della mia stanza, poi, con le braccia incrociate, sorride mentre mi scruta.

Entriamo, e lui si accomoda su una delle due sedie accanto al tavolino da caffè.

La stanza mi appare improvvisamente soffocante e mi viene voglia di guardare fuori dalla finestra, così mi incammino e gli volto le spalle, la schiena rigida.

«Volevo sapere come sta andando con la nuova terapia. Anche se è un po’ amaro, in genere il Veronal si tollera meglio del bromuro e ha un sapore meno forte e sgradevole. Lo sta assumendo quotidianamente?».

Mi volto e annuisco. Be’, tutti mentono, no?

«Mi causa sonnolenza», dico allora, ricordando quale effetto mi ha fatto le poche volte che l’ho preso davvero.

«Nient’altro?».

Scuoto la testa. Mi guarda e io penso: “Non mi fido di te”.

«È stata sfortunata», dice.

Faccio un passo verso di lui, furibonda. «Sfortunata?! Ora si dice così quando qualcuno perde una figlia? “Oh, che sfortuna. Be’, non importa, puoi sempre averne un’altra, no?”»

«Lei ha già un’altra bambina».

«Non è questo il punto».

«Perché non viene a sedersi qua con me? Mi dica qual è il punto».

Ci rifletto. Strano, vero, come di solito si riesca subito a capire di chi ci si può fidare? Questa conversazione non mi farà cambiare idea.

«Signora Hatton?». Mi rivolge un sorriso imbarazzato, impacciato, come se sorridere non fosse una cosa che gli viene naturale.

«Molto bene». E vado a sedermi di fronte a lui, di spalle alla finestra, e nel frattempo gli esamino attentamente il viso. Abbastanza gradevole, direi, ma noioso e ordinario. Solleva gli occhiali e se li rimette sul naso con un gesto studiato, delicato. “Quanto desidero un po’ di bellezza”, penso, eppure riesco comunque a sorridergli.

«Suo marito mi ha detto che non è ancora uscita di casa».

Cerco di contenere la mia reazione, ma, alla fine, perdo la battaglia e mi alzo stizzita. «Si è rimesso a favoleggiare? Be’, si sbaglia. Sono stata al parco. Spesso, si dà il caso. Mi piace guardare le tate che spingono le carrozzine».

«Davvero?».

Percepisco la sua irritazione anche se non la mostra apertamente.

«Pensa che stia mentendo?», sbotto, perché come potrei mai dirgli la verità? Come posso dirgli che non ho il coraggio di uscire, che il solo pensiero mi fa tremare talmente tanto che devo sedermi sul pavimento e aggrapparmi alle gambe della sedia per sentire che sono ancora ancorata a terra?

Scrolla il capo. «No, certo che no. Non vuole tornare a sedersi?».

È troppo cauto con me, guardingo persino, e non mi piace la sua… la sua condiscendenza, ecco.

«Sto bene così», replico andando verso la porta, ma giro un pochino la testa per osservare la sua reazione.

Lui si schiarisce la voce e mi rivolge di nuovo quel suo sorriso raccapricciante.

«Le spiacerebbe rispondere alla mia domanda, per cortesia? Quando è uscita?».

Mi fisso i piedi, inebetita, e poi mormoro: «Sono stata al parco. Non mi hanno vista, ecco perché non lo sanno». Mi rendo conto che sembro una bambina petulante e cerco di moderare il tono. «Mi scusi, non volevo arrabbiarmi».

Osserva il pavimento prima di risollevare lo sguardo su di me. «Quelle voci, cosa le dicono?».

Esito, sorpresa. Nessuno prima d’ora mi aveva mai interpellata in merito, così mi siedo. In genere vogliono che io finga che non siano reali. «Oh, sa com’è…».

«Invece non lo so, ecco perché glielo domando».

«Dicono tante cose».

Non voglio rivelargli che a volte mi spaventano, o ridono di me, o mi accusano di aver fatto cose atroci. A volte sussurrano, e io resto perfettamente immobile perché devo sentirle. Devo assolutamente. La cosa peggiore è sapere che ci sono ma non essere in grado di comprendere tutto il veleno che mi sputano addosso.

Storce la bocca e tace piuttosto a lungo prima di parlare di nuovo.

«Vorrei scambiare due parole con lei a proposito del Grange. Come forse già saprà, è un istituto privato a Dowdeswell. Io…».

Ecco, ci siamo. Ecco il vero motivo per il quale è venuto. Quanto ho bisogno di Simone in questo momento. Quando, oh, quando arriverà?

«No», lo interrompo. «Non ci andrò».

«Nessuno la sta costringendo a farlo. È solo che io e suo marito pensiamo che stia troppo da sola quassù».

«E se mi rifiutassi?».