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Diana, Cotswolds, 1922
Douglas è davanti al cancello e vedo che se ne sta a capo chino, intento a fissare il terreno ai suoi piedi come se fosse in raccoglimento. Lo raggiungo e lui raddrizza la schiena, ma continua a evitare il mio sguardo.
«Be’», dico. «Ci siamo».
«Già», replica, e adesso mi guarda.
Do uno sguardo ai suoi bellissimi occhi. Sono due pozze piene di confusione, scure e profonde. Non duri o severi, solo piuttosto smarriti. Vedo che si sta tenendo dentro le emozioni, e non ci sarà alcun romantico addio. Vorrei tanto abbracciarlo, vorrei che mi stringesse tra le braccia e ritrovassimo ciò che eravamo una volta. Ma non può essere. Quei tempi sono passati. È diventato bravo a nascondersi, e adesso mio marito si è talmente chiuso in se stesso che non osa concedersi di provare alcunché.
Mi afferra una mano e la stringe, poi la lascia andare e indietreggia. Faccio quello che si aspetta da me ed esco dal cancello senza dire una parola, senza guardarmi indietro, senza fare scenate.
È una splendida giornata di giugno, con un cielo straordinariamente azzurro, e il sole tinge d’oro e d’argento la sommità delle nuvole. Quando cominciamo a muoverci, dapprima resto in silenzio, incapace di parlare con Simone, poi pian piano mi rilasso. Superiamo un tripudio di verdi diversi ancora orlati di nuova vita, muretti a secco che fiancheggiano la strada e vasti scorci delle Cotswolds, dove i campi punteggiati di pecore confinano con i prati dove i cavalli strofinano il muso contro le staccionate. Facciamo due soste a bordo strada per far raffreddare la macchina e rifornirla d’acqua e benzina. Durante una delle soste, Simone mi incoraggia a scendere dall’auto e prendere una boccata d’aria, ma rimango dove sono, così mi porta una limonata ghiacciata e un panino con cui pranzare.
Alla fine, quando svoltiamo a sinistra, superiamo un bosco fittissimo che ci circonda su entrambi i lati e cominciamo a discendere la collina verso la vallata in cui sorge il paesino di Minster Lovell, sento che mi si stringe lo stomaco. Ma poi, quando attraversiamo il ponte medievale sul fiume, resto sorpresa: non mi ero aspettata che fosse tanto incantevole. Per quanto sia stretto, e costeggiato da enormi salici piangenti, il fiume scorre senza impedimenti e, dopo una svolta a destra e sorpassato il mulino, incrociamo il pub sulla sinistra. Simone mi indica il suo cottage. Come tanti altri, anche il suo ha il tetto di paglia, ed è una casa lunga e stretta con i muri color burro di pietra delle Cotswolds che brillano alla luce del sole, coperti di glicine e con un fosso sul davanti. Noto che il fosso corre parallelo alla strada e serve a far defluire l’acqua piovana, e che alcune case sono molto vicine le une alle altre, anzi, praticamente addossate. Simone si accorge dell’espressione del mio viso.
«Non ti preoccupare. Il tuo è un cottage indipendente e si trova proprio al limitare del centro abitato, in cima alla collina».
Non avevo notato la lieve pendenza, ma adesso capisco che stiamo salendo e mi rincuora sapere che non mi troverò al centro della vita locale.
«Ci sono solo altre due case dopo la tua, entrambe dietro la curva della strada, e c’è un sacco di terra in mezzo».
Sono impaziente di vedere la mia nuova casa. Quando ci fermiamo, Simone mi indica un bellissimo cottage dietro a un muretto a secco e, da quel che riesco a vedere, è circondato da deliziosi giardini.
Scende dall’auto e fa il giro per venire a darmi una mano. Sento il cuore battere più forte, ma l’ansia di vedere l’interno della casa prevale sul nervosismo iniziale e, nel giro di pochi minuti, Simone sta aprendo la porta d’ingresso e mi spinge a varcarla.
«Ho scelto una disposizione dei mobili che pensavo potesse piacerti e ho messo le tende, ma ovviamente devi cambiare qualsiasi cosa non sia di tuo gusto. Non mi sentirò offesa».
Le sorrido, riconoscente per tutto quello che ha fatto.
Mi conduce a fare un giro della casa e devo sforzarmi di ricordare che è mia, non sua. In cima a una scaletta, su un minuscolo ballatoio, ci sono tre camere da letto e un bagno. Due stanze affacciano sulla strada, ma con un giardino tanto ampio ha davvero poca importanza. La mia camera, dice, è sul retro, e quando entro mi dirigo subito verso una delle due finestre. Dall’alto riesco a vedere un giardino allestito e ben curato che si perde nel fitto del bosco limitrofo.
Faccio una giravolta, traboccando di gratitudine. «Grazie».
«Sapevo che ti sarebbe piaciuta. Quando sono tornata dalla Birmania, dopo la morte di Roger, avevo bisogno di trovare un po’ di pace e ho cercato ovunque».
«L’hai trovata».
«Solo quando sono arrivata a Minster Lovell».
«Mi piace tantissimo. Davvero».
«È un posto speciale. Come dico sempre, la tranquillità del luogo ha ricucito le ferite del mio cuore spezzato».
Allungo una mano verso di lei e Simone me la stringe.
«Ho fatto portare quassù il tuo baule. E poi, quando mi fermerò qui da te, dormirò in una delle due stanze sul davanti».
Torniamo da basso ed esploriamo un grazioso salotto con un grande camino, uno studiolo accogliente con un caminetto più piccolo, una sala da pranzo e una piccola cucina con la dispensa annessa.
«Quando sarai pronta», dice Simone, «ti porterò a casa del dottore. Da qui basta andare a destra e poi scendere verso la chiesa. Devi superare un’unica casa che sorge abbastanza lontana dalla strada, e la sua è quella proprio in fondo».
«Pensavo che sarebbe stato lui a venire da me».
«Se preferisci, lo farà senz’altro».
Annuisco, mi sento sollevata.
«La signora Jones, che abita in paese, verrà a cucinare e a fare le pulizie ogni mattina. Le ho spiegato che sei stata male e che hai bisogno di pace e tranquillità, e dato che è una donna assennata, non penso che sarà invadente. Andrà anche a fare la spesa, mentre i ragazzi di Norridge&Son si occupano delle consegne a domicilio con il loro furgoncino, un macinino della Ford appositamente riallestito. È davvero comico, a dire il vero. Sembra una scatoletta su ruote».
Rabbrividisco, sentendo improvvisamente freddo. Anche se siamo a giugno, nel tardo pomeriggio e di sera l’aria è ancora abbastanza pungente.
«L’unica cosa che dobbiamo fare è accendere il fuoco», dice Simone per rassicurarmi. «La signora Jones l’ha già preparato qui nello studio, ma i camini sono anche in salotto e in camera tua. E ci ha preparato una zuppa di piselli e prosciutto per cena. Per il momento, perché non vai a prendere quel tuo scialle di cachemire per stare un po’ più calda? Non l’hai portato?»
«L’ho lasciato a casa. Un domani ad Annabelle potrebbe piacere, e vorrei che avesse qualcosa di mio».
È dura non piangere al pensiero di Annabelle.
«Devo fare un salto a casa mia a prendere il cambio per la notte», dice Simone mentre mi sfiora la mano. «Pensi di potercela fare? Posso andarci dopo, se preferisci».
Le dico che può andare tranquillamente e, mentre è via, ripenso a casa. Ieri sera, dopo aver dato la buonanotte ad Annabelle, ho visto Douglas. È stato più tenero rispetto a stamattina, quando me ne sono andata. È venuto in camera mia e ci siamo abbracciati per quello che mi è sembrato essere un lunghissimo istante. Non volevo che mi vedesse in lacrime, così mi sono ritratta e mi sono asciugata gli occhi mentre gli davo le spalle. Non si è lasciato ingannare dalla mia piccola farsa, ovviamente, e ha capito che stavo piangendo. Quando l’ho guardato, ho notato che anche i suoi occhi erano velati di tristezza e gli tremavano le mani.
Inspiro lentamente. Dentro e fuori.
Ora sono qui e sono sicura che arriverò a conoscere ogni singolo anfratto della mia nuova casa, come ogni singolo filo d’erba in giardino. Il pensiero è stranamente confortante. Forse un giorno imparerò a conoscere anche il paesino. All’improvviso, il mondo fuori dalla mia finestra sembra meno inconsistente, e la mia connessione con la realtà meno fragile. Simone aveva ragione: c’è qualcosa di speciale in questo posto, ma il prezzo da pagare è stato così alto e, soprattutto, avrei tanto voluto che anche Annabelle fosse potuta venire.