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Diana, Cheltenham, 1921
Quando mi accusarono, il mio mondo si spaccò in due, come se fosse stato diviso perfettamente a metà da un colpo d’ascia. Il giorno dell’incendio stava arrivando un temporale. Mi ero addormentata nella dépendance in fondo al giardino. Qualunque cosa mi avesse dato Roger, marito di Simone e nostro medico di famiglia, era stato abbastanza forte da sedarmi. Comunque, devo avere accidentalmente urtato la lampada a olio. Non so come. Ma ricordo di essermi svegliata intontita prima di riaddormentarmi di nuovo. Forse mi sono alzata un secondo? Forse è stato allora che ho fatto cadere la lampada? Non me lo ricordo. Ricordo invece il fumo e Douglas che mi trascinava fuori da lì. Appena in tempo, dissero.
Da allora, Simone mi è stata accanto.
L’incendio è stato la mia rovina. La polizia credeva che l’avessi appiccato di proposito per bruciare il corpicino senza vita della mia povera bambina. Avevano già perquisito la dépendance, ma non avevano tirato su le assi del pavimento. Ora che l’incendio aveva distrutto tutto, non c’era più nulla da trovare.
Mi interrogarono un’altra volta, da capo.
«Non ha visto niente di insolito il giorno in cui sostiene di aver trovato la carrozzina vuota?», mi chiese il poliziotto calvo con lo sguardo penetrante.
Io scossi la testa. «Le ho già detto di no». Lo guardai negli occhi nella speranza di trovarci un po’ di compassione, ma non c’era, c’era soltanto l’espressione vacua dietro cui celava ciò che pensava realmente.
Mi formicolava la pelle, e non era soltanto per il caldo. Provai a trattenermi, ma saltai in piedi e sentii esplodere la rabbia. «Perché non state cercando chi ha rapito la mia bambina? Perché non mi lasciate in pace?».
Il poliziotto aveva allungato una mano, come se volesse spingermi di nuovo a sedere, ma io sussultai e lui si fermò di colpo prima di toccarmi.
«Su, su, signora Hatton… Diana, gliel’abbiamo già detto, nel suo caso un atteggiamento così belligerante non è di alcun aiuto. La prego, si sieda».
«Nel mio caso?», sussurrai. «Quale caso? Mi state accusando?»
«Al momento ci sta semplicemente aiutando con le indagini. Torniamo al giorno in questione. Ha avuto la sensazione che ci fosse qualcosa che non andava? Anche allora si trovava nella dépendance, giusto, con la carrozzina bene in vista? Avrà di certo tenuto d’occhio la sua bambina, no? Ci sta davvero dicendo che non ha visto né sentito niente?».
Scossi la testa, inebetita dalla stanchezza.
Le domande andarono avanti tutto il giorno. Ancora e ancora. A che ora è uscita in giardino? Quanto tempo è rimasta da sola la bambina? Chi ha visto in giardino? Perché non ha chiesto subito aiuto?
“Guardati dall’oscurità che si cela dentro la mente”. Il pensiero era così insistente nella mia testa che, per un momento, fui certa di aver pronunciato quelle parole ad alta voce, ma il poliziotto mi stava osservando con un sorriso falso, di quelli che non coinvolgono gli occhi.
«Mi assecondi, signora Hatton», disse, incrociando le braccia, ostile, senza più sorridere. «Cosa mi dice delle crepe nel suo matrimonio prima che ciò accadesse?».
Non osavo guardarlo negli occhi.
Pensavo di avere tutto: una casa bellissima a Rangoon, un marito premuroso, la casa d’infanzia in Inghilterra e un giardino che avevo curato giorno dopo giorno. Non sapevo nulla di crepe nel nostro matrimonio, tranne per quell’unica grossa incrinatura, ma non avrei confermato l’indiscrezione a un poliziotto.
«Signora Hatton?»
«Sì?»
«Lei ama suo marito?».
Il silenzio durò una frazione di secondo di troppo.
I domestici dovevano avergli detto che avevo cominciato a comportarmi in modo strano da quando era nata Elvira. È difficile ricordare con chiarezza. L’unica cosa certa è che amavo moltissimo quella bambina, al punto da pensare che potesse scoppiarmi il cuore, eppure… c’erano quei pianti che ero incapace di acquietare. Mi straziavano. Qualunque cosa facessi, non riuscivo a calmarla, né a controllarmi. Piangevo di continuo e provavo così tanta vergogna che spesso andavo a nascondermi nella dépendance.
Quanto a cosa ne sia stato di Elvira… io non lo so.