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Rangoon, Birmania, 1936

 

Belle raddrizzò la schiena, tirò indietro i capelli rosso ramato e fissò l’orizzonte con il cuore che le palpitava per l’emozione, mentre la nave cominciava il suo progressivo avvicinamento al porto di Rangoon. Da non credere. La città dove i sogni diventavano realtà, ancora una sagoma misteriosa in lontananza, ma che iniziava a mettere a fuoco man mano che la nave solcava le acque. Il cielo, di un azzurro scandalosamente brillante, sembrava più sconfinato di quanto avesse il diritto di essere, e il mare, quasi blu scuro nei punti più profondi, rifletteva una superficie liquida talmente lucente che Belle riusciva quasi a specchiarcisi. Persino l’aria luccicava, come se dall’umidità che si alzava dal mare il sole avesse creato minuscoli cristalli volteggianti. Le barchette che punteggiavano le acque beccheggiavano tra le onde, e Belle rise vedendo gli uccelli marini scendere in picchiata e battibeccare, lanciando versi striduli. Non era infastidita dal rumore che, anzi, rafforzava in lei la sensazione di vivere qualcosa di profondamente diverso. Aveva anelato a lungo alla libertà di viaggiare, e adesso lo stava facendo davvero.

Con un ronzio nelle orecchie, inspirò a fondo, come se volesse assorbire ogni particella di quel momento glorioso, e per qualche minuto chiuse gli occhi. Quando li riaprì, restò a bocca aperta. Non era stato il porto, con le sue gru altissime, i mercantili carichi di tek, le voluminose petroliere, i vaporetti e i piccoli pescherecci ammassati all’ombra delle imbarcazioni più grandi, a tenerla avvinta. Né gli imponenti edifici bianchi in stile coloniale che si stavano delineando davanti a lei. Perché, svettando dietro tutto questo, un’enorme struttura dorata sembrava galleggiare sopra la città. Sì, galleggiare, come sospesa, come se uno spaccato di un paradiso inimmaginabile fosse sceso in terra. Rapita dall’oro che scintillava sullo sfondo del cielo color cobalto, Belle non riusciva a distogliere lo sguardo. Poteva mai esistere qualcosa di più affascinante? Capì, senz’ombra di dubbio, che si sarebbe innamorata della Birmania.

Il caldo, invece, era opprimente: non un caldo secco, ma una specie di caldo umido che le restava appiccicato ai vestiti. Certamente diverso, ma si sarebbe abituata sia a quello che all’aria con il suo odore di salmastro, di bruciato, che le chiudeva la gola. Si sentì chiamare per nome e si girò di tre quarti fino a vedere Gloria, la donna che aveva conosciuto sul ponte durante la traversata, appoggiata al parapetto con un cappello da sole rosa a tesa larga. Belle fece per darle di nuovo le spalle, ma Gloria la chiamò ancora. Poi agitò la mano coperta dal guanto bianco e le andò incontro.

«Allora», risuonò la sua voce tagliente e raffinata, infrangendo i sogni a occhi aperti di Belle. «Che te ne pare della pagoda Shwedagon. Impressionante, non trovi?».

Belle annuì.

«Rivestita d’oro vero», disse Gloria. «Tipi strani, i birmani. L’intera città è costellata di templi e pagode dorate. Non si riesce a camminare senza inciampare in un monaco».

«Penso che debbano essere persone splendide se hanno creato qualcosa di tanto meraviglioso».

«Come ti ho già detto, le pagode sono ovunque. Dunque, il mio autista ci sta aspettando sul pontile. Ti darò un passaggio fino al nostro albergo, il meraviglioso Strand Hotel. Affaccia sul fiume».

Belle osservò la pelle attorno agli occhi scuri e profondamente infossati della donna e, non per la prima volta, cercò di indovinare quanti anni avesse. Si contavano numerose rughe, ma aveva quello che in genere veniva definito un bell’aspetto. Più avvenente che bella, con un naso marcatamente aquilino, zigomi cesellati e capelli scuri e lucenti, raccolti con eleganza alla base del collo da cigno… ma, per quanto riguardava l’età, si potevano soltanto azzardare delle ipotesi. Era molto probabile che avesse abbondantemente passato i cinquanta.

Gloria aveva parlato con l’aria di chi si sente padrone della città. Una donna con una reputazione da mantenere e un viso all’altezza del compito. Belle si chiese che aspetto dovesse avere senza quel mascherone di trucco applicato con maestria, le sopracciglia disegnate con cura e le labbra da stella del cinema. Non si sarebbe sciolto con quel caldo?

«A volte mi fermo allo Strand se faccio tardi la sera, come infatti farò stanotte, anche se naturalmente ho una casa di proprietà nella Valle Dorata», stava dicendo.

«La Valle Dorata?». Belle non riuscì a nascondere la sua curiosità.

«Sì, la conosci?».

Lei scosse la testa e, dopo un momento di esitazione, decise di non dire nulla. Non era tenuta a conoscere la zona, no? Semplicemente, non era pronta a parlare con una persona che conosceva appena. «No, mai sentita», rispose. «Ma mi piace il nome».

Gloria le rivolse uno sguardo interrogativo e Belle, malgrado si fosse prefissata di non farlo, si sorprese a ripensare al passato. Era trascorso un anno dalla morte di suo padre, e non era andata bene. L’unico lavoro che aveva trovato era nella libreria di un amico, ma ogni settimana spulciava l’ultimissima edizione di «The Stage» non appena arrivava in negozio. E poi, gioia infinita, aveva trovato un annuncio nel quale si cercavano artisti per alcuni alberghi prestigiosi a Singapore, Colombo e Rangoon. L’audizione si era tenuta a Londra, dove si era trattenuta per due giorni in estenuante e angosciosa attesa finché non aveva ricevuto notizie.

Belle si era documentata. Aveva scoperto che Rangoon era sotto il dominio britannico dal 1852 e si era sviluppata a partire da un piccolo villaggio di capanne con i tetti di paglia fino a diventare una vasta città e un porto fiorente, dei quali adesso avrebbe fatto parte. Mentre Gloria le indicava gli imponenti uffici governativi, le abitazioni private e i negozi, Belle pativa il caldo asfissiante dell’auto e sentiva il desiderio di scendere e sentire l’aria sulla pelle. Gloria aveva ragione. I monaci con le tonache color zafferano erano ovunque e girovagavano per le strade, e c’erano anche alcune donne, per quanto coperte da capo a piedi di rosa sbiadito.

«Suore», disse Gloria, chiaramente poco colpita. «Monaci e suore buddisti. Anche se le suore sono abbastanza rare».

Gloria proseguì dicendole che lo Strand era stato il primo quartiere sviluppato dai britannici e che, insieme al caseggiato di Phayre Street, era il posto migliore dove fare affari. A Belle importava ben poco. Ci sarebbe stato tempo per esplorare. Le uniche cose che voleva in quel momento erano una bella bibita rinfrescante e sentire la terraferma sotto i piedi.

«Phayre Street ti piacerà», aggiunse Gloria. «Prende il nome dal primo Alto Commissario della Birmania. Corre parallela al fiume, proprio come lo Strand. È fiancheggiata da alberi della pioggia e, cosa più importante, è lì che si trovano tutti i gioiellieri e i mercanti di seta».

Belle non parlò, ma si passò una mano sulla fronte, dove alcune goccioline di sudore già le imperlavano l’attaccatura dei capelli.

«Eccoci arrivate», stava dicendo Gloria mentre il viaggio giungeva a conclusione e l’autista si fermava davanti a un portico elegante, con due grandi palme che crescevano su entrambi i lati in tutto il loro splendore. «Dio onnipotente, corriamo a cercare un ventilatore, però».

Due facchini silenziosi andarono a recuperare i loro bagagli e, quando raggiunsero le massicce porte a vetri, un portiere con il turbante si inchinò e le tenne aperte per farle passare. All’interno, nell’atrio dal soffitto alto, c’era una piacevole frescura.

«Adoro vedere il luccichio del fiume attraverso il bambù di fronte all’albergo», disse Gloria mentre si voltava verso le porte. «Guarda».

Belle guardò.

«Sospetto che ti daranno una delle stanzette sul retro, nel nuovo ampliamento, oppure all’ultimo piano. Gira voce che vogliano coprire la piscina per costruire altre stanze, sai com’è, ma non è ancora successo, e spero non lo facciano mai».

Tirò fuori un pacchetto di Lambert & Butler dalla borsetta di pelle di coccodrillo e offrì una sigaretta a Belle.

Lei si sfiorò la gola. «Non posso. La voce. Devo preservarla».

«Ma certo. Che sciocca». Gloria fece una pausa. «Un avvertimento. Io starei alla larga dal porto e dai vicoletti attorno al lungofiume, soprattutto quando cala la sera. È dove vivono i cinesi ed è un vero labirinto di stradine tutte uguali. C’è da mettere a repentaglio la propria incolumità».

Un ometto basso e piuttosto massiccio, con un’aria zelante, baffetti sottili e una faccia rubizza, marciò verso di loro per dare il benvenuto a Gloria.

«Signora de Clemente», disse con un inchino ossequioso e un accento, forse del nord, che stava cercando di camuffare. «E la sua incantevole ospite. Chiedo scusa per l’intromissione, ma se la sua accompagnatrice avesse bisogno di assistenza, potrei registrarla subito». Si voltò per sorridere a Belle.

«Oh, no», replicò lei, ansiosa di chiarire l’equivoco. «Non sono un’ospite dell’hotel. Sono un’artista. Una cantante, per la precisione».

L’uomo serrò la mandibola e, ignorando Belle, si rivolse a Gloria. «Come ben saprà, signora de Clemente, c’è un ingresso separato per il personale di servizio. Con tutto il rispetto, ma devo chiedere alla sua accompagnatrice di usare quell’entrata».

Gloria inarcò le sopracciglia e gli rivolse un sorriso garbato, ma gelido. «Tuttavia, signor Fowler, la signorina Hatton non è una servetta. Come artista e, dovrei aggiungere, mia buona amica, gode di certi diritti. Mi aspetto che vengano rispettati». Girò sui tacchi, liquidandolo, e si incamminò impettita verso il bancone della reception.

Fowler era diventato ancora più rosso in volto e, dopo aver scoccato un’occhiataccia a Belle, le sibilò di seguirlo.

«Mi dispiace», sussurrò lei, immaginando che il breve scambio di battute non le sarebbe stato di alcun giovamento.

Dopo averla condotta fuori dall’atrio, l’uomo si fermò e raddrizzò la schiena per ergersi in tutta la sua altezza. «Sono certo che riuscirai a trovare un modo per rimediare. Ricorda, sono l’assistente del direttore e, pertanto, risponderai a me».

Mentre le parlava, Belle si sforzò di non sorridere di fronte alle sue sopracciglia eccessivamente mobili. Sopracciglia che, senza alcun preavviso, avrebbero potuto strisciare via con aria tronfia e reclamare la loro indipendenza. Si capiva che quell’uomo non avrebbe gradito di diventare oggetto di scherno, così riuscì a evitare di ridacchiare.

Fowler esibiva un sorriso forzato. «Avere occhi anche dietro la schiena è il mio mestiere. Onniveggente, ecco cosa sono. E, se mi è concesso, direi che non sembri la classica artista».

Belle si strinse nelle spalle.

«Allora, da dove vieni? Dalle contee attorno a Londra?»

«Da Cheltenham».

«Stessa zuppa. Be’, non so se andrai d’accordo con le altre ragazze. La maggior parte di loro viene dall’East End di Londra. Spero che non ti considererai troppo brava per questo lavoro».

Lei corrugò la fronte. «Le altre?»

«Le ballerine». Fowler inarcò le sopracciglia e la squadrò con attenzione. «Qua darsi troppe arie e credersi chissà chi non ti porterà lontano».

«Spero di riuscire a integrarmi», disse lei, desiderando che se ne andasse e rallegrandosi quando l’uomo fece un passo indietro.

«Be’, non posso perdere altro tempo in chiacchiere», mormorò. Ciò detto, girò l’angolo, salì le tre rampe dell’angusta scala di servizio e si fermò davanti alla prima delle quattro porte dipinte di bianco che erano allineate lungo un corridoio in penombra. «Questa è la tua stanza», disse porgendole una chiave. «La condividerai con Rebecca».

Condividerla? Perse un pochino di entusiasmo. Ma in fondo, pensò, magari sarebbe stato divertente.