20
Diana, Cheltenham, 1922
Quando Simone varca la porta, sento che mi si stanno riempiendo gli occhi di lacrime. Anche se ho giurato che non avrei pianto, è un tale sollievo vederla che non riesco a trattenermi. Lascia cadere la borsa a terra e in un attimo mi ritrovo tra le sue braccia. Non so descrivere quanto sono riconoscente del fatto che tenga ancora a me.
«Diana», dice e, staccandosi delicatamente, mi osserva con attenzione. «Come stai?»
«Vieni alla finestra», rispondo, e vorrei farle capire che questa preziosa finestra sul mondo è la mia ancora di salvezza e non voglio che me la portino via. «Tutto il mio mondo è là fuori».
Ci affacciamo a guardare il parco. È uscita fuori una bellissima giornata primaverile, con uno sconfinato cielo azzurro e candide nuvole vaporose. Così calmo. Così riposante. Come il mare in una bella giornata d’estate, quando il moto delle onde è talmente pigro che il mondo intero sembra in pace. Ricordo che ogni estate la nostra cuoca riempiva il cestino da picnic con pasticcini alla crema, panini con i cetrioli, pasticcio di pollo e crostate di marmellata. Tutte le mie leccornie preferite da portare in spiaggia a Bantham, nel Devon.
Lancio un’occhiata al profilo di Simone, con il suo naso perfettamente dritto, mentre aspetta che dica qualcosa.
«Hai parlato con Douglas?», chiedo, sperando che la risposta sia un no.
«Sì».
«Quindi ti ha detto del temuto Grange?».
Annuisce e mi cinge le spalle con un braccio. «Cara, non pensi che cambiare un po’ aria potrebbe esserti d’aiuto? Non credo che stare rintanata quassù da sola per ore e ore ti stia facendo bene».
La guardo torva, più aggressiva di quanto vorrei. «Non ci vado».
«Potrebbe giovarti. Saresti assistita da infermiere di grande esperienza. Avresti delle cose da fare».
«Intrecciare cestini di vimini». Sbuffo e scuoto la testa. Non le dico che ho sentito parlare di questi posti orribili dove i mariti mandano le mogli un tempo tanto amate. «Verrei lasciata a morire».
«Questo non è vero. Douglas non lo permetterebbe mai».
Provo a impedirlo, ma il dolore mi squarcia il petto. «Douglas si vuole sbarazzare di me, e tu lo sai com’è fatto. Una volta che si è messo in testa qualcosa, non cambia più idea».
«Cara, non vuole sbarazzarsi di te. Ti ama».
Cerco conferme nel suo tono e scuoto di nuovo la testa. Per la prima volta noto alcuni fili grigi fra i suoi capelli biondi. «Mi dispiace così tanto per Roger», riesco a dire. «Era un bravo marito».
Lei annuisce. «Mi manca da morire».
Ci scambiamo uno sguardo e mi consola scoprire che ci capiamo ancora.
«Ti amava», dico.
«Sì».
«Anche Douglas un tempo mi amava. Ora vuole farmi rinchiudere. Sono una scocciatura. Vogliono dare un nome alla mia malattia, perciò dicono che soffro di depressione psicotica, sai, per via…». Mi si ingarbugliano le parole.
«Per via di cosa?», domanda dolcemente.
«Delle voci che sento».
La osservo con attenzione. È sempre stata una buona amica per me, così le tendo una mano. «Parla con Douglas per me. Digli che sto prendendo il Veronal».
Si acciglia. «È così? Lo stai prendendo davvero?».
A lei non posso mentire e inspiro a fondo prima di confessare. «Mi fa stare malissimo. Ma lo prenderò, te lo prometto».
«Teme che tu possa allontanarti da sola o che di notte girovaghi per la casa mentre gli altri stanno dormendo».
Sento una vampata di rabbia e il mio cuore inizia a battere più forte. «Non sono una bambina».
«Ha paura che tu possa cadere. Almeno al Grange ci sarebbe sempre qualcuno in servizio».
Cala un attimo di silenzio e io mi domando a cos’altro stia pensando. Alla fine mi chiede se mi sento sempre male e io le dico che va e viene. Sorride e sembra speranzosa.
C’è un’altra breve pausa mentre valuto se parlare o meno.
«Ha avuto un’altra donna», dico infine, e la guardo in quegli splendidi occhi ambrati, così gentili, così leali, chiedendomi se già sapesse, ma porta di scatto una mano alla bocca e pare sinceramente sconvolta.
«Quando ero incinta di Elvira».
«Non me ne avevi mai parlato».
Ripenso al giorno del nostro faccia a faccia, quando era tornato a casa con addosso l’odore di un’altra donna e uno sguardo tremendo, pieno di vergogna. Fino a quel momento avevo pensato che non avrebbe mai potuto farmi alcun torto. Almeno ha avuto la decenza di mostrarsi imbarazzato per essere stato colto sul fatto, ma, da un certo punto di vista, vorrei non averlo mai scoperto, perché da quando è calato tanto ai miei occhi non sono più riuscita a sentirmi come prima. Da allora ho sempre la sensazione che si sia rotto qualcosa. Non so se valga anche per Douglas. Sospetto che sia così. E poi, anche quando gli ho inveito contro, non mi ha voluto confessare chi fosse l’altra.
«È stato per vergogna», dico.
«La sua vergogna?»
«Di entrambi. Ero una moglie che non era riuscita a tenersi stretto suo marito».
«Quindi ha confessato? Come l’hai scoperto?».
Faccio spallucce. Ho sospettato di tutte le donne di Rangoon, tutte tranne Simone, persino di quella donna orribile, la moglie del governatore. Una maledetta ipocrita, un’inglese della peggior risma.
«Ormai ne è passata di acqua sotto i ponti», dico. «Molti uomini hanno delle tresche, no?».
Simone sospira.
«Sai, aveva l’abitudine di scrivermi un biglietto ogni mattina, e io trovavo la busta sul vassoio quando il nostro silenzioso maggiordomo mi portava il tè e il pane tostato».
E, al principio, la vita era stata veramente dolce. Niente poteva toccarci, protetti com’eravamo nel nostro bozzolo. Douglas, la mia roccia, il mio amore, il mio tutto. Con il tempo, però, mi ero sentita orribilmente soffocata, come se avesse cominciato a mancarmi il respiro.
«Oh, quei primi tempi», sussurro.
«Ti mancano e non ti mancano al tempo stesso».
«È così. È proprio così».
Restiamo in silenzio per un po’.
«Cara, non ti sei nemmeno vestita», osserva Simone alla fine, interrompendo le mie riflessioni. «Vuoi che ti lavi e ti sistemi i capelli, così poi posso trovarti qualcosa di carino da mettere? Magari dopo potremmo andare al café nel parco per il tè delle cinque».
Le sorrido e, anche se sono terrorizzata, le dico che non potrei chiedere di meglio. Ma uscire? Inspiro. Espiro. Inspiro. Espiro. E poi, in quel momento, e in modo del tutto inaspettato, penso che potrei esserne in grado.
«Quanto tempo è passato dall’ultima volta che sei uscita?»
«Settimane. Mesi, forse».
«Troppo. Cara, potrebbe davvero farti comodo avere qualcuno che badi a te».
«Magari potresti farlo tu?». Rido, come se non dicessi sul serio.
Mi osserva attentamente, scegliendo con cura le parole. «Diana, credo davvero che tu possa stare meglio. Sottovalutiamo ciò che può fare la mente».
«Tu dici?»
«Altroché. Vedrai».
Le sorrido e sento accendersi un barlume di speranza.
«Ecco. Ti senti già meglio. Ti prometto che troveremo un modo. L’unica cosa di cui hai bisogno è un posto più sicuro».
La presenza confortante di Simone mi ha tolto un peso dal cuore e, pervasa dall’inatteso e sorprendente desiderio di qualcosa di nuovo, osservo le ombre oblique degli alberi. Un posto sicuro. Esisterà realmente?