36
Il primo incontro di Belle con Walter Guttridge, l’archeologo, fu memorabile. Non si era aspettata che fosse così, be’, così imponente – era alto più di due metri – né che avesse abbondantemente superato i settanta, con lunghi capelli scompigliati e una marcata abbronzatura che accentuava le profonde rughe attorno agli occhi. A giudicare dall’aspetto, era ancora molto arzillo, ma aveva la strana abitudine di tirarsi l’orecchio sinistro mentre parlava.
«Sono stato mandato qui dal British Museum nel 1905», disse con una voce alta e stridula, dopo le presentazioni di Harry e dopo aver accettato di portare Belle con sé a fare una passeggiata.
«Il divario culturale dev’essere stato un bel trauma, immagino».
Le fece un cenno d’assenso. «Il governo aveva appena deciso che si sarebbe fatto carico della conservazione e della tutela di Bagan. Ho tenuto d’occhio questa zona per più di trent’anni, dando raccomandazioni, supervisionando i lavori di manutenzione e via dicendo».
Parlavano passeggiando lungo i sentieri sabbiosi che portavano al villaggio, e superarono gli alti canneti di bambù, i banani selvatici e i segreti celati nel fitto della foresta. Harry si era tirato indietro all’ultimo, accampando come scusa un lavoro urgente di cui si doveva occupare, così Belle era da sola con quell’orso d’uomo che appariva tanto fuori luogo tra i minuti birmani, che tuttavia sembravano rispettarlo. Si rivolgeva a loro parlando la loro lingua, e annuiva e rideva ogni volta che gli rispondevano.
Belle gli lanciò uno sguardo. «Conosce tutti?»
«Come le ho detto, vivo qui da parecchio tempo».
«Non tornerà mai a casa?»
«Casa mia è questa».
«Nemmeno quando andrà in pensione?»
«Non intendo andare in pensione. Continuerò a vivere e a lavorare finché non stramazzerò al suolo. Qui».
«Il commissario di bordo della barca mi ha detto che potrebbe ricordare la storia di una bambina bianca accompagnata da una coppia birmana diretta a Mandalay».
«La ricordo benissimo. Era il 1912, giusto?»
«1911, in realtà».
«Fatto molto curioso… per l’epoca».
«E ha visto la bambina con i suoi occhi?»
«Ah, no. Forse il mio assistente».
«Si trova qui?»
«Arriverà. Sta tornando da Mandalay. Là ha famiglia».
«Spero che torni prima che io debba ripartire».
Quando arrivarono al villaggio, Belle si guardò attorno. A prima vista, sembrava interamente formato da capanne di legno, con le pareti fatte di bambù intrecciato.
«Sono di bambù? Le pareti?»
«Palma di Palmira, per la precisione. Ma coprono le finestre con stuoie di bambù».
La prima casa con il tetto di paglia, nascosta tra gli alberi e costruita sopra una palafitta, sembrava accogliente. In un’area recintata davanti e accanto alla capanna, una donna spazzava a terra, un bambino giocava con una palla e diverse galline rachitiche razzolavano in mezzo alla polvere. Sul retro c’erano due capre pezzate legate a un paletto e un cane che dormiva all’ombra.
«Cosa fa la gente del posto?», domandò Belle.
«Coltivano, pescano. Costruiscono strumenti per l’agricoltura e anche reti, cordame e vele. E alcuni producono oggetti di legno laccati da vendere ai pellegrini di passaggio».
Aveva capito che Guttridge era sordo dall’orecchio sinistro, quello che continuava a tirare come se volesse incoraggiarlo a rimettersi in funzione, quindi si ripropose di camminare tenendosi sempre alla sua destra. Superarono tre monaci scalzi con le loro tonache color zafferano e due ragazzi molto giovani che li seguivano con delle ciotole in mano. Lei chiese chi fossero.
«Tra i sette e i tredici anni, i ragazzi vivono tutti insieme nei monasteri per lassi di tempo diversi. Quelli che restano stringono legami molto forti, diventano una specie di famiglia».
«E tutti i ragazzi sono obbligati a farlo?»
«Tutti i birmani buddisti diventano novizi per almeno qualche settimana, altri per parecchi mesi, alcuni persino per anni, soprattutto se non hanno famiglia».
«Sono liberi di andarsene?»
«Ma certo. Possono tornare alla vita normale in qualunque momento, oppure possono restare e diventare monaci».
«E le ciotole servono per il cibo da chiedere in elemosina?»
«Sì. Possono mangiare solo ciò che ricevono in dono. A volte è soltanto riso. Credono che la sofferenza sia una componente della vita e che la causa della sofferenza sia il desiderio. Per porre fine alla sofferenza, occorre rinunciare al desiderio e all’attaccamento affettivo. Ecco il perché del loro stile di vita così spartano».
Belle rifletté. Certo, il suo desiderio per Oliver era sfociato nella sofferenza, ma, nonostante quello, la vita stessa non era forse fatta di luci e ombre? E non poteva fare a meno di pensare che avrebbe preferito affrontare tutte le sfide poste da una vita simile, con tutti i suoi alti e bassi, che vivere un’esistenza scialba e piatta. D’altro canto, era giovane e sapeva di avere ancora molto da imparare.
Si fermò a osservare una donna vestita in modo straordinario, con un longyi e uno scialle tradizionale, il collo e i polsi avvolti da catene d’oro. Accovacciata sulla terra battuta, stava sgretolando il legno che avrebbe poi mescolato con l’acqua per ricavare la pasta thanaka. Ne offrì un po’ a Belle e la incoraggiò a prenderla con un paio di timidi cenni del capo. Belle se la spalmò sulla mano, ma con quel caldo opprimente asciugò in fretta e cominciò a darle prurito.
A un piccolo incrocio, un indiano sostava insieme a un cavallo agganciato a un calesse, o meglio, a un trabiccolo che somigliava più a un carretto con le fiancate aperte e un tettuccio di paglia, chiaramente adibito al trasporto delle persone.
«Saliremo su quello?».
Guttridge annuì. «È il modo migliore. È libera di andare a piedi, ma inizierà a fare un caldo infernale».
Quando raggiunsero la vettura dall’aria vetusta, l’archeologo l’aiutò a salire dal retro e si accomodò a sua volta sul calesse.
«Allora, cosa deve fare quest’oggi?»
«Controllare una stupa sull’altro argine del fiume».
«Una stupa?»
«La stupa, che a volte viene chiamata pagoda, è la parte superiore di una struttura molto più grande, spesso con una reliquia custodita al suo interno. Quando il regno di Pagan era al suo apice, tra l’undicesimo e il tredicesimo secolo, in queste pianure furono eretti più di diecimila templi, pagode e monasteri buddisti. All’epoca si chiamava Pagan, non Bagan».
«Quanti ne sono rimasti?»
«Meno di tremila. Riuscirà a vedere quelli che abbiamo restaurato negli ultimi anni, usando soprattutto manodopera indiana che non sempre è stata particolarmente apprezzata». Scosse la testa. «Alcuni purtroppo sono troppo compromessi. Li vedrà diroccati e in rovina, sepolti sotto la vegetazione che li sta soffocando. E badi bene, i terremoti non sono stati d’aiuto. È già un miracolo che ne siano sopravvissuti così tanti».
«E la gente ci vive in mezzo?»
«Come è sempre stato, anche se corre voce che vogliano trasferirli altrove».
«Che peccato. Mi piace l’idea che la vita quotidiana continui ad andare avanti attorno a questi monumenti».
Il calesse si mise in marcia su un sentiero accidentato, superando una mucca o una pecora di tanto in tanto. Senza ammortizzatori che attutissero i colpi, Belle si ritrovò sballottata, sbalzata avanti e indietro e fatta sobbalzare, mentre la voce tonante di Guttridge gareggiava con l’acuto stridio delle ruote di metallo. Scorse una stupa dopo l’altra, in genere del colore rossastro della terra sulla quale sorgevano, come se fossero prodotti della natura e non edifici costruiti dall’uomo.
«E tutti questi alberi cosa sono?»
«Perlopiù tamarindi, prugni e neem», rispose lui. «Ma per comprendere davvero la conformazione di questo territorio, la mongolfiera è l’unico modo per vederlo nella sua interezza. Ci starebbe? Io vado domani. Lei ha tempo. Il mio assistente non tornerà tanto presto».
Belle alzò gli occhi al cielo. Ci stava?
«Costruita in Inghilterra secondo gli standard più elevati e portata qui qualche anno fa. Ha cambiato radicalmente il nostro modo di lavorare. Ho addestrato alcuni ragazzi del posto come aiutanti, quindi è sicurissimo».
Dopo un istante, Belle annuì e iniziò a sentirsi eccitata. Cos’aveva da perdere?
«Dovrà farsi trovare sul campo alle cinque del mattino. Ci alziamo sempre prima dell’alba. E mi dia retta, vedere il sole che sorge sopra la pianura è un’esperienza che non dimenticherà mai».
Sentendo bussare insistentemente, Belle si svegliò nell’oscurità più totale, con la testa che ancora le pulsava dopo le ore passate sul calesse nel caldo inflessibile del giorno prima. Cercò a tentoni un interruttore, lanciò un’occhiata all’orologio e vide che aveva soltanto cinque minuti prima di dover scendere nell’atrio al piano di sotto per incontrare Walter Guttridge. Si mise un paio di pantaloni morbidi, infilò una camicia bianca a maniche lunghe e poi, avendo un ripensamento, aggiunse anche un cardigan di lana. Avrebbe potuto fare fresco così in alto, a quell’ora del mattino.
Quando arrivò in fondo alle scale, Guttridge la stava già aspettando.
«Pronta?», le chiese con un tono squillante che non ammetteva repliche.
Lei annuì, rimpiangendo di non avere tempo per una tazza di tè e pentendosi giusto un pochino di aver accettato di andare.
Il conducente del carro trainato da un vitello usò una torcia che faceva solo un filo di luce per rischiarare debolmente il sentiero, anche se cosa riuscisse a vedere restava un mistero. Ciononostante, riuscì a condurli in un campo, dove l’attenzione di Belle venne subito catturata da un braciere acceso. Nel silenzio spettrale del luogo, fatta eccezione per il crepitio del fuoco, i suoi occhi ci misero un po’ ad abituarsi alla penombra. A poco a poco, però, riuscì a distinguere la sagoma di un enorme pallone sgonfio disteso sul terreno e vide alcune ombre scure che si muovevano senza far rumore e preparavano la mongolfiera per il volo. Rabbrividì, e una volta che il gas venne acceso e cominciò a ruggire – e il pallone fu sollevato da terra – sentì un ronzio e un martellio nelle orecchie. Il cesto sembrava così piccolo e insignificante. Non poteva essere sicuro.
«Andiamo, allora», disse Guttridge. «È tempo di salire a bordo. Dovrò prestare attenzione a tutti i cambiamenti che vedo rispetto all’ultima volta che sono andato su, quindi temo che non mi troverà molto loquace».
Andò per primo insieme a un altro uomo. Mentre aspettava il suo turno, Belle si esortò in silenzio. «Goditi questa esperienza», sussurrò. «Potrebbe non ricapitarti mai più». Approfittò di quel momento per ritrovare la calma prima che un aiutante si facesse avanti con uno sgabello, che Belle usò per arrampicarsi nel cesto con ben poca eleganza, lieta di essersi messa i pantaloni. Da lì riuscì a vedere gli altri cinque uomini che tenevano fermo il pallone tramite lunghe funi tese.
Guttridge le spiegò le regole. Poi il cesto sobbalzò e cominciò a sollevarsi da terra, e Belle provò un brivido d’eccitazione.
Di lì a poco si ritrovarono in alto, sopra Bagan, trasportati da una corrente fresca e silenziosa. All’inizio, quando vide che la pianura era avvolta dalla nebbia, restò delusa. Ma la foschia si disperse e il sole, quando cominciò a sorgere un poco alla volta, tinse le cupole delle pagode e delle stupa di lucenti sfumature d’oro e rosa. E mentre ammirava l’antica pianura in tutta la sua estensione, le si riempì il cuore di gioia. Più la mongolfiera procedeva, più riusciva a notare i dettagli: il fumo che saliva al cielo da una fattoria isolata, il mosaico ordinato e regolare dei campi, i vitelli già attaccati agli aratri, gli uccelli in picchiata e il silenzio infranto solamente dalle campane dei templi e dal latrato di un cane. Non aveva previsto quale serenità senza tempo le sarebbe stata offerta dal fluttuare nell’aria sopra una così straordinaria distesa di monumenti antichi. In lontananza, il sole brillava sulle acque dell’Irrawaddy, colorandole d’oro e d’argento. Non era credente, ma in quel panorama c’era qualcosa che poteva soltanto definire mistico. Pervasa dalla consapevolezza che nella vita ci fosse molto di più di quanto aveva sempre creduto, le si inumidirono gli occhi. Si sentiva leggera, trasformata, come se anche a lei spettasse stare sospesa lassù in alto, condividendo l’aria con gli uccelli e un venticello gentile. Che il mondo potesse racchiudere una tale straordinaria bellezza, e al contempo così tanta violenza, le risultava incomprensibile, ma sapeva che avrebbe dovuto trovare un modo per capire e accettare quei due estremi.
Sentiva che sarebbe potuta restare lassù per giorni e giorni, ma, quando Guttridge finì di annotare le sue conclusioni su un taccuino, il giro era quasi finito.
La discesa fu lenta e l’atterraggio pieno di sobbalzi perché, quando toccarono di nuovo il suolo, il cesto sbatté e rimbalzò più e più volte sul terreno. Al di là di quel piccolo disagio, Belle non aveva fatto altro che sorridere soddisfatta. D’ora in avanti avrebbe condotto una vita diversa. Avrebbe smesso di rimuginare su quanto accaduto a Rangoon. Avrebbe visto il mondo con occhi diversi, smettendola di preoccuparsi per ciò che non poteva cambiare. Mai si sarebbe aspettata di fare un giro in mongolfiera in uno dei posti più belli e straordinari del mondo. E invece l’aveva fatto.