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Diana, Minster Lovell, 1928

 

Ormai vivo a Minster Lovell da sei anni. Il primo anno, Simone è rimasta quasi sempre con me, ma dopo, quando sono diventata più forte, è tornata a casa sua e si è fermata a dormire da me solo di tanto in tanto. Negli ultimi due anni ho vissuto da sola. Esco. Saluto i vicini. Ogni giorno, tempo permettendo, lascio il mio cottage, l’ultimo sulla strada del paesino, e salgo per un tratto prima di svoltare subito a destra e scendere prendendo Church Lane. La vecchia canonica, vicino ai piedi della collina, è dove abita il dottore. Se lo vedo intento a potare o a cimare le rose appassite – ha un bellissimo roseto – ci scambiamo un sorriso di intesa, poi facciamo due chiacchiere, come se non avesse già sentito tutto ciò che c’è da sapere sulla mia storia. La strada finisce a Manor Farm, quindi lì giro a destra e attraverso i terreni davanti alla chiesa di St. Kenelm, costruita in pietra delle Cotswolds. Mi piace leggere i nomi sulle lapidi e immaginare le vite delle persone che se ne sono andate prima di me. La prima volta che ho notato quante famiglie avessero patito la perdita di più di un figlio piccolo, proprio come me, non mi ha fatto provare un senso di malinconia. Anzi, l’affinità che ho sentito con queste persone mi ha fatto piantare radici più profonde di quanto non mi fosse mai capitato. Dopo la chiesa, in genere passo tra le suggestive rovine di Minster Hall, quindi prendo il sentiero che scende fino al fiume Windrush, e mentre passeggio tra i fiori delicati, l’aria risuona del canto degli uccellini, delle anatre e delle folaghe.

Spesso mi domando come facciamo a capire quando siamo felici. È nell’assenza di preoccupazioni o nell’assenza del dolore? O, nel mio caso, è perché ho trovato un ritmo così dolce e meraviglioso da dare alla mia vita? Il giusto ritmo che mi concede di vivere con serenità, facendomi apprezzare la semplicità ristoratrice delle cose. Eppure, per ciascuno di noi, la felicità è fragile. Sarei una sciocca se non l’avessi ancora capito.

Dentro di me si era rotto qualcosa. Forse è ancora guasto. Ma adesso so che posso conviverci. Prima non ci riuscivo.

Non vivo più in un mondo popolato di fantasmi, a parte quelli che un tempo hanno vissuto a Minster Hall, e loro non sono soltanto miei. E anche se a volte tendo l’orecchio per sentire, la voce è stranamente silenziosa. Se mai dovesse rifarsi udire, il dottor Gilbert, sempre previdente, mi ha insegnato a parlarci. Non averne paura, mi dice. Mi ha insegnato che sono io a controllare la voce e non il contrario. Non sempre è facile. A volte, quando sono sola al buio nel cuore della notte e percepisco il fogliame fitto e il raspare dei rami degli alberi di Rangoon, cedo. In quei momenti, il passato ha ancora effetto su di me, ma quando l’alba inizia ad avvolgere la mia camera da letto, rischiarandone a poco a poco ogni angolo, ritrovo la strada. Superare le difficoltà fa semplicemente parte della vita, dice il dottore. Nei primi cinque anni che ho vissuto qui, ci siamo visti due volte a settimana, e ci sono state tante, tante occasioni in cui mi sono detta sicura che fosse soltanto una perdita di tempo e denaro. Ora ci vediamo una sola volta al mese. Mi ha salvato la vita e non potrò mai ripagarlo per la sua gentilezza e la sua dedizione. Lui, insieme alla mia carissima Simone, è stato il mio miglior amico.

E adesso è rimasta soltanto una cosa da fare.

In tutti questi anni, ho nutrito un grande senso di colpa nei confronti di Annabelle e ho sentito la sua mancanza, ed è giunto il momento di fare qualcosa. Muoio dalla voglia di rivederla e vorrei tanto provare a trovare un modo per rimediare all’indifferenza che le ho dimostrato in passato, se Douglas me lo permetterà.

Così, con immensa trepidazione, la settimana prossima riprenderò la strada dalla quale sono venuta. Verso Cheltenham.