16
Le luci rosa e dorate delle prime, fresche ore mattutine si erano trasformate in una giornata afosa. Belle aveva le vertigini e, mentre osservava il sonaglio d’argento e avorio, si sentì sopraffare da un’ondata di calore nauseante. La sfera d’argento era un pochino ossidata, ma non quanto ci si poteva aspettare, e l’impugnatura d’avorio, per quanto ingiallita, era intatta. Lo sollevò alla luce.
«Guarda, un’iscrizione». Tracciò il minuscolo profilo delle lettere con la punta delle dita. «Tre cuori e tre lettere, due D e una E. Diana, Douglas ed Elvira. Mia madre, mio padre e mia sorella».
Su un lato della palla argentata c’era un cane in miniatura con le parole “Bau! Bau! Bau!”. Sull’altro l’incisione di un uccellino e le parole “Chi ha ucciso il pettirosso?”. Soffocò un singhiozzo. Tutto d’un tratto, quella sorella perduta era diventata così reale.
Oliver le sfiorò delicatamente la mano. «Usciamo. Hai bisogno di prendere aria».
Era felice di lasciare l’umidità soffocante della casa. Fuori faceva comunque caldo, ma c’era un po’ d’aria. Osservò il groviglio d’erbacce che doveva indubbiamente essere stato un giardino sontuoso.
«Tutto qua, quindi? Tu cosa ne pensi?».
Lui si strinse nelle spalle. «Difficile a dirsi».
Le cadde l’occhio su un varco tra i cespugli che sembravano creare una barriera oltre l’erba alta.
«Pensi che…».
«Possa condurre da qualche parte?».
Il sole le bruciava il collo e lo sentiva picchiare anche sulla schiena attraverso il vestito di cotone leggero. Quando iniziarono a farsi strada in mezzo all’erba, il solo ritrovarsi in giardino la trascinò indietro nel tempo. Vide sua madre camminare davanti a lei, inondata dalla luce del sole e diretta verso lo stesso varco tra i cespugli. Belle avrebbe tanto voluto posarle una mano sulla spalla e chiamarla per nome. Sarebbe stato tutto diverso se l’avesse potuto fare?
Il momento passò.
Oliver l’aveva preceduta e stava scostando l’edera e la vegetazione cresciuta a dismisura. «C’è un sentiero», annunciò con tono eccitato.
Belle lo seguì quasi senza avvertire il dolore causato dalle spine affilate del sottobosco freddo e umido che le graffiavano le braccia e le gambe nude. Poi, quando un frullio d’ali le rivelò la presenza di alcuni uccelli, si sentì sempre più vicina a qualcosa di importante.
Oltre il sentiero, quando riemerse alla luce del giorno, fece vagare lo sguardo sulla distesa del giardino. Tentarono di aggirare quella parte, ma la loro avanzata era ostacolata da una giungla di piante tropicali. E anche di alberi, un sacco di alberi. Oliver le indicò una grande acacia tentacolare, il cui tronco marmoreo sembrava contorcersi e allungarsi verso il cielo fino a terminare in una chioma frondosa che ombreggiava il terreno sottostante.
«E quello cos’è?», domandò lei, indicando un albero alto quasi dieci metri e largo almeno dodici.
«Lo chiamano Orgoglio della Birmania, o albero orchidea».
Belle annuì e continuò a ispezionare il giardino, scacciando gli insetti che le ronzavano tra i capelli e davanti agli occhi. In un angolo un viticcio con grappoli di fiori rossi si era arrampicato sui rami di un altro albero in cerca del sole. E poco oltre c’erano i resti di una costruzione che appariva annerita e in sfacelo.
«Doveva essere una dépendance», disse. «Distrutta da un incendio. Che peccato».
Più avanti, rimase a bocca aperta alla vista di un albero con la circonferenza più grande di qualunque altro.
«Il tamarindo», spiegò Oliver.
Fissò esterrefatta il fogliame verde acceso e sfrangiato di quell’albero imponente, alto quasi venticinque metri. Il tronco si era diviso in tre ramificazioni, quindi la chioma era diventata gigantesca. Così tanta ombra per una bambina nella sua carrozzina.
Lui notò che era diventata taciturna. «Va tutto bene?».
Belle annuì e si avvicinò alla dépendance devastata dal fuoco. Oliver la seguì e cominciò a strappare via le piante rampicanti.
«Non ci troverai niente», disse lei.
«Forse no». Ma andò avanti, fermandosi solo per asciugare il sudore dalla fronte.
«Ti do una mano», propose Belle. Oliver si era rimboccato le maniche e la vista delle sue braccia abbronzate e muscolose al lavoro la fece sorridere. Era passato talmente tanto tempo dall’ultima volta che si era sentita così a suo agio in compagnia di un uomo, e si rese conto che la presenza di Oliver la stava aiutando a restare con i piedi per terra – forse andare lì da sola sarebbe stato un tantino troppo. In lui c’era qualcosa di più dell’uomo disinvolto che aveva conosciuto all’inizio, e questo le piaceva.
Mentre contemplava il giardino segreto, i rumori della città si dissolsero e ad accompagnare Oliver, impegnato nel compito di strappare via altre erbacce infestanti, c’era soltanto il canto degli uccellini. Iniziando ad avvertire un certo torpore, e dimenticando di essersi offerta di aiutarlo, Belle osservò i nugoli di farfalle dalle ali gialle che volteggiavano sopra i cespugli in fondo al giardino, dove individuò i resti di un cancello, ormai soffocato dalle piante rampicanti. E proprio in quel momento sentì Oliver urlare il suo nome.
Corse da lui, che le mostrò una scatola di metallo annerito.
«Incastrata nel terreno sotto ciò che restava del pavimento di legno». Gliela porse.
Belle provò ad aprire il coperchio, ma non si sollevava.
«Ho il coltellino tascabile», disse lui. «Potrebbe fare al caso nostro».
«Sei sempre pronto a ogni evenienza?»
«Dipende. Forse». E le rivolse un gran sorriso.
Le passò il coltellino e, un poco alla volta, Belle riuscì a fare leva e ad aprire il coperchio. Quando sbirciò dentro, la prima cosa che vide fu una fotografia ingiallita dei suoi genitori, abbracciati l’uno all’altra e con dei grandi sorrisi felici stampati sui volti.
Provò una cocente fitta di rancore in conflitto con lo struggimento che aveva sempre cercato di nascondere con tutte le sue forze. Non voleva bene a sua madre. Se ne era convinta. Si era temprata. E non le importava nemmeno che sua madre non l’amasse. Ma aveva vissuto in una menzogna.
Pensando a Diana, fissò i rami leggermente cascanti del tamarindo e si riparò gli occhi dai sottili raggi di un sole troppo luminoso che filtravano tra le foglie, accecandola. L’intensità della luce, insieme al forte ronzio nell’aria, la faceva sentire smarrita, così allungò una mano verso Oliver.
E mentre lui le stringeva la mano, un’unica cosa le apparve chiara senza ombra di dubbio. Ciò che era accaduto in quel giardino, qualunque cosa fosse successa sotto quello stesso albero, aveva cambiato sua madre e, di conseguenza, doveva aver trasformato anche suo padre. All’improvviso, ebbe la vaga e inquietante percezione di come doveva essere stata sua madre prima che la tragedia le distruggesse la vita e la lucidità mentale. Si strinse le braccia intorno al corpo, avvertendone la sofferenza, perché, per quanto avesse sostenuto il contrario, per quanto avesse desiderato il contrario, la loro storia era anche la sua.