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Dopo aver imbucato la lettera per Simone e affrontato il solito formicaio di risciò, auto, carretti trainati da buoi e biciclette, evitando per un soffio la collisione con la carrozza di un tram elettrico, Belle arrivò agli spettacolari uffici del segretariato, che ricordavano una cittadella. Quella era la sede amministrativa di tutto il governo coloniale. Il vasto complesso di edifici di mattoni rossi, in stile vittoriano sorgeva nei grandi giardini di Judah Ezekiel Street. Una volta dentro, Belle si trovò al cospetto di un disorientante labirinto di sale e corridoi. Ciascun ufficio era indicato da un cartello, dall’erario al dipartimento giudiziario, a quello sanitario, e molti, molti altri.

Un esercito di impiegati, segretarie, archivisti e via dicendo correva da un ufficio all’altro, e le rapide indicazioni che Belle riceveva erano confuse e sbrigative, perciò ci mise una vita a trovare l’ufficio del catasto. Temeva di arrivare in ritardo all’appuntamento con Oliver. La sera prima si era presentato inaspettatamente in albergo per sentirla cantare e, malgrado le fossero tornate in mente le parole del biglietto – Credi di sapere di chi ti puoi fidare? Pensaci meglio… – perché potevano anche riferirsi a lui, avevano deciso di incontrarsi in giornata per andare di nuovo alla Valle Dorata, stavolta con le chiavi.

Quando riuscì finalmente a localizzare il catasto, un uomo malvestito e dall’aria scocciata alzò gli occhi dalla scrivania e le fece cenno di sedersi. Strano quel completo sgualcito, pensò lei, perché le unghie erano ben curate, quindi era chiaro che teneva ad alcuni dettagli del suo aspetto esteriore. Mentre gli spiegava la situazione, lui non cercò mai il contatto visivo, ma tenne lo sguardo fisso su un punto qualche centimetro sopra il suo orecchio destro.

«Le serviranno il certificato di morte e il testamento di suo padre». Si era espresso a voce bassa, come quelle persone che costringono chi le ascolta a protendersi in avanti e a doversi sforzare per capire.

Belle tirò fuori i documenti dalla borsa e glieli allungò sopra la scrivania. Lui li esaminò e annuì.

«Vedo che è l’unica beneficiaria dell’intero lascito patrimoniale», disse con voce sottile e annoiata.

Lei confermò con un cenno del capo, e l’emozione causata dal dover accettare la morte del padre le strinse ancora una volta la gola.

«Ho bisogno del certificato di nascita e del passaporto per confermare la sua identità».

Si ricompose. «Li ho».

«E di qualcosa che dimostri che suo padre è lo stesso Douglas Hatton che compare su questi atti di proprietà».

«Come faccio a dimostrarlo?».

La guardò con un’espressione straziata, come se il semplice lavorare al catasto fosse un’esperienza insopportabile. «Be’, innanzitutto dobbiamo effettuare una visura ufficiale dei documenti di registrazione catastale dei terreni e degli atti di proprietà. Potrebbe esserci un atto di compravendita che dovrebbe includere il suo precedente domicilio in Inghilterra».

«Possiamo cercarlo adesso?»

«C’è un bollo da pagare. Dopodiché, se è tutto in ordine, dovrà anche fornirmi una prova di residenza qui in Birmania».

«Ho un contratto di lavoro».

L’uomo annuì e, quando chinò la testa per ricontrollare il testamento, Belle notò una chierica inefficacemente nascosta da un riporto di capelli sottili.

«Il contratto di lavoro dovrebbe essere sufficiente», disse lui, rialzando gli occhi.

«E le chiavi della casa?»

«Dal rappresentante legale, direi. Dovremo conservare una copia autenticata del testamento. Non appena avremo trovato gli atti, il nome del rappresentante legale dovrebbe comparire su quello di vendita. Se è anche un notaio, sarà autorizzato a firmarle il passaggio di proprietà».

«E come faccio a ottenere una copia autenticata?»

«Può fargliela un assistente del rappresentante legale».

«Perbacco, ci sono un sacco di formalità da sbrigare. Speravo di ricevere le chiavi già oggi».

Le rivolse un sorriso condiscendente. «Torni tra qualche giorno e controlleremo i dettagli catastali».

Di ritorno in hotel, non sapendo se Oliver fosse già arrivato e ripartito, Belle aspettò sotto il portico. Aveva fatto tardi, molto tardi, ma sperava comunque che si facesse vivo. Il portiere indiano la vide fare avanti e indietro e andò a offrirle il suo aiuto. Quando lei gli chiese se avesse visto un uomo alto, con penetranti occhi azzurri e capelli castani, l’uomo si illuminò.

«Il signor Donohue?».

Belle sorrise. «Lo conosci?»

«Altroché. Un brav’uomo. È andato fino in fondo quando c’è stata una rapina nel negozio di mia moglie e la polizia non ha fatto nulla. Ha aiutato un sacco di gente del posto a ottenere giustizia. Ribadisco, un brav’uomo».

Poi andò avanti dicendole di non averlo visto fuori dall’albergo nelle ultime ore.

Quando tra schiamazzi e risate uscirono tre ballerine, salutarono Belle con cenni della mano e sorrisi. Rebecca aveva mantenuto la parola data e il rapporto tra Belle e le ballerine aveva perso la vecchia acredine. Fece ruotare le spalle e aspettò ancora un po’, ma alla fine, delusa, si voltò per tornare nella sua stanza, e fu allora che si sentì chiamare per nome da Oliver. Girò su se stessa e sentì una vampata di piacere vedendo che le si stava facendo incontro a grandi passi, più abbronzato che mai.

«Ciao», disse lui, con gli occhi azzurri che brillavano, sperava Belle, per la stessa contentezza che provava lei nel rivederlo. «Il mio redattore ha insistito per delle modifiche dell’ultimo minuto. Non pensavo di trovarti ancora qui».

Ancor più sollevata nel vederlo di quanto si fosse aspettata, gli sorrise ancora di più.

«Vogliamo andare a prendere il tram?», chiese.

«Certo, leviamo le tende».

Mentre sedevano vicini sul tram, Belle percepiva intensamente la sua presenza e aveva difficoltà a formulare dei pensieri. Provava anche lui la stessa cosa? O era soltanto lei? In ogni caso, si sentiva rinvigorita dalla sua vicinanza, e anche un po’ intimidita. Si spostò un pochino per attenuare la sensazione che le stava facendo formicolare tutta la pelle e, dopo qualche istante, riuscì a spiegargli che non aveva le chiavi. Potevano entrare come la volta precedente e, già che erano in zona, avrebbero anche potuto trovare qualche vicino a cui fare delle domande. Per quanto Edward le avesse dato a intendere che era una perdita di tempo, Belle era sempre più intenzionata a scoprire cos’era successo alla bambina. E poi chissà, magari qualcuno ricordava qualcosa.

Anche se era emozionata all’idea di rivedere la casa una seconda volta, Belle non poteva evitare di pensare a sua madre. Ma non a quella che aveva vissuto nella stanza al piano di sopra e che una volta l’aveva svegliata a mezzanotte insistendo affinché si mettessero gli stivali e uscissero di soppiatto in giardino per andare a cogliere dei fiori. Piuttosto, era una versione magica e diversa di sua madre a occupare le sue fantasie. Il pensiero la fece sorridere e Oliver le lanciò un’occhiata.

«Che c’è?»

«Oh, frivoli ricordi. Tutto qua».

«Sono sicuro che i tuoi ricordi non sono frivoli».

“Se solo tu sapessi, forse non diresti così”, pensò lei: la madre di sua invenzione l’aiutava negli esercizi di aritmetica mentre sedevano insieme al tavolo in cucina, prendendosi in giro a vicenda e ridendo per gli sciocchi errori che commettevano entrambe. Quella mamma preparava dei picnic deliziosi che condividevano, sedute su una coperta di lana scozzese accanto al lago, prima di lanciare le molliche alle anatre e alle oche.

«Vivevi in campagna?», le domandò Oliver, strappandola dai suoi pensieri.

Scosse la testa. «In città. Una cittadina in pieno stile Regency nel Gloucestershire».

«Anch’io sono cresciuto in città».

Lei rise. «Non penso che Cheltenham sia paragonabile a New York. Ma andavamo in campagna, e a volte anche al mare».

L’unica volta che era veramente andata al mare in estate era stato per incontrare suo nonno nel Devon. Sua madre trovava che la spiaggia fosse troppo caotica, la sabbia troppo fastidiosa e inclemente, il mare troppo agitato. E le aveva fatto venire mal di testa, quindi erano tornate a casa presto. “Casa” per quella settimana era stata il piccolo cottage accogliente del nonno, a Bantham, anche se lui era uno spirito silenzioso e solitario a cui non andava di giocare e che passava gran parte della giornata rintanato nel suo studio. Erano tornate a trovarlo soltanto una volta, ed era stato per Natale.

La voce di Oliver irruppe di nuovo nei suoi pensieri.

«Ci siamo», disse. «Continui ad avere la testa tra le nuvole».

Una volta entrati in casa, Belle si sentì improvvisamente in soggezione. Era tutto esattamente identico all’ultima volta che si erano introdotti lì dentro, eppure era anche diverso.

«Sicura di stare bene?», domandò lui, notando il cambiamento d’umore.

«Sì, certo. Sono emozionata».

Ma non era soltanto emozionata. Era anche piena di interrogativi. Come avevano fatto a tenerle nascosti così tanti segreti? Com’era possibile che non avesse mai saputo di aver avuto una sorella? E adesso, visto quanto accaduto in quella casa, la malattia di sua madre cominciava ad avere un senso. Aveva passato tutta la vita a giudicare ingiustamente Diana Hatton?

«Non mi hai mai detto cosa ne è stato di tua madre», affermò Oliver con un baluginio perspicace negli occhi. Aveva capito a cosa stava pensando? Di certo era abbastanza sagace.

«Ovviamente, so che tuo padre è morto», aggiunse.

Belle esitò. Non era un argomento di cui in genere amava parlare.

Lui le mise una mano sul braccio. «Scusami. Non sei tenuta a dirmelo».

«Non c’è problema», rispose lei, ma aspettò comunque che le emozioni si smorzassero. Non accadde, e mentre si guardava attorno continuò a provare lo stesso nervosismo. Nella stanza c’era odore di chiuso ed era come se i suoi polmoni le stessero impedendo di respirare a dovere. Per un attimo, provò le stesse sensazioni che aveva vissuto da bambina quando le cose diventavano troppo difficili da sopportare.

«Se ne andò», disse in modo piuttosto brusco.

«Dove?», chiese lui, imperturbabile.

«Non lo sa nessuno».

«Dev’essere stata dura per te».

Lo guardò dritto negli occhi. «No. È stato un sollievo. Be’, nel complesso. È così terribile?».

Lui sostenne il suo sguardo e scrollò il capo.

«E poi è morta. Alla fine. È stato mio padre a dirmelo».

Tacque, desiderando di potersi disfare dello sciagurato ricordo del giorno di pioggia in cui suo padre le aveva dato la notizia. Vero, in un certo senso era stato un sollievo, e non aveva mai accennato alla frequenza con la quale continuava ancora a sognare sua madre, ai piedi del letto, con uno struggimento stranamente eloquente negli occhi. Né aveva rivelato di essersi svegliata giorno dopo giorno con le guance bagnate. Conoscere la verità avrebbe turbato suo padre, così aveva mentito.

Si conficcò le unghie nel palmo della mano. «Senti, ti spiace se cambiamo discorso?»

«Certo che no. Vogliamo uscire?».

Aveva la sensazione che volesse confortarla, abbracciarla forse, ma non voleva la sua compassione. Non era mai veramente riuscita ad accettare quei sentimenti contrastanti per sua madre e dubitava che si sarebbe mai messa il cuore in pace.

La sera prima, quando aveva scritto a Simone, si era lasciata prendere dalla nostalgia e continuava ancora ad avvertirne gli strascichi. Tuttavia, non c’era più una casa a cui fare ritorno, né una famiglia della quale sentirsi parte. Era rimasta da sola.

Mentre si facevano strada attraverso i grovigli di piante tropicali che circondavano la casa, Oliver le domandò cosa intendeva farne di quel posto non appena fosse diventato suo. La verità era che non ne aveva idea. Vendere a Edward a un prezzo stracciato, magari? Aveva già espresso un interesse e la responsabilità della ristrutturazione certo non era una prospettiva entusiasmante. E, a parte tutto, quanto pensava, verosimilmente, di trattenersi in Birmania? Aveva in progetto di viaggiare e continuare a cantare. Eppure, la casa era così bella… o almeno, aveva del potenziale.

Ripensò alla lettera che aveva spedito a Simone. Quando aveva chiesto all’impiegato dell’ufficio postale quanto ci avrebbe messo ad arrivare a destinazione, lui le aveva detto che aveva fatto bene a scegliere la spedizione aerea, perché per quella ci volevano circa nove giorni. Via mare o via treno, invece, ce ne sarebbero voluti almeno quindici, se non addirittura un mese. Di conseguenza, difficilmente avrebbe ricevuto notizie prima di una ventina di giorni almeno, sempre ammesso che Simone rispondesse in fretta.

Dopo essersi allontanata dalla casa, diede un’occhiata agli uccellini verdi appollaiati sui fili del telegrafo tesi lungo la strada: erano così carini con le teste gialle e le code allungate. Malgrado il turbamento di poco prima, ora si sentiva briosa e rilassata. Merito di quel posto… quel posto con le sue belle case antiche e gli splendidi giardini. Poi le tornò in mente qualcosa e il suo umore cambiò in un battibaleno.

«Mio padre ha dato fastidio a qualche personalità influente», disse all’improvviso quando riaffiorò il ricordo. «Me ne ha accennato un anziano signore che ho incontrato al club Pegu».

«Ci sei andata?».

Lei annuì. «Con Edward de Clemente».

La pelle attorno agli occhi di Oliver si tese, ma l’uomo si limitò a chiederle se sapeva cosa avesse fatto suo padre e a chi avesse dato fastidio.

Quando Belle ammise di non saperlo, lui tentennò, come se stesse valutando cosa dire, dandole la sensazione che le stesse nascondendo qualcosa.

Belle si voltò e rivolse un ultimo sguardo alla casa. «Tornerò, vecchio splendore», sussurrò, «e poi decideremo cosa fare di te».

«Credo che tu ti sia innamorata», disse Oliver.

Lei si accorse di essere arrossita violentemente.

Superarono un indiano di mezz’età fermo davanti al cancello della casa più vicina. Un giardiniere, pensò Belle, a giudicare da com’era vestito.

Lei e Oliver si scambiarono uno sguardo, poi si incamminarono verso di lui.

«Buongiorno», disse Belle, e l’uomo chinò la testa. «Mi capisce?», chiese a Oliver, il quale sembrava sinceramente divertito.

«Sì, signora, ormai sono tanti anni che parlo inglese», rispose l’uomo.

Si sentì arrossire di nuovo. «È naturale. Mi scusi. Posso chiederle da quanto tempo lavora qui?».

Il suo era un sorriso fiero. «Da tutta la vita, signora».

«Quindi… ha iniziato quando?»

«Da ragazzo. Avevo quindici anni, perciò doveva essere il 1895».

«Da parecchio, allora».

«Altroché».

«Immagino non ricordi l’epoca in cui scomparve una bambina dal giardino della casa qua accanto?».

L’uomo aggrottò la fronte, poi le rispose con tono solenne: «Fu un momento terribile. C’erano poliziotti da tutte le parti».

«E cosa si pensava fosse accaduto?»

«Molti britannici ritenevano che fosse stata la signora».

«E lei? Lei che idea si era fatto?».

L’indiano scosse la testa. «Conoscevo la povera signora. Era sempre stata cortese con me, mi chiedeva come stava la mia famiglia e via dicendo. No, non sarei mai riuscito a crederla capace di una cosa simile».

«E allora cosa pensa che sia successo alla bambina?»

«Non lo so, ma i birmani della zona dicevano che era stata presa da forze sovrannaturali evocate dalla famiglia furibonda di un uomo che era stato fatto arrestare dal marito della signora».

Oliver lanciò un’occhiata a Belle e annuì. «I birmani sono molto superstiziosi».

«In che senso?»

«Be’, credono nei nats. O spiriti, se preferisci. Erigono feticci magici fuori dalle loro case per impedire agli spiriti malvagi di entrare».

«Ma cosa sono i nats di preciso?»

«Un po’ di tutto, da uno spirito che vive in un albero a una divinità induista. Se vuoi possiamo scoprire se tuo padre è mai stato minacciato con un nat».

«Oh, Oliver, suvvia. Che senso avrebbe?». Si rivolse al giardiniere. «La ringrazio per avermi dedicato il suo tempo».

L’uomo le fece un inchino, poi aprì il cancello e lo varcò.

«Allora?», chiese lei. «Adesso cosa facciamo?».

Oliver esitò per un solo istante. «Caffè a casa mia? Devo farti vedere una cosa».

“E io a te”, pensò lei. Incuriosita, disse che ne sarebbe stata molto lieta.

Il suo appartamento si trovava in un caseggiato residenziale in stile vittoriano. Il salotto – con le pareti di un bianco tenue, arredato con mobili di rattan, comodi cuscini di seta color smeraldo e bellissimi tappeti persiani azzurri e verdi – era inaspettatamente accogliente, come se avesse beneficiato di un tocco femminile. Le quattro lampade a stelo in stile orientale collocate negli angoli della stanza disegnavano un delicato gioco di luce sul pavimento di parquet. Le tende bianche gonfiate dal vento facevano da cornice a una bella vista sugli alberi ad alto fusto della strada sottostante, davanti al divano c’era un tavolino da caffè di legno lucido e una piccola scrivania era stata accostata al muro. Un’altra parete vantava mensole di tek che andavano dal pavimento al soffitto, sulle quali era stipata una gran quantità di libri, tanto che quasi strabordavano. Felice di essere nel suo appartamento, e sorridendo tra sé, Belle non provava alcun imbarazzo. Passeggiò davanti alle mensole, sbirciando i titoli dei libri e passando un dito sulle costole dei volumi.

«Hai gusti eclettici».

«Devo, se voglio restare in partita».

«In partita? È questo per te il giornalismo? Uno sport?».

Le sorrise. «Sei molto dura con me».

Belle rise. «Trovi?».

Oliver andò in un’altra stanza, e lei sentì tintinnare la porcellana e le posate mentre preparava il caffè. Dopo qualche minuto, lui tornò con un vassoio e il caffè già versato in raffinate tazzine bianche, accompagnato da un assortimento di biscotti dall’aspetto insolito, o forse erano pezzetti di torte.

La sorprese a fissarli. «Sono indiani. Provane uno».

Belle ne scelse uno e ne addentò l’inebriante dolcezza.

«Allora, cos’è che volevi farmi vedere?».