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Rangoon, 1937

 

Nel corso dei mesi successivi, Belle passò la maggior parte del suo tempo a lavorare o, quando non lavorava, in compagnia di Oliver. Se non era con lui, in genere si ritrovava a pensarlo. In una delle tante serate trascorse insieme, erano andati a bere champagne sulle sponde del lago Reale, a guardare le lucciole e a ridere per nulla, e a poco a poco si erano ritrovati un po’ alticci. Da quando aveva abbandonato le resistenze verso l’alcol, c’erano state diverse nottate come quella.

«Allora», aveva detto lei, «ti tratterrai in Birmania?»

«Be’, dipende. Prima o poi otterranno l’indipendenza dai britannici, e dopo chissà come andranno le cose».

«Ma ti piace vivere qui?»

«Per il momento».

«E perché sei venuto?»

«Penso di avertelo detto la prima volta che ci siamo incontrati. C’è un cambiamento in corso e questo fa notizia».

«E non pensi al dopo?»

«Non lo so, Belle. Stanno circolando voci preoccupanti in Germania, sulla sospensione delle libertà civili e la soppressione dell’opposizione politica, cose di questo genere, e prevedo che ci saranno dei disordini».

«Ma mica riguarderanno anche noi che siamo qua?»

«Forse sì, forse no. Difficile a dirsi in questa fase».

L’affermazione era stata seguita da un lungo attimo di silenzio, al termine del quale le aveva delicatamente fatto girare la testa verso di sé. «Ma non parliamo di argomenti deprimenti», aveva detto, poi le aveva tracciato il profilo delle labbra con la punta delle dita.

Felici di poter rubare ogni momento possibile per stare insieme, andarono anche alle corse dei cavalli, dove persero soldi e osservarono attentamente una Gloria che se la cavò abbastanza bene, mentre suo fratello scosse la testa sconsolato quando il cavallo di cui era comproprietario arrivò ultimo. Andarono al Silver Grill a gustare cene deliziose, e a passeggiare al parco di sera, quando il caldo del giorno si era dissipato. E finirono nell’appartamento di Oliver per il caffè quando erano stanchi e avevano voglia di rilassarsi un po’. Era come se entrambi stessero attendendo il momento opportuno, per un tacito accordo secondo il quale ciò che stavano vivendo, qualunque cosa fosse, non doveva essere affrettato. Lei era felice di avere tutto il tempo per conoscerlo meglio. Per capire il suo buffo modo di esprimersi, e per poi prenderlo in giro dicendogli che l’americano stava scempiando la lingua inglese. Lui incassava con grande calma e lei non si sentiva mai messa sotto pressione.

Era così diversa dalla sua prima e unica relazione vera e propria, quella che aveva avuto con Nicholas Thornbury. Essendo un produttore, le aveva promesso il mondo e aveva voluto bruciare le tappe. Belle aveva provato a diventare ciò che le chiedeva di essere, una compagna che facesse sul serio, ma non le era sembrato reale. Non avrebbe mai funzionato, anche se forse avrebbe dovuto dirglielo in faccia invece che lasciargli solamente un biglietto. Per quello era dispiaciuta. Lui era un uomo brillante, e lei l’aveva trovato stimolante. Le piaceva il fatto che sapesse come muoversi in città e anche che frequentasse ogni sorta di personalità insolita e accattivante. Ma la verità era che si era fatta influenzare dal fascino di quell’ambiente e, eccessivamente colpita dal fatto che fosse interessato a lei, si era lasciata trasportare. Soltanto dopo si era resa conto di stare con lui per i motivi sbagliati e aveva provato un po’ di vergogna.

Da allora, certi uomini erano stati del parere che fosse una donna di facili costumi, che fosse disposta a tutto, solo perché faceva la cantante. Ma Belle non era affatto così, e il suo riserbo era una cosa che la maggior parte di loro non riusciva ad accettare. Oliver era diverso – era sensibile – e Belle sentiva di potersi fidare sempre di più. Amava il fatto che con lui fosse un po’ come tornare a casa.

Aveva risposto a Simone, profondendosi in ringraziamenti per la sua lettera tanto dettagliata. L’aveva finalmente aiutata a mettersi il cuore in pace. Era evidente che gli eventi del 1911 avevano compromesso le condizioni mentali di sua mamma e, per la prima volta, Belle desiderava che ci fosse un modo per rimediare. “Dicono che non si può morire di tristezza”, pensò. “Ma non è così. Può succedere”. Era convinta che la tristezza avesse ucciso sua madre. Eppure, c’era una cosa che non riusciva ancora a comprendere. Cosa intendeva Simone quando le aveva detto che suo padre non aveva capito il ruolo che aveva nella malattia di sua madre? Cosa aveva fatto?

Né riusciva a capire perché non fosse bastata la sua nascita a ristabilire un equilibrio, o se non altro ad attenuare almeno in parte il dolore causato dalla perdita di Elvira. “Fa ancora male”. Malgrado non ne avesse mai parlato con Oliver, aveva la sensazione che se ne fosse in qualche modo accorto, e che fosse riuscito a percepire la sua sofferenza.

Il giorno in cui finalmente entrò in possesso delle chiavi della casa nella Valle Dorata, pensò di chiedere di nuovo a Oliver di accompagnarla, ma alla fine decise che quella volta avrebbe preferito andare da sola. Adesso che era sua, nutriva un desiderio che non riusciva a spiegare fino in fondo. Aveva bisogno dei suoi spazi per toccare le superfici, per tastare la consistenza delle pareti, e magari per percepire gli eventuali echi del passato. E voleva farlo da sola. Doveva prendere delle decisioni sul futuro della casa e, anche se Edward le stava abbastanza simpatico, non era sicura di volerla vendere a lui.

Riprese il tram e percorse l’ultimo tratto a piedi, superando le lussuose case coloniali che avevano sempre lo stesso identico aspetto. Casa sua – e al solo pensiero si sentì percorrere da un piccolo brivido – sembrava diversa, invece. Venendo a sapere che presto avrebbe ricevuto le chiavi, aveva assunto un giardiniere che estirpasse la vegetazione in eccesso. Ora, aprendo il cancello, già si riusciva a vedere il cambiamento. Era come se il giardino sul davanti si fosse aperto, facendo apparire più grande e più leggera anche la casa. Alzò gli occhi al cielo incandescente e provò uno slancio di felicità.

Anche se la serratura della porta principale era inceppata e inizialmente fece resistenza, Belle era determinata a entrare in casa come avrebbero fatto i suoi genitori, e non introducendosi illegalmente dal retro. Appoggiò con decisione la spalla alla porta che si stava scrostando, quindi spinse e spinse ancora, finché prima un cigolio e un lamento non annunciarono la resa imminente. Quando cedette senza preavviso, Belle piombò nell’atrio e barcollò prima di allungare una mano per ritrovare l’equilibrio. «Scusami, vecchia mia», sussurrò. L’ingresso nella sua nuova casa non era stato dei più eleganti. Tentennò, presa alla sprovvista da quel filo di pensieri. Sarebbe davvero diventata casa sua?

Lasciò la porta spalancata. Era necessario cambiare l’aria. Ora che riusciva a vedere l’atrio come si doveva, ispezionò il pavimento di marmo a scacchi bianchi e neri, illuminato da raggi di luce e, per fortuna, in gran parte intatto. Dopodiché, man mano che perlustrava di nuovo le stanze, cominciò a guardare la casa con occhi diversi, e con uno spirito che desiderava vederla tornare in vita, sebbene fosse evidente che il resto del piano inferiore avrebbe avuto bisogno di una grande quantità di lavori, se voleva davvero cancellare i fantasmi del passato. Aprì tutte le finestre che non erano state sbarrate e poi salì le scale, andando direttamente nella stanza che riteneva fosse stata dei suoi genitori. Contemplò il giardino dalla veranda. Il giardiniere si era messo all’opera anche lì e, ora che buona parte della giungla era stata eliminata, riusciva a intuire quanto sua madre dovesse averlo amato.

I pochi bei ricordi che aveva di lei erano legati ai momenti trascorsi insieme nel giardino della loro casa a Cheltenham, ma erano immagini confuse e Belle non poteva affermare con certezza che non fossero solo le pie illusioni di una bambina. Sapeva però che sua madre aveva amato i fiori. Almeno quello era reale.

Dopo aver aperto le finestre al piano di sopra, tornò da basso e uscì su quello che doveva essere stato il patio attraverso le portefinestre. Era pericolante e malridotto, con gran parte del mattonato rotto e in alcuni punti completamente mancante. Mentre avanzava stando attenta a dove metteva i piedi, un esercito di formiche si tolse rapidamente dalla sua strada e una famiglia di minuscole lucertole scappò via in cerca di riparo. Attraversò il prato tagliato, ancora terribilmente incolto ma con l’erba che almeno non le arrivava più al ginocchio, e si incamminò verso il varco oltre il quale c’era la sezione nascosta del giardino. Prima di proseguire, però, si voltò a guardare la casa. Alla luce del sole sembrava quasi dorata, e contemplare la sua bellezza sfiorita le fece salire un groppo in gola. Non era difficile immaginare la vita dei suoi genitori in quel luogo prima che tutto andasse così storto. Provò un momento di profonda tristezza, ma passò, e Belle superò il varco e si incamminò verso il tamarindo. Si sdraiò sull’erba sotto l’albero per guardare il cielo attraverso le sue fronde ombrose e, anche se non aveva mai vissuto in Birmania, avvertì una connessione, come se avesse finalmente trovato il suo posto nel mondo.

Avrebbe potuto vivere lì? Ristrutturare la casa? Riportarla nuovamente in vita? Era possibile?

La sera successiva, due minuti prima di salire sul palco, Belle ricevette un biglietto da Edward, il quale le chiedeva di incontrare lui e un altro uomo subito dopo lo spettacolo. Aveva passato talmente tanto tempo con Oliver che aveva quasi dimenticato il fatto che Edward le avesse menzionato un agente – o, se non proprio dimenticato, aveva comunque appreso la notizia con beneficio di inventario e l’aveva accantonata. In ogni caso, adesso era lì. Un certo signor Clayton Rivers, un australiano, un agente teatrale di fama internazionale. Era un peccato dover dare buca a Oliver, ma non poteva farci niente. Aveva provato a chiamarlo, ma non le aveva risposto. Avevano concordato di vedersi al Silver Grill per bere qualcosa insieme, e gli avrebbe voluto parlare della recente visita alla casa. Sapeva che avrebbe capito perché non sarebbe potuta andare al loro appuntamento, ma, a quel punto, non c’era più modo di avvisarlo.

Nonostante un mix di eccitazione e nervosismo, lo spettacolo andò bene, e alle ventitré e trenta Belle si aggiustò capelli e trucco, mise i tacchi più alti che aveva e oltrepassò i pochi avventori rimasti per raggiungere il bancone del bar, dove aveva visto Edward, a suo agio e rilassato con una camicia dal colletto slacciato, intento a sorseggiare un whisky in compagnia di un altro uomo. Entrambi si alzarono non appena la videro e, con un sorriso raggiante, Edward la presentò all’agente teatrale, un uomo alto e dalle spalle larghe, con un’abbronzatura marcata e i corti capelli biondi quasi tendenti al bianco.

«Piacere di conoscerla, signor Rivers», disse Belle, tendendogli la mano.

«Clayton, ti prego», rispose l’uomo, sfoderando un sorriso abbagliante. «Che ne dici di andare a quel tavolo appartato laggiù?».

Lasciarono Edward al bar e si accomodarono al tavolo all’angolo. Clayton Rivers le disse che veniva da Sydney e che al momento stava visitando tutti i migliori alberghi e teatri d’Oriente a caccia di nuovi numeri da portare in scena. Dato che Edward, un vecchio amico dai tempi di Londra, si era profuso in così tanti elogi, si era sentito in dovere di fare una piccola deviazione. Le sue aspettative non erano state disattese e, se fosse stata interessata, era disposto a scritturarla con un regolare contratto.

Euforica per la notizia, Belle, continuando ad ascoltarlo attentamente, annuì quando le spiegò che il contratto le avrebbe chiarito tutti i dettagli, anche se ci avrebbe messo un paio di settimane o giù di lì ad arrivare. L’unica condizione era che si facesse trovare a Sydney alla fine della settimana successiva, e sostenesse un’audizione per sostituire un’artista in un musical di successo in cartellone per il sesto mese consecutivo.

«Non ti prometto niente», disse. «Sai che all’audizione si presenteranno in tanti, ma… sei brava. Molto brava. È costoso, ma l’Imperial Airways ti porterà a destinazione in tre giorni, con uno scalo a Singapore e uno a Perth».

A quanto pareva, la stella dello spettacolo era alle prese con dei problemi personali e di salute e, anche se non aveva ancora abbandonato il ruolo, era molto probabile che la cacciassero per inadempienza contrattuale. L’attuale sostituta si era fatta “cogliere in fallo”, cioè, Belle capì, era incinta e, visto che gli spettacoli erano già in programmazione, sbrigarsi era fondamentale, spiegò Clayton.

Belle annuì con entusiasmo, ma al contempo sentì anche un briciolo di esitazione. Avere un agente dalla sua parte significava essere presa in considerazione per lavori di cui altrimenti non avrebbe neanche mai sentito parlare, quindi perché titubare?

«Potrei avere un paio di giorni per pensarci?», fu la domanda con cui se ne uscì alla fine.

Lui si accigliò, sorpreso. «Sul serio? Ci devi pensare?»

«Ho alcune questioni da sistemare, tutto qua».

Non era esattamente la verità. Non era certa di voler lasciare Oliver proprio quando stavano cominciando a conoscersi davvero, e anche la casa nella Valle Dorata, in tutto il suo sbiadito splendore, era un chiodo fisso. La villa creava un potente collegamento con il passato, con il passato dei suoi genitori, e anche se non aveva senso, Belle si era sentita a suo agio lì è aveva avuto la sensazione che la villa facesse parte di lei. E cosa dire di Elvira? C’era ancora da indagare sulla storia della bambina bianca avvistata mentre risaliva il fiume insieme a una coppia birmana. Vero, negli ultimi tempi la sorella scomparsa non era stata al centro dei suoi pensieri, ma Belle sarebbe mai tornata in Birmania se adesso se ne fosse andata? Avrebbe mai scoperto la verità su quanto accaduto? Fece un lungo e profondo respiro. Era un’opportunità favolosa. Come poteva anche solo pensare di rifiutarla?

Lanciò un’occhiata a Edward, che era stato raggiunto da Gloria, ed esitò ulteriormente quando vide chi si era unito a loro. Era la donna dai capelli rossi, quella che aveva visto con Edward, e le stava sorridendo. Belle la fissò con la mente affollata da una serie di interrogativi. Chi era? Perché aveva la sensazione di conoscerla? Che ci fosse qualcos’altro al di là della sua somiglianza con Diana?

«Vogliamo tornare dagli altri?», domandò Clayton.

Mentre si avvicinavano al bar, Gloria fece cenno a Belle di raggiungerla. «Vieni a conoscere Susannah».

L’altra donna sorrideva e, colta da un’illuminazione, Belle capì che le era parsa familiare proprio per la ragione a cui aveva pensato prima: assomigliava davvero a sua madre, che ovviamente non era più viva. Poi, quando le rivolse la parola, rimase sorpresa dal forte accento scozzese. E malgrado avesse un aspetto molto curato, con un solo reticolo di sottilissime rughe di espressione, era più grande di quanto avesse creduto a un primo impatto. Da lontano, la postura perfetta e l’abito moderno le avevano dato l’impressione che fosse più giovane, ma, faccia a faccia, era evidente che doveva avere più di cinquantacinque anni. Se aveva nutrito il benché minimo sospetto che potesse essere Elvira, e ovviamente non era lei, no davvero, ora ogni dubbio era stato rapidamente dissipato. L’età della donna lo rendeva impossibile. Belle le strinse la mano.

«Ho rintracciato Harry la sera della regata», stava dicendo Gloria. «Dio, sembrano passati secoli, ma quando sono tornata a cercarti tu eri svanita nel nulla. Non mi hai ancora detto che fine avevi fatto e ci siamo viste poco o nulla dalle corse dei cavalli».

«Oh», fece Belle, scervellandosi in fretta e ricordando la fuga insieme a Oliver. «Mi era venuto un gran mal di testa, così sono tornata a casa. E da allora… be’, sono stata piuttosto occupata».

Socchiudendo gli occhi, Gloria la osservò con diffidenza.

Belle sentì che stava arrossendo. «Mi dispiace. Ti ho cercata alla regata per avvisarti».

«Ma davvero, cara?». La donna tacque. Era chiaro che non si era lasciata abbindolare dalla menzogna. «Be’, non pensiamoci più ora. Harry è partito per le regioni selvagge subito dopo la regata, quindi era inutile sollevare di nuovo l’argomento, ma adesso è tornato e domani alle undici ci vedremo al Golden Eagle per un pranzo anticipato. È il locale dove ti ho portata quando eri appena arrivata. Te lo ricordi?».

Belle annuì, anche se non poteva fare a meno di pensare di essersi fatta cogliere di sorpresa. Poi, dato che voleva darsela a gambe, mormorò parole di scusa dicendo che aveva avuto una lunga giornata, ma che si sarebbero viste l’indomani mattina, quindi augurò a tutti la buonanotte.