28
Due giorni dopo, poco prima di sera, Belle e Oliver si incamminarono verso la collina di Sanguttara e la pagoda Shwedagon. La frenesia dei banchi del mercato, che vendevano tessuti, dolciumi appiccicosi, prodotti artigianali in legno e fiori, inondava la strada, mentre gli ombrelloni dai colori sgargianti proteggevano i commercianti dal calore. Quel posto brulicava di gente che si accalcava per fare acquisti e, qua e là, Belle individuò delle giovani donne che spazzavano a terra.
«Si offrono volontarie», spiegò Oliver. «Acquisire del merito attraverso le opere di bene e le buone azioni è fondamentale per la loro fede, perché così facendo aumentano le possibilità di avere una reincarnazione propizia».
«E le pagode? Perché in Birmania ce ne sono così tante?»
«Be’, i ricchi finanziano la costruzione delle pagode per accumulare il merito. Ciascuna di esse è una Odeiktha zedi, ma ci sono anche altri tipi di pagode che custodiscono sacre reliquie».
Belle annuì. Proseguirono e poco dopo raggiunsero un banchetto pieno zeppo di gabbie di bambù, ciascuna con un minuscolo uccello verde simile a un pappagallo confinato al suo interno. «Guarda!», esclamò lei sbalordita.
«Ne vorresti uno?», le domandò Oliver.
Belle arretrò. «Un uccello in gabbia? No, grazie».
«Non è come pensi. Andiamo».
Riluttante, lo seguì e si avvicinò al banco del mercato.
«Allora, quanti?», chiese, voltandosi a guardarla.
«Sei impazzito?».
Oliver le sorrise. «Fidati di me».
Mentre tirava sul prezzo con il commerciante, Belle rimase a guardarlo, in ansia. Dopo qualche momento, parvero aver raggiunto un accordo e l’uomo mise tre gabbie su un tavolino improvvisato.
«Sono tutti tuoi», annunciò Oliver.
Belle inarcò le sopracciglia, ma non si mosse.
«Forza».
«Ma non li voglio».
«Apri le gabbie. Ora puoi farli volare via. Sono qui per questo. Ti darà merito».
Lei scosse la testa e rise. «Ma insomma, Oliver, mi hai fatto pensare…». Le si affievolì la voce.
«Non ho saputo resistere».
Belle aprì le gabbie una dopo l’altra e, estasiata, osservò ogni uccello spiegare le ali e volare via, librandosi sempre più in alto.
Poi salirono alcuni gradini verso il colorato complesso centrale che Oliver chiamò aran. Prima di trovarselo davanti e di osservare i tanti edifici di fronte a lei, Belle non si era resa conto che l’enorme pagoda centrale sorgeva in mezzo a un’infinità di pagode più piccole disseminate tra gli alberi. E non aveva neanche immaginato quanto fosse affollata la zona o che visitare la pagoda fosse un simile evento mondano. Tutta Rangoon sembrava essersi riversata lì. Innanzitutto, Belle si concentrò sulle famiglie che passeggiavano con addosso i loro vestiti migliori mentre i bambini più piccoli dormivano insieme in gruppetti sorvegliati dalle nonne più anziane. Poi osservò le giovani coppie che pregavano in ginocchio e alcune comitive di persone sedute a spartirsi il cibo. Ma a intrigarla più di ogni altra cosa erano i monaci con le tonache color zafferano che vedeva inerpicarsi sulle terrazze più basse della pagoda Shwedagon.
«Ma cosa stanno facendo?», domandò a Oliver.
«Controllano la superficie per vedere se ci sono dei problemi».
«Sembrano in equilibrio precario. Non si arrampicheranno mica fino in cima?»
«Credo di sì, per tutti e novantotto i metri».
«Buon Dio!».
«Andiamo», disse lui. «Dobbiamo darle un’occhiata come si deve prima che cali il sole».
La prese a braccetto e proseguirono insieme, superando enormi campane appese all’interno di strutture di pietra, padiglioni ornamentali che proteggevano dei reliquiari, e statue sontuose a forma di leone. Belle si innamorò dell’andirivieni che animava il cuore del luogo e sembrava in netto contrasto con i silenziosi angoli in ombra, sotto gli alberi, dove i monaci andavano a pregare.
«È ricoperta di pietre preziose», disse, spalancando gli occhi davanti alla mole imponente della pagoda Shwedagon.
«Sì, anche se alcune sono di vetro».
Mentre il cielo si tingeva d’oro e fitte ombre scure cominciavano a dissolvere la luce all’interno dei padiglioni, Belle restò senza fiato di fronte all’abbacinante splendore della pagoda Shwedagon illuminata dal sole morente. Con la luce che si rifrangeva sui vetri colorati, l’intera struttura riluceva e scintillava: una meraviglia tempestata di gioielli come Belle non aveva mai visto prima. L’arena sottostante, dove ardevano le lampade a olio, le candele e qualche lampadina elettrica, brillava nel venticello serale. Anche l’atmosfera era cambiata, diventando più ipnotica e meno travolgente, come se un mantello magico fosse calato insieme alla notte, smorzando il chiacchiericcio e intensificando il significato religioso di quel momento. Belle rabbrividì leggermente, e Oliver le cinse le spalle con un braccio.
«Allora», le sussurrò accostando la testa alla sua, «ti piace?».
Lei annuì. «Mi piace moltissimo», rispose, anche se non avrebbe saputo dire se si stava riferendo all’emozione che le suscitava Oliver o alla vista della pagoda. Rimase appoggiata a lui per qualche minuto, assorbendo quella pace. Poi, quando cominciarono ad allontanarsi, Oliver la prese per mano.
La sua energia la percorreva da capo e piedi e Belle desiderava con tutta se stessa che lui la baciasse di nuovo. La prima volta era stata lei a prendere l’iniziativa, ma adesso voleva che fosse Oliver a fare il primo passo. Così si fermò, e sollevò una mano per toccargli la guancia. Quando lui la strinse tra le braccia e le sfiorò delicatamente le labbra con un bacio, Belle ne fu elettrizzata. La stuzzicava, e lei stuzzicò lui, con le labbra che si toccavano a malapena, aspettando il momento in cui avrebbero avuto qualcosa di più. Belle avvertiva la violenza del proprio appetito febbrile, finché non fu pronta a dissolversi. Fluida come acqua, o fusa come mercurio liquido. Era una meraviglia. Era gioia. Poi – e non sapeva come fossero passati da una cosa all’altra –, quando gli appoggiò per un istante la testa sulla spalla, proruppe in una risata inaspettata. Era felicità allo stato puro, e forse anche l’unico modo per fare i conti con l’intensità dei suoi sensi acuiti fintantoché era circondata da così tanta gente. Oliver rise insieme a lei.
«Vieni», le disse quando si calmarono, e si scostò un poco, stringendole entrambe le mani. «Meglio andare. Qua le dimostrazioni d’affetto in pubblico sono ritenute offensive».
«Affetto?». Rise ancora. «Si chiama così, adesso?». Ma si guardò attorno e vide che alcune donne li stavano fissando.
Stare in compagnia di Oliver in una serata così piena di romanticismo alterava il suo stato emotivo, ma era anche incuriosita dalla scena a cui aveva assistito. Non appena le emozioni si placarono e si fu calmata, gli chiese di parlarle della loro religione.
«Buddismo», disse lui, «mescolato alla venerazione dei nats».
«La venerazione dei nats?»
«Ricordi che te ne ho già parlato?»
«Oh, sì. Gli spiriti».
Belle si mise in ascolto dei suoni della sera, il rumore adesso si era affievolito.
«E i monaci? Li vedo spesso per strada».
«Sì, in genere escono di mattina presto con le loro ciotole e vanno a chiedere la carità. Cibo per la giornata».
«E non hanno nient’altro?».
Lui annuì. «Il ruolo del buddismo è cambiato molto da quando i britannici hanno preso il controllo. Le leggi erano costruite attorno agli insegnamenti buddisti e i monaci venivano protetti. Oggi, ovviamente, quel legame tra il governo e il buddismo è andato perduto».
«In cosa credono?».
Oliver aggrottò la fronte e ci pensò su. «È molto semplice. Credono che ai genitori e agli anziani vada portato rispetto. E sottolineano la necessità di perdonare e prendersi cura della famiglia e della comunità».
Belle alzò gli occhi verso di lui. «A me sembra piuttosto bello».
«Ma c’è una strana contraddizione, perché questo tipo di buddismo è fortemente individualistico. Ogni persona è responsabile della propria salvezza, malgrado l’enfasi posta sulla comunità».
«Dettame che deve condurre a una vita pacifica».
Lui rise. «Forse. Comunque, dopo tutti questi discorsi, penso sia giunto il momento di tornare con i piedi per terra. Pronta per andare a bere qualcosa?».