12
Baley respirava come un corridore appena arrivato al traguardo dopo una lunga corsa. La stanza si era messa di sbieco, e c’era qualcosa di duro sotto il suo gomito sinistro.
Si rese conto di trovarsi sul pavimento.
Giskard era inginocchiato al suo fianco, con una mano (ferma e un po’ fredda) chiusa attorno al suo polso destro. La porta della cabina, visibile dietro la spalla di Giskard, era aperta.
Baley capì, senza bisogno di chiedere, quello che era successo. Giskard gli aveva preso la mano e l’aveva stretta attorno al controllo dell’astrosimulatore. Altrimenti...
C’era anche Daneel, con la faccia vicina a quella di Baley, e un’espressione che avrebbe benissimo potuto essere di dolore.
Disse: «Non hai detto nulla, Elijah. Se mi fossi reso conto subito della situazione...»
Baley fece un gesto per dire che capiva, che non aveva importanza. Era ancora incapace di parlare.
I due robot aspettarono finché Baley non fece un debole tentativo per rialzarsi. Immediatamente lo sorressero sotto le ascelle e lo misero su una sedia, mentre Giskard gli toglieva di mano il controllo.
Giskard disse: «Atterreremo fra breve. Non avrete più bisogno dell’astrosimulatore, suppongo.»
Daneel aggiunse con aria grave: «Sarebbe il caso di portarlo via, in ogni modo.»
Baley disse: «Aspetta!» La .sua voce era un sussurro roco, e non era sicuro che la parola fosse comprensibile. Tirò un profondo respiro, si schiarì debolmente la gola, e ripeté: «Aspetta!» e poi: «Giskard!»
Giskard si voltò: «Signore?»
Baley non parlò subito. Adesso che Giskard sapeva di essere desiderato, avrebbe aspettato a lungo, forse per sempre. Baley cercò di raccogliere le idee. Agorafobia o no, rimaneva sempre la sua incertezza circa la loro destinazione. Questa esisteva da prima, e forse aveva anche intensificato la fobia.
Doveva scoprire la verità. Giskard non gli avrebbe mentito. Un robot non poteva mentire... a meno che non gli fosse stato ordinato in maniera molto precisa di farlo. E perché dare un ordine del genere a Giskard? Era Daneel che restava tutto il tempo in sua compagnia. Se bisognava mentire, quello sarebbe stato compito di Daneel. Giskard si limitava ad andare a prendere le cose, e a far la guardia alla porta. Senza dubbio non c’era necessità di istruirlo in maniera che si sapesse districare nella rete di bugie necessarie per ingannarlo.
«Giskard!» disse Baley, con voce ormai quasi normale.
«Signore?»
«Stiamo per atterrare, vero?»
«Fra meno di due ore.»
Dovevano essere ore metriche, pensò Baley. Più o meno di due ore terrestri? Non importava. Serviva solo a confonderlo. Meglio lasciar perdere.
Baley disse, con la voce più decisa che gli riuscì di emettere: «Dimmi subito il nome del pianeta su cui stiamo per atterrare.»
Un essere umano, avrebbe risposto solo dopo un momento, ammesso che lo facesse, e con un’aria di notevole sorpresa. Giskard rispose immediatamente, con voce piatta e precisa: «Aurora, signore.»
«Come fai a saperlo?»
«È la nostra destinazione. Inoltre non potrebbe essere la Terra, dal momento che il sole di Aurora, Tau Ceti, ha solo il novanta per cento della massa del sole della Terra. Perciò Tau Ceti è più freddo, e la sua luce possiede una distinguibile sfumatura arancione, agli occhi di chi è appena arrivato. Forse avrete già notato questa caratteristica colorazione nella luce riflessa dalla superficie delle nuvole. La vedrete certamente uscendo, finché i vostri occhi non si saranno abituati.»
Gli occhi di Baley lasciarono la faccia impassibile di Giskard. In effetti aveva notato la colorazione arancione, ma non vi aveva attribuito importanza. Un grave errore.
«Puoi andare, Giskard.»
«Sì, signore.»
Baley si voltò verso Daneel. «Ho fatto la figura del cretino, Daneel.»
«Hai avuto il sospetto che ti stessimo ingannando, e portando in qualche posto diverso da Aurora? Avevi qualche ragione per sospettare una cosa del genere?»
«Nessuna ragione. Forse è stato il risultato di un disagio indotto da agorafobia subliminale. Guardando lo spazio apparentemente immobile non sentivo alcun disturbo percettibile, ma forse la fobia era appena sotto la superficie, e ha creato un disagio crescente.»
«La colpa è stata nostra, Elijah. Conoscendo il tuo fastidio per gli spazi aperti, non dovevamo portarti l’astrosimulatore, e comunque dovevamo sorvegliarti più attentamente mentre lo usavi.»
Baley scosse la testa con fastidio. «Lascia perdere, Daneel. Di sorveglianza ne ho anche troppa. Quello che mi preoccupa, è fino a che punto sarò sorvegliato su Aurora.»
«Daneel disse: «La mia impressione, Elijah è che ti sarà molto difficile avere libero accesso ad Aurora e agli Auroriani.»
«E invece è proprio questo che mi dovrà essere consentito. Se devo arrivare alla verità, dovrò essere lasciato libero di cercarla direttamente sul posto, e dalla gente coinvolta.» Baley cominciava a sentirsi di nuovo se stesso, anche se un po’ stanco.
Lo imbarazzava un po’ accorgersi che l’intensa esperienza appena trascorsa l’aveva lasciato con un acuto desiderio di farsi una fumatina: un’abitudine di cui credeva di essersi sbarazzato più di un anno prima. Gli pareva di sentire il sapore e l’odore del fumo passargli per il naso e la gola.
Avrebbe dovuto accontentarsi del ricordo, lo sapeva. Su Aurora non gli sarebbe stato permesso in alcun modo di fumare. Non esisteva tabacco su nessun Mondo
Spaziale, e se ne avesse avuto con sé, sarebbe stato distrutto.
Daneel disse: «Dovrai discuterne col dottor Fastolfe, dopo l’atterraggio. Non ho alcun potere di prendere una decisione in questa faccenda.»
«Lo so bene, Daneel, ma come ci parlerò con Fastolfe? Attraverso l’equivalente di un astrosimulatore?»
«Niente affatto, Elijah. Parlerete faccia a faccia. Intende incontrarti allo spazioporto.»