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Ci volle mezz’ora per arrivare all’ingresso della Città, e Baley si preparò mentalmente a quello che gli sarebbe successo. Forse - forse - questa volta, sarebbe stato diverso.
Raggiunse la linea divisoria fra l’Esterno e la Città, il muro che contrassegnava il limite fra il caos e la civiltà. Appoggiò la mano alla piastra di segnalazione e subito si delineò un’apertura. Come al solito, non aspettò che la porta fosse completamente aperta, ma vi si infilò non appena lo spazio fu sufficiente. R. Geronimo lo seguì.
Il poliziotto di servizio lo guardò sorpreso, come faceva sempre quando qualcuno veniva dall’Esterno. Ogni volta c’era la stessa espressione di incredulità, la stessa tensione, la mano che correva al disintegratore, gli occhi che si socchiudevano.
Baley gli mostrò il tesserino di riconoscimento con aria corrucciata, e la sentinella lo salutò militarmente. La porta si chiuse alle sue spalle... e accadde.
Era dentro la Città. Le mura si chiusero attorno a lui e la Città divenne l’Universo. Era di nuovo immerso nel ronzio eterno e infinito, nell’odore di uomini e macchine, tutte cose che presto sarebbero sparite sotto la soglia della coscienza; nella luce morbida e indiretta, completamente diversa da quella variabile e parziale che c’era Fuori, con i suoi verdi, i suoi marroni, i blu, i bianchi, e le interruzioni di giallo e rosso. Qui non c’erano folate improvvise di vento, né caldo né freddo, nessuna minaccia di pioggia. C’era invece uno scorrere continuo e lieve di correnti d’aria, che mantenevano sempre l’ambiente fresco. C’era una combinazione calcolata di temperatura e umidità, così perfettamente adatta agli uomini da essere inavvertibile.
Baley tirò un sospiro di sollievo al pensiero di essere a casa, al sicuro, fra il conosciuto e il conoscibile.
Era quello che succedeva sempre. Aveva ancora una volta accettato la Città come un grembo materno, e si era ritrovato in essa con gioia. Sapeva che l’umanità doveva emergere e nascere da quel grembo. Perché ci ricadeva sempre? Sarebbe successo sempre così? Anche se avesse accompagnato un’infinità di persone fuori dalla Città, e fuori dalla Terra, verso le stelle, alla fine sarebbe stato capace di seguirli? Si sarebbe sempre sentito a casa solo nella Città?
Strinse i denti... ma era inutile pensarci.
Disse al robot: «Ti hanno portato fin qui in macchina, ragazzo?».
«Sì, padrone.»
«Dov’è adesso?»
«Non lo so, padrone.»
I Baley si voltò verso la sentinella. «Agente, questo robot è stato portato qui due ore fa. Cos’è successo alla macchina che l’ha portato?»
«Signore, sono entrato in servizio solo un’ora fa.»
In effetti, era stata una domanda stupida. Quelli della macchina non potevano
sapere quanto tempo ci avrebbe messo il robot a trovarlo, perciò non avevano aspettato. Baley ebbe la tentazione di chiamare il Quartier Generale, ma gli avrebbero detto di prendere la via-espresso; era il mezzo più rapido.
La sola ragione per cui esitava era la presenza di R Geronimo. Non desiderava la sua compagnia sulla via-espresso, ma d’altra parte non poteva pretendere che il robot ritornasse al Quartier Generale attraverso la folla ostile.
Non che avesse scelta. Senza dubbio il Commissario non sarebbe stato disposto a sentire scuse. Già doveva essere in ritardo perché non aveva risposto alla chiamata, giorno libero o no.
Baley disse: «Da questa parte, ragazzo.»
La Città si stendeva su più di cinquemila chilometri quadrati, ed era attraversata da quattrocento chilometri di vie-espresso, più centinaia di chilometri di linee bus che servivano più di venti milioni di abitanti. Questa intricata rete di trasporto si articolava su otto livelli, con centinaia di scambi, più o meno complessi.
Come agente in borghese, Baley doveva conoscerli tutti... e così era. Se fosse stato lasciato, con gli occhi bendati, in un punto qualsiasi della Città, una volta tolta la benda sarebbe stato in grado di raggiungere senza errori qualsiasi altro punto indicato.
Non c’era alcun dubbio che sapesse come raggiungere il Quartier Generale: tuttavia c’erano otto itinerari possibili, e per un attimo esitò, pensando a quale poteva essere il meno affollato in quel momento.
Ma solo per un momento. Appena deciso, disse: «Seguimi, ragazzo.» Il robot gli si accodò docilmente.
Saltarono su un bus di passaggio, e Baley si afferrò a uno dei sostegni verticali: bianco, caldo, con la superficie ruvida. Preferì non sedersi: non dovevano restare a lungo sul veicolo. Il robot aveva atteso un gesto di Baley prima di afferrarsi a sua volta al sostegno. Avrebbe anche potuto tenersi in equilibrio senza appoggi, ma Baley non voleva correre il rischio di restare separato da lui. Era responsabile del robot, e avrebbe dovuto pagare i danni alla Città, se gli succedeva qualcosa.
Sul bus c’erano pochi passeggeri, e gli occhi di ognuno si voltarono inevitabilmente verso il robot. Uno per uno, Baley incrociò quegli sguardi. Aveva l’aspetto di un uomo di potere, e gli occhi che incontrò si voltarono tutti, a disagio.
Baley fece segno al robot di scendere. Avevano raggiunto le strisce mobili, e loro si stavano muovendo alla stessa velocità di quella più vicina. Baley scese, e sentì la corrente d’aria, ora che non erano più protetti dal guscio di plastica del bus. Si piegò con un movimento inconsapevole, dettato dalla lunga pratica, poi cominciò a passare da una striscia all’altra, per raggiungere quella che costeggiava la via-espresso.
Sentì il grido di un ragazzino: «Robot!» (anche Baley era stato un ragazzino, una volta) e seppe esattamente quello che sarebbe successo. Sarebbero arrivati in gruppo: due, tre, o mezza dozzina, lungo le strisce, e sarebbero riusciti a far inciampare il robot. Se la cosa fosse giunta poi davanti a un magistrato, un ragazzino qualsiasi avrebbe dichiarato che il robot gli era andato addosso, e che erano una minaccia sulle strisce, e sarebbe stato senza dubbio rilasciato.
Un robot non poteva né difendersi, né testimoniare.
Baley si mosse rapidamente, frapponendosi tra il primo dei ragazzini e il robot. Passò su una striscia più veloce, alzando un braccio come per adeguarsi all’accresciuta velocità del vento, e il giovane si ritrovò spinto su una striscia più lenta, cosa a cui non era preparato. Gridò: «Ehi!» e finì a gambe levate. Gli altri si fermarono, valutarono rapidamente la situazione, e cambiarono rotta.
Baley disse: «Sull’Espresso, ragazzo.»
Il robot ebbe un attimo di esitazione. Non era permesso ai robot non accompagnati di salire sulla via-espresso. Tuttavia l’ordine di Baley era stato molto deciso, e il robot lo eseguì. Baley lo seguì, e questo riportò il robot alla tranquillità.
Baley si mosse deciso fra la folla in piedi, spingendo davanti a sé R. Geronimo, fino al livello superiore, meno affollato. Si afferrò a un sostegno, e piazzò fermamente un piede su quello del robot, scoraggiando ancora una volta ogni occhiata.
Dopo quindici chilometri e mezzo, raggiunsero il punto più vicino al Quartier Generale della polizia, e Baley scese. R. Geronimo lo seguì. Non era stato neppure sfiorato. Baley lo condusse fino all’ingresso, dove si fece rilasciare la ricevuta. Controllò la data, l’ora, il numero di serie del robot, e se la mise nel portafoglio. Prima di sera, si sarebbe anche assicurato che l’operazione fosse stata registrata nel computer.
Adesso doveva vedere il Commissario. Lo conosceva da tempo, e sapeva che era un uomo duro e che qualsiasi mancanza da parte di Baley sarebbe stata un pretesto adatto per degradarlo. Considerava i passati trionfi di Baley come un’offesa personale.