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Baley, alla fine, si addormentò dopo che Daneel gli ebbe mostrato come ridurre l’intensità del campo di pseudo-gravità.

Non era una vera e propria antigravità, e consumava tanta energia che il processo poteva essere utilizzato solo per periodi limitati, e in condizioni speciali.

Daneel non era programmato per spiegare in quale maniera funzionava, e anche se l’avesse fatto Baley era certo che non avrebbe capito niente. Fortunatamente, i controlli potevano essere manovrati senza bisogno di comprenderne anche il processo fisico.

«L’intensità di campo non può essere ridotta a zero,» disse Daneel, «almeno non mediante questi comandi. Comunque dormire a zero-G non è piacevole, soprattutto per chi non è abituato ai viaggi spaziali. L’ideale è una intensità abbastanza bassa da dare una sensazione di libertà dal peso del proprio corpo, ma sufficientemente elevata da conservare l’orientamento alto-basso. La maggior parte della gente si trova bene all’intensità minima, ma essendo per te la prima volta, forse è meglio utilizzare un’intensità più elevata, in maniera da conservare la sensazione familiare di peso. Prova a vari livelli finché avrai trovato quello che ti si adatta meglio.»

Preso dalla novità della sensazione, la mente di Baley dimenticò a poco a poco i problema dell’affermazione/negazione di Fastolfe, proprio mentre il suo corpo scivolava nel sonno. Forse si trattava dello stesso processo.

Sognò di essere ancora sulla Terra (naturalmente), mentre viaggiava su un espresso, ma non seduto: gli sembrava piuttosto di galleggiare vicino alla striscia ad alta velocità, proprio sopra la testa della gente, e leggermente più in fretta di loro. Nessuno pareva sorpreso, nessuno lo guardava. Era una sensazione piacevole, e gli spiacque svegliarsi.

Dopo colazione, quella mattina...

Ma era davvero una mattina? Come si distingueva la suddivisione del giorno nello spazio?

Evidentemente non si poteva. Ci pensò un po’, e decise che avrebbe definito mattino il periodo successivo a quando si svegliava, per colazione il pasto che ne seguiva, abbandonando ogni computo specifico del tempo, in quanto oggettivamente non importante... Per lui almeno, se non per la nave.

Dopo colazione, dunque, diede una scorsa ai notiziari, scoprendo che non dicevano nulla a proposito del robocidio, poi passò allo studio dei microfilm che gli erano stati portati il “giorno prima” da Giskard.

Scelse quei titoli che avevano un carattere storico, e dopo averne fatto scorrere parecchi, concluse che Giskard gli aveva portato solo libri per ragazzi. Avevano numerose illustrazioni ed erano scritti in maniera semplificata. Si chiese se era quella la stima che Giskard aveva fatto della sua intelligenza.. o forse delle sue necessità. Dopo averci riflettuto, decise che Giskard, nella sua innocenza robotica, aveva scelto bene, e che non era il caso di pensare a un possibile insulto.

Si mise a studiarli con maggior concentrazione, e si accorse che Daneel osservava lo schermo insieme a lui. Era vera curiosità? O serviva solo a tenergli occupati gli occhi?

Daneel non chiese neppure una volta di rivedere una pagina. Né fece domande. Presumibilmente, si limitava ad accettare quello che leggeva con fede robotica, senza permettersi il lusso del dubbio o della curiosità.

Baley non fece alcuna domanda a Daneel a proposito di quello che leggeva Chiese solo istruzioni per ricavare alcune copie a stampa dal visore.

Di tanto in tanto. si interruppe per utilizzare lo stanzino adiacente, che serviva per varie funzioni fisiologiche private, tanto private che veniva chiamato “Personale”, con la maiuscola sempre implicita, tanto sulla Terra quanto, come scoprì Baley parlando con Daneel, su Aurora. Era in grado di contenere una sola persona, cosa piuttosto stupefacente per un abitante della Città, abituato a lunghe file di orinatoi, sedili escretori, lavandini e docce.

Leggendo i videolibri, Baley non fece alcun tentativo di mandare a memoria i particolari. Non aveva alcuna intenzione di diventare un esperto della società auroriana, e neppure di superare un esame sull’argomento. Voleva soltanto farsi un’idea generale.

Notò per esempio che, malgrado l’attitudine agiografica tipica di chi scrive la storia per i giovani, i pionieri auroriani, i padri fondatori, i Terrestri che erano giunti per primi su Aurora all’epoca dei primi voli interstellari, erano stati molto Terrestri nel carattere. Le loro lotte politiche, perfino alcuni tratti del loro comportamento erano tipicamente terrestri; quello che era avvenuto su Aurora era, sotto certi aspetti, simile alle vicende che si erano verificate quando le zone relativamente disabitate della Terra erano state colonizzate, duemila anni prima.

Naturalmente, gli Auroriani non avevano dovuto combattere forme di vita intelligenti, nessun organismo pensante aveva posto agli invasori terrestri alcun problema. In effetti, c’era stata pochissima vita, di qualsiasi genere. Perciò il pianeta era stato rapidamente occupato dagli esseri umani, dalle loro piante e animali domestici, dai parassiti e dagli altri organismi che avevano incidentalmente trasportato con loro. E naturalmente, i coloni avevano i loro robot.

I primi Auroriani si sentirono ben presto padroni del pianeta, caduto nelle loro mani senza bisogno di lotta re, e l’avevano chiamato all’inizio Nuova Terra. Era una scelta naturale, dal momento che si trattava del primo pianeta extrasolare a essere colonizzato: il primo Mondo Spaziale. Era il primo frutto dei viaggi interstellari, l’alba di una nuova era. Tuttavia, essi tagliarono rapidamente il cordone ombelicale, e battezzarono il pianeta Aurora, il nome della dea romana dell’alba.

Era il Mondo dell’Alba. E i colonizzatori si dichiararono fin dall’inizio i progenitori di una nuova razza. Tutta la storia precedente dell’umanità era una Notte Oscura, e soltanto per gli Auroriani di questo nuovo mondo stava finalmente giungendo il Giorno.

L’orgoglio per questo grande evento si faceva sentire in ogni dettaglio: nei nomi, nelle date, nei vincitori, negli sconfitti. Era la cosa essenziale.

Altri mondi vennero colonizzati, alcuni dalla Terra, altri da Aurora, ma Baley non prestò attenzione a questo, né ad altri dettagli. Gli interessavano i grandi mutamenti, quelli che avevano allontanato ancor più gli Auroriani dalle loro origini terrestri. Erano stati soprattutto due: la crescente integrazione dei robot in ogni aspetto della società, e l’estensione della durata della vita.

Man mano che i robot diventavano più perfezionati e versatili, gli Auroriani dipendevano sempre più da, essi. Ma mai in maniera assoluta. Non come su Solaria, dove, ricordava Baley, pochissimi esseri umani vivevano nel grembo collettivo di un gran numero di robot. Aurora era diversa.

E tuttavia la loro dipendenza crebbe.

Visto nelle sue grandi linee, e a livello intuitivo, ogni passo del processo di interazione uomini/robot appariva determinato da questa dipendenza. Anche il modo in cui era stato raggiunto il consenso generale sui diritti dei robot (la graduale caduta di quelle che Daneel aveva chiamato “distinzioni non necessarie”) era un sogno di dipendenza. Baley aveva l’impressione che gli Auroriani non fossero diventati più benevoli per amore della benevolenza, ma che volessero negare la natura robotica dei loro servitori per non dover riconoscere la loro dipendenza da oggetti dotati di intelligenza artificiale.

L’estensione della durata della vita, poi, era stata accompagnata da un rallentamento nel ritmo della storia. I contrasti si erano appiattiti. Si era sviluppata una crescente continuità, e un crescente consenso.

Non c’era alcun dubbio che la storia di Aurora diventava molto meno interessante col passare del tempo. Verso la fine, era quasi soporifera. Per quelli che la vivevano, doveva essere una bella cosa. La storia era interessante nella misura in cui era drammatica; ma se questo forniva una lettura affascinante, era orribile viverla. Senza dubbio, le vicende personali della vita continuavano ad essere interessanti per la maggior parte degli Auroriani, e se l’interazione collettiva delle vite non presentava sorprese, a chi poteva importare?

Se il Mondo dell’Alba godeva di un giorno tranquillo e soleggiato, chi avrebbe voluto un temporale?

A un certo punto, nel corso della lettura, Baley provò una sensazione indefinibile. Se fosse stato obbligato a darne una descrizione, avrebbe detto che era quella di una momentanea inversione. Era come se fosse stato dirottato e poi riportato alle condizioni di prima, nel corso di una frazione di secondo.

Era durato tanto poco che quasi non se n’era accorto, come se fosse stato un singhiozzo.

Fu soltanto un minuto dopo, ripensando d’improvviso alla sensazione, che si ricordò di averla già provata due volte in precedenza: viaggiando verso Solaria la prima volta, e tornando sulla Terra la seconda.

Era il “balzo”, il passaggio attraverso l’iperspazio che, in un intervallo senza tempo, annullava il limite imposto dalla velocità della luce, permettendo alla nave di superare parsec di distanza. (Non c’era alcun mistero, a parole, dal momento che la nave si limitava ad abbandonare l’Universo, attraversando qualcosa che non imponeva alcun limite di velocità. Era un mistero completo concettualmente, però,

poiché non c’era alcun modo di descrivere cosa fosse l’iperspazio, a meno di non usare simboli matematici che non potevano in ogni modo essere tradotti in qualcosa di comprensibile.)

Se si accettava il fatto che gli uomini avevano imparato a utilizzare l’iperspazio senza comprendere la cosa che usavano, allora l’effetto era chiaro. A un certo momento la nave si trovava a qualche microparsec dalla Terra, il momento seguente a qualche micro parsec da Aurora.

Idealmente il balzo richiedeva un tempo zero, letteralmente zero, e se veniva eseguito in maniera perfetta, non ci sarebbe stata, né poteva esserci, alcuna sensazione biologica. I fisici tuttavia affermavano che un passaggio perfetto avrebbe richiesto un’energia infinita, e perciò c’era sempre un “tempo effettivo” non identico a zero, anche se poteva essere accorciato a piacere. Era questo che produceva quello strano ma innocuo senso di disagio.

L’improvvisa consapevolezza di essere molto lontano dalla Terra, e molto vicino ad Aurora, riempì Baley di desiderio di vedere il mondo degli Spaziali.

In parte, era il desiderio di vedere un luogo in cui la gente viveva. In parte, una curiosità naturale per qualcosa che aveva riempito i suoi pensieri in conseguenza dei microfilm letti.

Giskard entrò in quel momento con il pasto che stava a metà fra la sveglia e il sonno (il “pranzo”, quindi). «Ci stiamo avvicinando ad Aurora, signore,» disse, «ma non vi sarà possibile osservare il pianeta dal ponte. In ogni caso non ci sarebbe niente da vedere. Il sole di Aurora è soltanto una stella luminosa, e passeranno parecchi giorni prima che saremo così vicini da vedere Aurora nei dettagli.» Poi, come se ci avesse pensato meglio, aggiunse: «Ma non potrete andare sul ponte neppure allora.»

Baley si sentì stranamente imbarazzato. Apparentemente, si era previsto che avrebbe voluto osservare Aurora, e il suo desiderio era stato subito stroncato. La sua presenza non era desiderata. Disse: «Va bene, Giskard.»

Il robot se ne andò. Baley lo guardò uscire cupamente.

Quante altre restrizioni avrebbe dovuto sopportare? Un successo della sua missione era già improbabile, ma ora cominciava anche a chiedersi in quante possibili maniere gli Auroriani avrebbero cospirato per renderla impossibile.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I Robot Dell'Alba
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