Ottantaquattro

«Glielo chiederò un’altra volta, signorina Cohen».

La poca pazienza che il colonnello Von Strassen aveva stava evaporando in fretta.

«Cos’altro vuole che le dica?», rispose Abby. «Gliel’ho già spiegato. Erano Bibbie, soltanto Bibbie: un libro dei Salmi per Leonard e un Nuovo Testamento per Luc. Non gli ho dato nessuna mappa. Nessun contatto fuori dal campo. Io non ho conoscenze. Non so dove siano diretti. Sì, sapevo che sarebbero scappati e sì, ero felice per loro, e anche un po’ spaventata. Però non ero coinvolta nella pianificazione».

«Non fa che ripetere le stesse cose», disse Von Strassen, fumante di rabbia.

«Perché è la verità».

«Perché sono bugie! Perché deve coprire la verità e attenersi alla storia. Forse pensa che non ci saranno conseguenze. Da quanto tempo si trova ad Auschwitz, signorina Cohen? Pensa davvero di poter mentire al Führer e ai suoi rappresentanti e di rimanere impunita?».

Von Strassen fece un cenno con la mano destra e Louie il grassone aprì la porta della cella. Due guardie trascinarono fuori il corpo martoriato di Josef Starwolski e lo gettarono davanti ad Abby. Lei trasalì e voltò la testa, ma Von Strassen l’afferrò da dietro e la forzò a guardare l’uomo steso a terra.

Josef stava ancora respirando.

Von Strassen annuì e una delle guardie gli sollevò la testa in modo che lei potesse vedere la sua faccia tumefatta, coperta di sangue e sfigurata.

«Ultima occasione, signorina Cohen», le sussurrò all’orecchio con la confidenza di un amante.

Abby scoppiò a piangere. «Non so che altro dire», mormorò, incapace di asciugarsi le lacrime che le bagnavano il viso perché aveva le mani incatenate. «È la verità. La prego…».

Von Strassen fece altri due giri attorno alla sua sedia come uno squalo che si prepara ad attaccare. Poi tirò fuori la sua Luger e l’appoggiò alla tempia destra di Josef. «Ha cinque secondi, signorina Cohen. Mi dica dove sono diretti i suoi amici. Mi dica chi sono i loro contatti. Voglio la verità o sparerò al suo amico – e complice – e gli farò schizzare il cervello dalla testa proprio davanti ai suoi occhi. E poi porterò qui ogni infermiera che lavora alla clinica e le sparerò, ogni dottore, ogni persona che lavora al Canada, finché lei non mi dirà quello che voglio sentire».

«Non farlo», sussurrò Josef con una voce udibile a malapena. «Non per me. Dio li giudicherà. Tutti quanti».

«Uno…».

Abby singhiozzava. «Non posso. Vi ho già detto tutto quello che sapevo».

«Due…».

«Per favore, basta», implorò lei.

«Tre…».

Scongiurò Von Strassen di avere pietà. «Non punisca Josef, la prego. Non posso dirvi quello che non so. Non posso aiutarvi. Io…».

«Quattro».

E così Abby Cohen capitolò. «Va bene, va bene!», gridò. «Leszek. Si incontreranno con Leszek».

«No!», pianse Josef.

«Dove?», domandò Von Strassen, abbassando la pistola. «Dove si incontreranno?»

«Płon´sk».

«Vicino a Varsavia?»

«Sì, sì, c’è una fattoria laggiù, non lontano da un monastero. Non conosco la strada. Ma è lì che sono diretti. È da lì che Leszek guida una cellula della Resistenza. Stanno mettendo da parte delle armi per venire qui e attaccare. Ma vi prego, Josef non sa niente di tutto ciò. Vi scongiuro, lasciatelo andare».

«Le auguro che sia la verità, signorina Cohen», disse Von Strassen.

«Lo è», insistette lei. «Ora per favore smettetela di fargli del male. Lasciatelo andare. Lui non ha fatto nulla».

«Scopriremo la verità abbastanza presto», rispose Von Strassen. «Manderò un messaggio alla Gestapo di Varsavia e chiederò di investigare. E se sta mentendo, la impiccherò davanti a tutto il campo. Mi ha capito?».

Ora Abby singhiozzava fuori controllo, tuttavia annuì.

«Bene», disse Von Strassen. «Ora, tanto per assicurarci che non ci siano incomprensioni…».

Alzò di nuovo la Luger, la appoggiò contro la tempia di Josef e premette il grilletto.

 

Fuga da Auschwitz
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