Cinquantadue

Agosto 1943

 

Agosto fu un mese brutale.

Per diverse settimane di fila le temperature raggiunsero i quaranta gradi, decisamente sopra la norma secondo Josef. Non c’era un filo di vento. Nemmeno una brezza leggera. Le zanzare si erano scatenate e così le mosche.

Le notti all’interno del Blocco 18 erano soffocanti e insopportabili quasi quanto lavorare sotto il sole cocente per dodici ore di fila. Jacob non aveva mai abbastanza acqua da bere o cibo da mangiare. Sempre più disidratato e affamato, soffriva di mal di testa intensi e di rado sentiva il bisogno di urinare. Quando riusciva, provava dolore e il liquido che produceva era di uno strano color ambra.

Per Jacob era sempre più difficile alzarsi dal letto la mattina, nonostante le urla e gli insulti incessanti di Gerhard. Josef disse che stava cercando una posizione disponibile nell’ufficio dell’archivio per la quale raccomandare Jacob, ma finora non si era aperto niente. E per quanto Josef ci provasse, non trovò nessun kapo disposto a sollevare il compagno dai lavori alla Buna e a riportarlo all’interno.

La situazione si era fatta così drammatica che Josef dava a Jacob la sua tazza di tè a colazione ogni mattina e metà della sua già scarsa porzione di zuppa a cena ogni sera. Jacob all’iniziò protestò e si oppose ma poi, sempre più debole, accettò con riluttanza l’offerta, anche se era imbarazzato di non poter ricambiare il favore.

Poi, una sera, Jacob vide un viso vagamente familiare nella mensa.

Non riusciva a ricordare il nome dell’uomo che serviva con il mestolo le misere porzioni di zuppa da un largo pentolone di metallo. Mentre la fila procedeva, Jacob si sforzò di associare un nome alla faccia. Veniva da Siegen? Forse no, altrimenti se lo sarebbe ricordato subito. Era uno degli uomini che lavoravano nelle fabbriche dello zio Avi? O qualcuno di Bruxelles? Della Resistenza? O di una delle città da cui erano passati? Viveva forse in una delle case dove lui e i suoi amici erano stati ospitati?

Quando Jacob raggiunse la cima della fila, l’uomo annuì con educazione ma non salutò e non lasciò trasparire nulla. Tuttavia servì una porzione più che generosa nella tazza di Jacob, riempiendola fino all’orlo. Jacob fissò il contenuto e poi guardò l’uomo. Ma quello non ricambiò l’occhiata e anzi, sembrava ansioso che scorresse oltre.

Jacob si sedette a un tavolo lì vicino e guardò la tazza. Non solo era piena di brodo fino all’orlo, ma era anche zeppa di pezzi di carota patate e persino di cavolfiore. Jacob si tuffò senza perdere un secondo. Era insulsa come sempre, ma comunque più buona del solito. La divorò e rifletté sul suo colpo di fortuna.

La mattina successiva trovò lo stesso uomo, stavolta incaricato di servire porzioni di pane. Quando fu il turno di Jacob, l’uomo annuì di nuovo ma distolse in fretta lo sguardo. Poi strappò un pezzo di pane più grande di quello che servì agli altri, anche se non abbastanza da farsi scoprire. Ma Jacob se ne accorse e, seduto a mangiare, si chiese ancora una volta chi fosse quel tizio e perché gli dimostrasse una simile gentilezza.

Il mistero andò avanti per una settimana. L’uomo non era sempre lì, ma comunque per la maggior parte dei giorni. Jacob non aveva ancora trovato il coraggio di rivolgergli la parola. Non voleva attirare attenzione indesiderata e di certo non voleva che le porzioni diminuissero. All’uomo non sembrava dispiacere che Jacob non lo ringraziasse. Anzi, pareva nervoso al pensiero che Jacob potesse dire o fare qualche sciocchezza. Quindi Jacob si limitava ad annuire e a divorare tutto quello che gli veniva messo nel piatto.

Poi una sera Josef tornò a letto con una mela che era riuscito a rubare. Quando gliela diede, Jacob non credette ai suoi occhi.

«Dove… Come…», balbettò.

Josef non lo disse. Lo invitò con un cenno a mangiarla, prima che qualcun altro nella stanza lo vedesse e lo attaccasse per rubarla. Erano accadute cose terribili. Nelle settimane precedenti, un vecchio era stato aggredito da due giovani perché si era portato dietro dalla mensa un pezzo di pane. Lo avevano picchiato fino a fargli perdere i sensi, poi si erano azzuffati fra loro per il bottino finché Gerhard non era sopraggiunto con diverse guardie per separarli. I due erano stati spediti in punizione e non avevano mai più fatto ritorno.

Jacob chiuse la bocca e divorò la mela.

Grazie a Josef e all’uomo misterioso della mensa, forse stava assumendo qualche caloria in più al giorno. Data l’intensità del carico di lavoro alla Buna, certo non stava mettendo su peso, ma almeno non ne perdeva.

Perché? Jacob era grato di quella piccola fortuna, però era scettico per natura. Doveva sapere chi era quell’uomo e perché gli stava facendo un simile favore.

 

Dopo agosto venne settembre e finalmente l’ondata di calore si arrestò.

I giorni diventarono meno infernali e grazie a Dio la brezza si faceva sentire di più. Presto le zanzare e le mosche scomparvero e l’atmosfera divenne sopportabile, almeno dal punto di vista meteorologico.

Le temperature più fresche non impedivano tuttavia ai prigionieri di morire intorno a Jacob nel cantiere della Buna. Anzi, sembrava che lui e i suoi compagni trascorressero più tempo a occuparsi dei corpi dei deceduti che a colare cemento, posare legno, costruire telai di porte e finestre o cose simili.

Poi una sera, mentre Jacob era in fila per la cena, l’uomo che distribuiva la zuppa gli diede solo una porzione regolare. Sorpreso, Jacob guardò la tazza, poi l’uomo.

«Devi andare alla clinica medica», disse lui.

 

Fuga da Auschwitz
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