Trentuno

22 aprile 1943

Campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau, Polonia

 

Quello che Jacob vide lo annientò.

Stava sbirciando dalla fessura sottile in cima al vagone. Davanti a lui c’era un complesso che si espandeva a macchia d’olio, circondato da filo spinato e da enormi torri di guardia con soldati che gli puntavano addosso mitragliatrici .50 e fucili da cecchini. Oltre il recinto c’erano file su file di edifici a tre piani che sembravano caserme dell’esercito o dormitori. Distante, vide un’enorme ciminiera. Spesso, acre fumo nero sbuffava dalla cima insieme a qualche fiamma. L’edificio sottostante sembrava troppo piccolo per essere una fabbrica, e Jacob si chiese di che diavolo si trattasse.

All’improvviso lo sportello del carro bestiame si aprì e lui e gli altri rimasero accecati da un’ondata di luce che non vedevano da quasi tre giorni. A Jacob parve di sentire della musica, niente meno che un walzer viennese.

Mentre i suoi occhi si adattavano, vide una fila di soldati armati che gli urlavano addosso. Ordinavano a tutti di lasciare sul treno i loro effetti personali e di iniziare a scorrere in fretta sulla banchina, poi giù lungo la rampa di legno. Lì vennero divisi in due gruppi: uomini da una parte, donne dall’altra. Chi esitava veniva prontamente bastonato dai soldati, che non facevano che rigurgitare oscenità. E poi, per assurdo, dietro ai soldati, nel mezzo del cortile, Jacob vide una piccola orchestra, strumenti a corda inclusi, che suonava una musica bellissima come se tutto fosse normale e stessero andando in vacanza.

Jacob prese per mano il signor Eliezer, lo aiutò ad alzarsi e a camminare verso l’uscita.

«La mia borsa», si lamentò l’uomo.

«Lasciala», ordinò una guardia, che usò un manganello per colpire il vecchio alle costole.

Il sangue gli andò al cervello. Strinse la mano a pugno, ma il signor Eliezer si riprese in fretta e gli assicurò che stava bene. La guardia entrò nel vagone per picchiare altri passeggeri e mentre si sfogava il signor Eliezer ne approfittò, spingendo Jacob verso il resto della folla, dove insieme si allinearono dietro altre persone che erano scese prima di loro dal convoglio.

«Stai al gioco, figlio mio», sussurrò. «O non arriveremo all’ora di pranzo».

Jacob non disse nulla. Fece come gli era stato ordinato, ma il suo istinto e la sua preparazione gli suggerirono di iniziare a studiare possibili vie di fuga. Il dispiego di forze naziste, però, rendeva ogni progetto inverosimile. Il sistema più facile per scappare sarebbe stato forse quello di nascondersi nel treno con cui erano arrivati, ma ovviamente era impossibile. I carri bestiame venivano setacciati con cura dalle guardie armate e dai cani, e altri uomini arrivarono per togliere bagagli, pacchi ed effetti personali e poi ripulivano e disinfettavano ciascun vagone, gettando altro fieno a terra.

Soldati armati fino ai denti erano dappertutto. Ce n’erano a centinaia. E ora che guardava con più attenzione, Jacob notò che il recinto di filo spinato che correva attorno al campo non era composto da una fila sola, bensì da due. Se anche un prigioniero fosse riuscito a scappare e a saltare, o a strisciare sotto la prima recinzione senza che gli sparassero, sarebbe stato crivellato prima di raggiungere la seconda.

Jacob si concentrò su problemi più immediati. Perché li dividevano per gruppi? Le file si muovevano in ordine, ma Jacob e il signor Eliezer erano verso il fondo e davanti avevano centinaia di persone, dunque erano quasi fermi. In cima alla fila c’erano due uomini con addosso camici da laboratorio – dottori? – ciascuno con in mano un blocco d’appunti e affiancato da diversi assistenti. Uno si concentrava sugli uomini, l’altro sulle donne. Dietro di loro c’erano due uomini in uniforme, uno dei quali sembrava il capo.

L’uomo ordinò ad alcune persone di andare verso destra. Altri vennero mandati a sinistra. Chiunque aprisse bocca veniva picchiato senza pietà. Ogni prigioniero che osava girare la testa verso le donne veniva bastonato – non un semplice colpo, ma diverse bastonate impietose. Jacob vide almeno una dozzina di uomini e due donne pestati a sangue, uno dei quali poco più avanti di lui. Negli ultimi anni aveva già visto la morte, anche da vicino, ma mai così spaventosa. Osservò inorridito mentre bizzarri uomini emaciati con addosso uniformi a strisce bianche e nere e cappelli coordinati sbucavano dal nulla. Raccoglievano i corpi massacrati e coperti di sangue e li ammassavano su un carro come se fossero pezzi di legno. Poi li portavano via, scomparendo dietro un angolo, lontano dalla vista.

A Jacob si rivoltò lo stomaco vuoto, ma si sforzò di non vomitare, temendo di provocare un pestaggio. Non si voltò né a destra né a sinistra. Alzò la testa verso il cielo e si lasciò distrarre dal tempo. Era una bellissima giornata, in severo contrasto con l’umore e il momento. I cieli della Polonia del sud erano luminosi e di un blu abbagliante. Non c’era una nuvola e il sole primaverile gli scaldava il viso. Una brezza leggera faceva frusciare le bandiere con la svastica, che ogni tanto sventolavano appese alle loro aste. La trovò quasi rinfrescante.

Almeno non era bollente o gelida. Ma la sete di Jacob cresceva impietosa. A parte i succhi della mela che il signor Eliezer gli aveva dato sul treno, Jacob non inghiottiva dei liquidi da quando il lunedì sera erano partiti per la missione e ora iniziava a patirne gli effetti. Tuttavia era giovane, forte, determinato a mantenere una coraggiosa compostezza di fronte al male che lo attendeva. Quanto a lungo avrebbero resistito gli anziani e gli infermi in simili condizioni? Di certo gli avrebbero dato cibo e acqua ora che erano arrivati a destinazione. Altrimenti come avrebbero fatto a essere utili in un campo di lavoro per schiavi?

All’improvviso la direzione del vento cambiò e Jacob sentì una zaffata di odore, la puzza più ripugnante che avesse mai annusato.

Era fumo, ma non fumo normale. Legno, foglie e forse rifiuti. Cos’era? Da dove arrivava? Forse, pensò, dalla ciminiera gigante che aveva visto prima.

Fuga da Auschwitz
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