Quarantadue
A mezzogiorno suonò il gong che segnava la pausa del pomeriggio.
Anche se avevano appena iniziato a passare in rassegna i bagagli, almeno i vagoni erano stati svuotati e ripuliti, disinfettati con cura e cosparsi di fieno. Perciò, quando il motore fosse stato caricato a sufficienza di carbone, il treno sarebbe ripartito verso nuove destinazioni per raccogliere altri carichi di ebrei.
«Dài», disse Max. «Le guardie terranno d’occhio tutta quella roba. Andiamo a mangiare».
«Non posso», rispose Jacob.
«Che significa non puoi?»
«Non ho fame».
«Allora non sei qui da parecchio tempo».
«Quei bambini», sussurrò Jacob, ma Max lo interruppe con un gesto della mano.
«Basta».
«Che vuoi dire?»
«Voglio dire smettila».
«Smettila di fare cosa?»
«Di parlarne».
«Perché no?»
«Perché non puoi permetterti di pensarci», disse Max.
«Come faccio a non pensarci? Stanno uccidendo…».
Stavolta Max fu perentorio. «Ho detto basta».
«Non posso, devo pensarci», ribatté Jacob.
«Non devi, invece. Qui succedono cose terribili? Sì. Mi importa? Certo che sì. Sono il figlio di un rabbino, figlio della Parola. Nel cuore della notte, quando nessuno mi vede, piango anch’io, proprio come te. Però non posso farci niente e nemmeno tu. Allora perché rimuginarci sopra? Perché cercare di dare un senso alla follia? Non ne ha e basta. È orribile, disgustosa, crudele, malvagia. L’unico modo per sopravvivere è pensare ad altro, qualunque altra cosa. Non vivere nel presente. Non indugiare nel passato. Sogna il futuro. Immagina una scena nella tua testa. Aggrappati a quella e non lasciarla andare».
E così la conversazione finì. Max aveva detto la sua.
Entrarono nella mensa. A ciascuno venne data una tazza di metallo con della zuppa, se si poteva chiamare così. Consisteva in mezza tazza di acqua sporca con del cavolo bollito, un pezzo di carota e, se eri fortunato, un piccolo pezzo di patata, accompagnata da un tozzo di pane e un po’ di margarina.
Max la divorò all’istante e bevve anche il tè.
Jacob guardò la brodaglia, così poco appetitosa da essere rivoltante. Si guardò intorno e vide i nuovi venuti allontanare i piatti. Invece chi era lì da più di una settimana non solo trangugiò la zuppa all’istante ma anche tutto quello che gli altri sciocchi lasciavano da parte.
Jacob rosicchiò il pane cercando di non pensare alla segatura che gli finiva in gola e stava per spingere via la zuppa quando vide Leszek entrare nella stanza. Il kapo si diresse verso di lui e, senza dire niente, indicò con il dito la tazza, alzò un sopracciglio e si allontanò.
Jacob recepì il messaggio: lì dentro sopravviveva solo chi era forte, ed eri forte se mangiavi il cibo che ti davano. Non c’era altra scelta. Era la legge della giungla. Era una regola inviolabile a cui doveva ubbidire se voleva rimanere nel Canada.
Quindi ubbidì. Trattenendo il respiro bevve la zuppa e finì gli ultimi bocconi di pane nella speranza che neutralizzassero il disgustoso retrogusto del liquido.
Non funzionò.
Appena finirono, Max si diresse verso la porta.
Jacob affrettò il passo, attento a non correre o a non fare movimenti azzardati che potessero innervosire le guardie.
«Dove vai?», gli chiese quando lo raggiunse.
«A fare una passeggiata»
«Una passeggiata?»
«Sì, una passeggiata», ripeté Max.
«Perché?»
«È più prudente di una corsa».
«Ma… ti lasciano andare in giro da solo?»
«Finché il gong non suona all’una, sì», rispose Max.
«Perché?»
«Perché cosa?»
«A che scopo ci lasciano camminare?».
Max non rispose. Si limitò a scuotere la testa, come se la risposta fosse ovvia.
Non lo era, non per Jacob. Non insistette oltre, anzi cambiò argomento. «Leszek», disse. «Da dove viene?»
«Un nome come Leszek e non lo capisci?», chiese Max.
«Polonia, deduco, ma dove? Che città?»
«Non farei troppe domande su Leszek. Alcune cose è meglio non saperle», disse Max, criptico.
Jacob era confuso. Max era un tale chiacchierone, allora perché era così riservato quando si trattava di Leszek? Argomento chiuso, pensò Jacob. Quello che aveva bisogno di sapere, di sicuro Max gliel’avrebbe spiegato a tempo debito. Continuarono a camminare per un po’ e presto Max riprese a parlare.
«Devi essere determinato, Jacob», esordì.
«Cosa vorresti dire?», chiese lui.
«Che devi essere determinato se vuoi sopravvivere in questo posto», continuò Max.
«Lo sono».
«No, non è vero».
«Sì invece».
«No, Jacob, non lo sei», ripeté Max. «Se lo fossi, mangeresti tutto quello che vedi. Berresti tutto, tranne l’acqua delle docce. Mangeresti quel che puoi, ogni volta, qualunque cosa ti danno. Capisci?».
Jacob annuì.
«Io sono determinato», continuò Max. «Leszek vede del potenziale in te. Non capisco perché. Gli ho chiesto: “Perché Weisz ti piace tanto? Cosa ci vedi di tanto speciale in lui?”, e lui non ha risposto. Di te non dice niente, e sa che non mi dirai niente neppure tu perché non parli mai. Ma conosce delle cose su di te. Ecco perché ti ha scelto e credimi, è un tipo molto schizzinoso. Sta costruendo qualcosa, Jacob, qualcosa di molto interessante. Non posso ancora dirti niente. Mi ha fatto giurare di stare zitto. E per me non è facile, come sai, perché io sono il figlio di un rabbino. Sono un chiacchierone. Però ho dato a Leszek la mia parola e per me è una cosa sacra. Comunque, se continuerai a fare il tuo lavoro e a tenerti fuori dai guai, renderà partecipe anche te. Me lo sento. Ha dei piani per te. Per entrambi, credo. Ecco perché ci ha accoppiati. Quindi dobbiamo guardarci le spalle l’un l’altro. Prenderci cura l’uno dell’altro. Io sono qui solo da quattro mesi, eppure ho visto morire quasi tutti i compagni del mio blocco. Alcuni di dissenteria, altri di fame. Altri, be’, lo sai. Non ce la facevano più e sono corsi verso la recinzione. E per qualche ragione Leszek ha individuato me, mi ha visto lavorare, mi ha visto sopravvivere, ha ritenuto che potessi cavarmela, nonostante lo trovasse sorprendente per il figlio di un rabbino. Pensa che la maggior parte di noi ragazzi della yeshivah siamo dei mollaccioni e forse ha ragione. Però ha detto che in me ha visto qualcosa. Quindi a gennaio mi ha prelevato dal distaccamento delle costruzioni dove lavoravo, spaccandomi la schiena per tutto l’inverno nelle condizioni più miserevoli che puoi immaginare. Stavamo costruendo un nuovo crematorio sotto le tempeste di neve, faceva un freddo cane, sul serio. Solo due uomini della mia divisione non sono morti. Hanno continuato a rimpiazzare i defunti e anche i nuovi continuavano a morire. Poi però, dal nulla, Leszek mi ha tirato fuori da lì. Mi ha fatto riassegnare al Canada. Ha iniziato a darmi da mangiare e… be’, sono sopravvissuto».
Max all’improvviso si fece silenzioso. Jacob pensò alle parole dell’amico mentre continuavano a camminare oltre l’ingresso del campo. Per la prima volta Jacob notò la scritta in ferro battuto sopra la porta che bloccava la strada che arrivava ad Auschwitz. ARBEIT MACHT FREI: il lavoro rende liberi. In un campo di lavoro, dove la prospettiva di vita andava dagli otto minuti alle otto settimane, pensò Jacob, lo slogan dei nazisti non era ironico, era crudele.
«Comunque, non fare qualcosa di stupido che rovini tutto, Jacob», disse Max, la voce più tranquilla e rassegnata del solito. «Non commettere sciocchezze e chi lo sa? Forse sopravvivrai. Forse sopravvivremo entrambi».