Quarantanove
Il lunedì mattina del 26 aprile il temporale era passato.
Terminata la colazione e in fila per l’appello delle undici, Jacob rimase sbalordito dalla bellezza del tempo. Il sole splendeva. Il cielo era blu con bianchi ciuffi di nuvole qua e là. Per la prima volta notò quanto l’erba fosse verde. Commentò persino con Josef che i fiori stavano iniziando a sbocciare e gli alberi germogliavano.
Di nuovo, l’appello procedette senza sorprese. Jacob non sapeva se era più confuso o preoccupato.
Quando arrivò al commando Canada, incredibilmente si trovò davanti Leszek, che lo salutò come di consueto. Che diavolo stava succedendo? Stava per dire qualcosa, poi arrivò Max che gli lanciò un’occhiataccia, intimandogli di tenere la bocca chiusa. Insieme divorarono qualche arancia e del pane senza parlare di nulla di importante. Poi Leszek li mandò al piano terra a catalogare e mettere via una catasta di pellicce, giacche e stole che non avevano finito di sistemare il sabato.
A Jacob parve di notare un numero maggiore di guardie in giro per il magazzino. Tutte avevano gli occhi iniettati di sangue e puzzavano di vodka. Non sembravano prestare attenzione, ma non una sola volta durante la giornata – comunque più tranquilla della settimana precedente – Jacob trovò occasione per parlare con Max di Leszek. Piuttosto, si limitò a stare ad ascoltare l’amico che farneticava di qualche oscuro passaggio delle Scritture ebraiche che Jacob non aveva mai sentito e del quale non gli importava niente.
Per almeno un’ora, Max raccontò del profeta Naum e delle sue profezie contro la gente di Ninive che apparentemente era la «capitale maligna del maligno impero assiro». Poi Max si dilungò su come le profezie del giudizio si avverarono nel 612 a.C., quando Ninive fu completamente e inesorabilmente distrutta. A Jacob quelle storie non interessavano affatto, ma forse Max stava solo cercando di sembrare normale di fronte alle guardie.
E poi accadde.
Alle sei e mezzo in punto di lunedì sera, le sirene iniziarono a suonare. Jacob era frastornato e più terrorizzato che mai. Credette di sentire degli spari, anche se nella confusione e nel trambusto non ne era sicuro.
Non sapendo cosa succedesse in situazioni del genere, seguì la folla di ritorno verso le caserme e vide Gerhard che gridava a tutti di mettersi in fila per essere contati. L’appello della sera doveva essere dopo mezz’ora, quindi era chiaramente successo qualcosa di insolito. Jacob sperava che si trattasse di ciò che aspettava con ansia da ventiquattr’ore. Si augurava – o forse no – che il suo amico Leszek Poczciwinski fosse in fuga. Non capiva proprio perché Leszek non se ne fosse andato la sera prima, ma ora si era mosso e Jacob gli augurava buona fortuna.
Nel campo si sparse il fermento, a mano a mano i prigionieri si rendevano conto che qualcuno mancava e che forse quella persona aveva provato a scappare.
Mentre Jacob stava in piedi sull’attenti insieme al resto dei prigionieri del suo blocco, osservò con attenzione le reazioni a un tentativo di fuga. Centinaia e centinaia di truppe armate fino ai denti correvano dalle loro caserme verso posizioni prestabilite in giro per il campo, mentre truppe scelte uscivano in massa dai cancelli in cerca del fuggiasco. Sentiva abbaiare i pastori tedeschi che erano stati liberati per la caccia. Vide proiettori accendersi e la luce intensificarsi su tutte le torri di guardia e passare al setaccio il perimetro del campo.
Jacob aveva un nodo allo stomaco. Si era preparato per rimanere all’aria fredda della sera per qualche ora in più, era più forte e in salute della maggior parte degli uomini del Blocco 18. Quello che non aveva messo in conto era il divieto imposto dal comandante Höss ai prigionieri di tornare alle proprie camerate o addirittura di sedersi, men che meno sdraiarsi o muoversi finché i fuggiaschi non fossero stati catturati ed eliminati.
Höss aveva detto fuggiaschi? Al plurale? Il battito del suo cuore accelerò. Quindi non si trattava di un unico disertore. Gli uomini in fuga dovevano essere almeno due, forse di più. Ogni prigioniero non solo si stava chiedendo di chi si trattasse e come avesse fatto, ma tifava per gli evasi. Il loro successo sarebbe stato di incoraggiamento per tutti quanti. Jacob si chiese se gli uomini insieme a Leszek fossero Otto Steinberger e Abe Frenkel.
Gli sembrava strano che Leszek avesse presentato a lui e a Max due persone che se ne sarebbero andate subito e che potenzialmente sarebbero morte. Che senso aveva? Ma di chiunque si trattasse, nessuno era ancora stato fucilato né era rimasto fulminato dalle recinzioni. Erano riusciti a superarle e a uscire dal campo. Ecco perché le truppe erano state dislocate all’esterno.
Gli venne un altro pensiero. E se Max fosse stato fra i fuggiaschi? E sua sorella Abby?
Passarono due ore, poi tre, poi quattro e cinque. In un certo senso era una buona notizia. La caccia all’uomo era ancora in corso. Nessun corpo era stato trascinato indietro. Leszek Poczciwinski e chiunque fosse con lui era ancora libero. Ma il tributo che gli altri stavano pagando iniziava a diventare evidente. I prigionieri attorno a Jacob avevano sempre più freddo, erano stanchi e sembravano sul punto di perdere i sensi. A chi soffriva di diarrea non restò che farsela addosso. Chi si lasciava andare veniva picchiato. I prigionieri facevano del proprio meglio per incoraggiarsi a vicenda. Imploravano i compagni di farsi forza e di non mollare sotto la pressione della fatica. Tuttavia molti non resistettero e vennero picchiati con una brutalità che Jacob non aveva mai visto. Le guardie sembravano sfogare la loro rabbia contro i prigionieri in fuga su quelli che erano troppo deboli per stare in piedi.
All’una del mattino Jacob iniziò a ondeggiare, ormai incapace di tenere unite le ginocchia. Oscillava fra il sonno e la veglia. A un certo punto chiuse gli occhi abbastanza a lungo da iniziare a sognare. Vide Leszek che beveva il tè a Londra insieme al primo ministro Winston Churchill, che raccontava ciò che aveva passato e che tracciava un piano per mandare un’unità di salvataggio a liberare i prigionieri. Poi si svegliò di colpo e si ritrovò a barcollare in avanti, sul punto di collassare. Stava per perdere i sensi quando all’improvviso un colpo di pistola assordante gli passò vicino all’orecchio. Aprì gli occhi appena in tempo per vedere un prigioniero cadere a terra con un buco in testa. Era l’uomo che dormiva nel letto sotto di lui e Josef, quello con i crampi addominali. Sangue e cervello schizzarono dappertutto. Jacob era paralizzato dalla paura, ma almeno si era svegliato completamente e rimesso in piedi. La guardia che aveva premuto il grilletto ordinò a Gerhard e a un altro responsabile di blocco di trascinare via il corpo, e intanto si sparse la voce che Von Strassen aveva concesso alle guardie il permesso di sparare a qualunque prigioniero ritenuto troppo debole per rimanere in piedi. Colpi di pistola iniziarono a tuonare ovunque.
Alla fine, all’alba, Von Strassen permise agli uomini di tornare alle camerate fino all’appello speciale della mattina, un’ora e mezza più tardi. Jacob era troppo delirante a causa della fatica per preoccuparsi di avere solo novanta minuti per dormire prima di doversi di nuovo rimettere sull’attenti. Si trascinò dietro a Josef verso la camerata e saltò sul letto. Prima di addormentarsi ripensò a Poczciwinski. Ce l’aveva fatta? Era davvero libero? Era riuscito a sgattaiolare fuori dalle porte dell’inferno?
Probabilmente sì, pensò Jacob. Non c’era altra ragione perché permettessero agli uomini di tornare a letto. E per la prima volta dal suo arrivo ad Auschwitz, si addormentò con un accenno di sorriso sul volto.