Quarantasette

«Perché quella cosa?», chiese Jacob a Max a pranzo.

«Proprio non lo so», rispose Max, fissando la zuppa e mangiandola appena.

«Hai mai visto quei due prima?»

«Mai».

«Allora qual era il punto?»

«Ne so quanto te».

«Tu conosci Leszek da tanto».

«È ancora un mistero per me».

«Be’, cosa intendeva quando ha detto che il lavoro di Otto per noi è fondamentale?», insistette Jacob. «Perché quando Abe sarà trasferito a Birkenau “ci aiuterà” a capire cos’hanno in mente i nazisti con quella espansione? In che senso “ci”? Di che parlava?»

«Non lo so», rispose Max.

«Devi saperlo», ribatté Jacob, che non se la beveva.

«Be’, invece no», disse Max, attento a tenere la voce bassa. «Ho i miei sospetti, però non ne sono sicuro».

«Che sospetti?»

«Non parliamone qui».

«Allora finisci la zuppa. Andiamo da qualche parte dove puoi dirmi quello che sai».

Poi ci fu un tuono, i cieli si aprirono e scese il diluvio.

«Seguimi», disse Max, e scattò un’altra volta verso la clinica medica.

A Jacob non andava di correre, aveva visto cosa succedeva ai prigionieri che insospettivano le guardie. Ma mentre la pioggia cadeva sempre più intensa tutti, guardie e prigionieri, iniziarono a correre in cerca di un riparo.

Jacob fece uno scatto sul sentiero fangoso e si ritrovò insieme a Max nell’atrio della clinica. L’amico rimase sorpreso e preoccupato nel trovare dietro il bancone un uomo dai capelli biondi e occhi azzurri con gli occhiali.

Doveva essere sulla trentina, pensò Jacob, ed era chiaramente un prigioniero. Portava l’uniforme obbligatoria a strisce e un numero bluastro tatuato sul braccio sinistro. Era chiaro che non era chi Jacob si aspettava di vedere.

«Posso aiutarti?», chiese l’uomo.

«Dov’è mia sorella?»

«Intendi Abigail? È tua sorella?»

«Sì, ma tu chi sei?».

L’uomo si alzò e allungò una mano. «Tu devi essere Max. Ho sentito molto parlare di te».

«E io non ho sentito niente di te», rispose Max, ignorando la mano.

«Sono nuovo. Arrivato qualche giorno fa. Mi hanno assegnato a questo lavoro. Mi chiamo Leclerc – Jean-Luc Leclerc – ma tutti mi chiamano Luc. È un onore incontrarti».

«Conosci Abby?», chiese Max, cauto.

«Certo», rispose Luc. «Mi ha insegnato tutto, non solo sulla clinica ma anche sugli amici che ha nel campo. Mi ha detto che probabilmente ti avrei incontrato stamattina. Dice che di solito arrivi alle dieci di ogni domenica. Ci siamo dispiaciuti quando non ti abbiamo visto».

«Dov’è adesso?»

«Il dottor Mengele aveva bisogno di qualche scorta, bisturi e cose del genere», spiegò Luc. «Abby si è offerta di occuparsene. Volevo andare io, non mi andava che si bagnasse sotto la pioggia. Ma lei è stata categorica. Ha detto che sono nuovo e temeva mi sarei perso. Mi ha chiesto di aspettarla qui».

«Da quanto è via?», chiese Max.

«Dieci minuti, forse quindici», disse Luc. «Credo che tornerà da un momento all’altro».

Max borbottò qualcosa, poi prese Jacob per il braccio e lo condusse verso il retro della clinica. «I dottori ci sono?».

Luc scosse la testa. «Sono a pranzo. Posso aiutarvi io?»

«No», rispose Max. «Aspettiamo Abby dentro. Assicurati che nessuno ci disturbi. Abbiamo cose importanti di cui parlare».

Quando entrarono nell’ultima stanza, un laboratorio per le analisi, Max chiuse la porta. «Siediti», ordinò. Jacob ubbidì e Max iniziò a camminare avanti e indietro. «Primo, non ammalarti mai. Hai capito? Mai».

«Perché no?»

«Bene, è tutto quello che devi sapere», disse Max. «Secondo, non venire mai in questa clinica senza di me. Mai. Non se hai il raffreddore. Non se hai l’influenza. Non se hai la dissenteria. Non se hai le pulci. Non se ti rompi un braccio o perdi un occhio in una rissa. Non. Venire. Mai. Qui. Senza. Di. Me. Capito?»

«No. Di che diavolo stai…?»

«Perfetto. Siamo d’accordo anche su questo», lo interruppe Max. «Terzo, qualunque amico ti farai – amici veri, di cui ti importa qualcosa – mettilo subito in guardia su questo posto. Se li mandano qui a lavorare allora va bene. Ma in nessuna circostanza un vero amico deve venire qui per essere curato. Nemici? Certo. Conoscenze? Pazienza. Ma non gli amici».

Jacob ancora non capiva. Il posto sembrava pulito, in ordine. C’erano dozzine di letti con lenzuola fresche e cuscini. C’erano armadietti chiusi pieni di medicine di ogni genere, varie attrezzature mediche e persone abbastanza gentili all’accoglienza. Qual era il problema? Provò a domandare di nuovo, Max però si rifiutò di argomentare, disse solo che Jacob non avrebbe mai, in nessuna circostanza, dovuto accettare un invito da parte del dottor Mengele.

«Perché no?», chiese Jacob.

Max si limitò a rispondere: «Se ti ordinano di incontrare Mengele, buttati sul filo spinato».

Fu tutto. Poi Max si chinò verso di lui, abbassò la voce e tornò al discorso principale.

«Jacob, puoi tenere un segreto?», chiese, cercando negli occhi dell’amico una qualunque traccia di resistenza o imbroglio.

Jacob annuì e si sporse a sua volta in avanti.

«Le cose stanno per cambiare qui dentro», disse Max.

«In che senso?»

«Leszek va via stasera».

«Va via? Cosa significa che va via?»

«Scappa», mormorò Max con una voce udibile appena.

Jacob si irrigidì, incapace di credere a ciò che aveva appena sentito. «Come? Quando?», domandò.

«Non conosco i dettagli». Jacob gli credette. «So solo che succederà e che la cosa toccherà anche noi».

«Come?»

«Von Strassen e i suoi uomini ci daranno la caccia, a noi e agli altri del Canada. Daranno per scontato che c’entriamo qualcosa. Di sicuro ci interrogheranno. Forse ci tortureranno anche».

Jacob iniziava ad agitarsi.

«Ma noi dobbiamo essere forti. Non dobbiamo aprir bocca e basta. Sai, Leszek è capitano nell’esercito polacco. Lavorava per l’intelligence del Paese. Si è offerto volontario per essere arrestato e mandato qui in modo da poter riferire quello che stava succedendo. Per gli ultimi due anni e mezzo, ha spedito messaggi in codice a diverse persone attraverso delle lettere. Ma adesso per lui è arrivato il momento di andarsene».

«Possiamo seguirlo anche noi?», chiese Jacob.

«Magari. No, purtroppo no. Gli sto dando una mano a mettere da parte delle scorte per la sua fuga, ma questo è quanto. Se riesce a uscire e se riesce a riconnettersi con il movimento clandestino polacco, allora racconterà nei dettagli tutto quello che succede qui. Convincerà la Resistenza polacca e gli Alleati a mettere in piedi un’operazione e a venire a liberarci. Se tutto andrà bene, potremmo essere fuori prima dell’estate».

Jacob era sbalordito. Era vero?

Sfortunatamente, proprio in quel momento uno dei medici tornò dal pranzo e li beccò chiusi nella stanza a chiacchierare. La faccia e le orecchie gli diventarono paonazze e una vena sulla tempia sembrò sul punto di esplodere. Il dottore gli gridò di andarsene o sarebbero stati puniti.

Non parve importargli che Max stesse aspettando sua sorella. Chiaramente erano persone non gradite e anche se Max era indignato, Jacob lo tirò fuori per paura che il dottore chiamasse una guardia e finissero nei guai.

La vita era già abbastanza complicata. Non avevano bisogno di altri problemi, non oggi.

 

Fuga da Auschwitz
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