Settantatré

2 giugno 1944

 

Le due erano già passate da sei minuti.

Jacob era in ritardo. Era rimasto bloccato in una ridicola conversazione con il responsabile del suo blocco, il quale sosteneva che qualche documento non fosse stato compilato correttamente. Promise all’uomo che avrebbe corretto l’errore più tardi e rispose che doveva consegnare alcuni rifornimenti alle guardie nel cantiere il prima possibile, altrimenti si sarebbero infuriate.

«Rifornimenti?», chiese il responsabile. «Che genere di rifornimenti?»

«Guanti», disse Jacob. «Guanti di pelle marroni. Sono molto particolari. Posso andare, adesso?»

«Perché non se li procurano da soli?», chiese l’uomo, scettico.

«Sono degli scansafatiche. Quando gli ho portato l’acqua ieri, mi hanno chiesto di trovargli altri guanti. Dovevo passare prima di pranzo ma non ho avuto tempo. Devo davvero andare».

«Fammeli vedere», ordinò il responsabile, afferrando il pacchetto da sotto il braccio di Jacob.

Jacob raggelò. Perché quelle domande? Perché i sospetti? E perché proprio adesso?

Per fortuna il pacchetto era davvero pieno di guanti in pelle marrone. Josef glieli aveva procurati dal Canada. Per la verità, Josef si era offerto di contrabbandare anche merce di maggior valore. Ma i criminali nazisti volevano guanti di pelle marrone, quindi affari loro.

Jacob cercò di non pensare a quel che sarebbe successo se il supervisore fosse stato così ficcanaso sulla cassa che aveva “portato agli uomini” il giorno prima, che conteneva gli zaini con le loro scorte. Se avesse fatto domande su quelle casse, Jacob sarebbe stato appeso con una corda attorno al collo. Forse un Dio esisteva davvero.

«Molto bene, vai pure», concesse l’uomo alla fine, soddisfatto che Jacob avesse raccontato la verità. «Ma procurane anche a me».

«Uh… certo. Di che colore?», balbettò Jacob.

«Neri, come quelli che portano i comandanti. Puoi trovarmene un paio così?»

«Non lo so, però ci provo. Potrebbe volerci qualche giorno. Va bene?»

«Bene. Fallo e basta», ordinò l’uomo. Poi lo licenziò con un gesto della mano. Jacob si girò, uscì in fretta dalla porta della baracca senza fermarsi e senza mai voltarsi indietro. Solo quando fu a qualche centinaio di metri di distanza iniziò a rilassarsi. Tuttavia era tardi: Luc e Josef dovevano essere nel panico.

Blocco di appunti sotto braccio, assicurandosi di avere l’aria di uno che lavora all’archivio – impegnato, irritato e di fretta – raggiunse infine il checkpoint e fece cenno alle guardie di lasciarlo passare. Ma anche loro iniziarono a tormentarlo. Gli posero almeno una dozzina di domande sul perché si stesse recando al cantiere quando non era assegnato a lavori di costruzione. Quando rispose che stava tenendo d’occhio alcuni uomini del suo blocco, per ordine diretto del responsabile, quelli pretesero di conoscere il nome dell’uomo in questione e perché il kapo non li stava sorvegliando a sufficienza. Passarono al setaccio il suo pacco, invidiarono i guanti e ne confiscarono due paia per sé.

Jacob non poté opporsi. Protestare non aveva senso, non quel giorno. Quindi si sforzò di essere paziente, anche se vedeva l’orologio ai loro polsi.

Erano quasi le due e mezza.

I minuti passavano e alle guardie perdere tempo sembrava non dispiacere affatto. Poi finalmente lo lasciarono andare. Non aveva detto né fatto nulla di diverso dal solito. Non accadde niente di diverso dall’ordinario. Era come se qualcuno avesse schiacciato un interruttore facendogli cambiare idea. Fu un momento bizzarro. E poi un altro pensiero bizzarro gli attraversò la mente. Forse Luc stava pregando per lui. Forse anche Abby.

Jacob si disse di rimanere concentrato. Non poteva riempirsi la testa di sciocchezze. Doveva portare a termine il suo lavoro, prestare attenzione a ogni singolo dettaglio. Uscì dal campo di Birkenau, attraversò la doppia recinzione elettrica e percorse la strada verso Birkenau-III. Una volta dentro, camminò il più in fretta possibile verso la baracca delle guardie. Avrebbe voluto correre, ma sapeva benissimo che era verboten accelerare il passo fuori dalle recinzioni. Sarebbe stata una sentenza di morte automatica, immediata. Qualche misero paio di guanti di pelle non lo avrebbe aiutato. Il meglio che poteva fare era camminare svelto.

Cinque minuti dopo raggiunse la baracca, sapendo che si sarebbe preso una tirata d’orecchie dalle due guardie che si aspettavano due paia a testa. E infatti esplosero. Almeno due di loro. Il primi due presero le loro paia e se le infilarono. Gli altri due erano lividi. Jacob cercò di spiegare cos’era successo, disse che le paia mancanti se l’erano prese le guardie ai cancelli, ma loro non stavano a sentire. Sbraitavano e deliravano e gli riversavano addosso oscenità, uno lo prese per il braccio e lo sbatté contro la parete della baracca.

Per un attimo, Jacob dimenticò della missione di fuga. Iniziò a temere per la propria vita. Era consapevole che altri compagni di prigionia erano stati picchiati per violazioni minori. Continuò a scusarsi. Li implorò di lasciarlo andare. Giurò sulla tomba di sua madre che avrebbe trovato altri guanti e che glieli avrebbe portati per prima cosa l’indomani mattina, subito dopo l’appello. Dopo un po’ sembrarono rabboniti.

«Tornerai qui con i guanti domani, niente scuse», disse uno, sputando fumo per la rabbia. «Altrimenti ti schiaccio il cranio con lo stivale. E se non ti farai vedere, ti darò la caccia e ti ammazzerò nel sonno. Non pensare che non lo farò. Hai capito?».

Jacob annuì.

«Hai… capito?», gli gridò in faccia la guardia.

«Sì, signore. Assolutamente, signore», ripeté Jacob tremante, non ancora sicuro che l’avrebbero lasciato andare.

Eppure lo fecero, quindi scattò fuori dalla baracca. Non osò andare dritto verso la catasta di legno, anche se erano quasi le due e quarantacinque. Temeva di essere tenuto d’occhio, quindi iniziò a ripercorrere la strada verso i cancelli del campo. Poi, voltando la testa per assicurarsi di avere un secondo di libertà, si infilò in una delle baracche appena costruite, uscì dall’altra parte e ripiegò verso la catasta, dove i suoi amici lo stavano aspettando.

Vide subito l’angoscia impressa sulle loro facce, ed era consapevole che anche il suo stesso terrore fosse ben visibile. Non c’era tempo per fare domande sulla loro giornata e non aveva senso che loro chiedessero niente a lui. Erano in ritardo e spaventati, dovevano muoversi. Josef si guardò in giro, poi saltò in cima alla pila proprio come Jacob aveva fatto con Steinberger e Frenkel. Una volta lassù, spostò le poche assi che formavano la tettoia del nascondiglio e tirò Luc con sé. La via era libera, Luc si lasciò cadere nel buco e scomparve. Dopodiché Josef diede una mano a Jacob, il quale si lasciò cadere a sua volta in posizione.

«Grazie, Josef», disse Jacob mentre l’amico riponeva le assi sopra le loro teste. «Ora ricorda cosa ti ho detto. Approfitta della prima occasione per scappare anche tu».

«Grazie. Lo farò, contaci», rispose il ragazzo mentre spargeva tabacco sopra le assi e anche sul terreno intorno. «Buona fortuna, ragazzi. Contiamo su di voi».

Le parole riecheggiarono nelle orecchie e nel cuore di Jacob. I suoi più cari amici al mondo contavano sul loro successo. Tutto il campo ci contava. Anche se quasi nessuno delle migliaia di prigionieri attorno a loro ne era consapevole, le loro vite dipendevano in gran misura dai prossimi passi che Jacob Weisz e Jean-Luc Leclerc avrebbero compiuto.

Era un grande onore, e allo stesso tempo una spaventosa responsabilità. Jacob non avrebbe osato deluderli.

 

Fuga da Auschwitz
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