Ventinove

«Qualcuno ha ricevuto una lettera?».

Jacob si svegliò di soprassalto. Doveva aver dormito per diverse ore. La domanda era stata posta da una donna di mezza età piuttosto sovrappeso ma dalla voce gradevole.

«Qualcuno ha ricevuto una lettera negli ultimi mesi da amici o parenti mandati in un campo di concentramento?».

All’inizio nessuno le rispose. Tuttavia il silenzio non la dissuase.

«Ascoltate», disse. «Ho ricevuto questa da mia sorella. L’hanno mandata ad Auschwitz qualche mese fa».

Jacob rimase in ascolto mentre la donna iniziava a leggere.

«Carissima Lara, mi manchi tantissimo e vorrei tanto riunirmi a te, vedere il tuo viso e sentire la tua risata contagiosa. Non essere triste per me, però. La vita qui ad Auschwitz è dura ma equa. Io ho un buon lavoro alla panetteria, anche se vorrei ricordare le ricette del tuo famoso Blechkuchen e dello stucchevole Apfelkuchen».

A Jacob venne l’acquolina in bocca all’istante. Ripensò alle torte di mele di sua madre e allo strudel per cui andava pazzo.

«Per favore, prega che la guerra finisca presto e che la Germania ne esca vittoriosa», recitava la lettera. «Voglio tornare da te, sapere cosa fai e come te la passi. Da’ a mamma e papà un bacio da parte mia. Di’ loro che mi mancano. Tua per l’eternità, Marion».

La donna che doveva chiamarsi Lara finì di leggere e continuò a fissare il foglio, nessuno però disse una parola.

In imbarazzo per lei, che si era esposta davanti a un gruppo di sconosciuti solo per venire ignorata, Jacob la ringraziò e le augurò di ritrovare presto sua sorella.

«Sì, sì», disse la donna, che non sembrava per niente a disagio. «Eppure è un po’ strano».

«Cosa?», chiese Jacob.

La donna alzò la testa e lo guardò. «Non lo sarebbe, se i nostri genitori stessero bene e fossero vivi. Ma sono morti in un incendio diciassette anni fa».

Jacob fece un passo indietro per lo shock. Non riusciva a immaginare di stare peggio di così, ma qualcosa nelle parole della donna fece sollevare un’onda di repulsione dentro di lui.

Prima che potesse domandarle il perché di quella discrepanza, una donna dai capelli grigi stretta in una ricca pelliccia si alzò e parlò per la prima volta. «Anch’io ho ricevuto una lettera».

Jacob si voltò. «Come si chiama, signora?»

«Brenner», rispose la donna. «Prima dello Chanukkah, la polizia ha arrestato mio marito perché non portava la stella gialla. Era uscito solo per comprare una bottiglia di latte. Si era scordato di mettersi la stella. È passato un ufficiale e ha iniziato a urlargli contro senza pietà. Sono uscita di casa per vedere cosa stava succedendo e ho trovato mio marito con la faccia e le mani coperte di sangue. Pochi secondi dopo l’hanno incatenato e portato via. Poi, a gennaio, l’hanno mandato in Polonia, in questo posto chiamato Auschwitz».

Ora tutti nel vagone prestavano attenzione alla storia della signora Brenner. Jacob sapeva che a tutti quanti era stata strappata una persona cara, portata via per non essere mai più rivista. E ora tutti avevano la propria storia personale: un arresto senza processo, con acqua e cibo che bastavano a malapena per sopravvivere, gettati su un carro bestiame e trasferiti da una parte all’altra d’Europa senza sapere cosa li aspettava.

«Poi dieci giorni fa ho ricevuto una lettera», disse la signora Brenner, arrivando al nocciolo della storia. «Mio marito scriveva di stare bene, che si stava ambientando, che mangiava bene, che aveva nuovi amici e così via. Che gli manco e che avrebbe voluto rivedermi. Parole che volevo sentirmi dire. Siamo sposati da trentadue anni, il mio Otto e io, e…».

Le si riempirono gli occhi di lacrime. Si mise una mano sulle labbra tremanti e Jacob pensò che cercasse disperatamente di non umiliarsi piangendo davanti a completi estranei.

«…questa è la prima volta che stiamo separati per tanto tempo», disse dopo essersi ricomposta.

Poi tirò fuori la sua lettera dalla borsetta.

«Ma la parte che trovo bizzarra è questa», disse mentre indossava un paio di occhiali da lettura e passava in rassegna il pezzo di carta fino alla frase in questione. «Sì, eccola qui. Scrive: “Mi dispiace moltissimo di non poter essere presente per il tuo compleanno. Perdonami. C’è mai stato un 9 febbraio in cui io non fossi con te? Mi farò perdonare, amore mio. Nel frattempo, comprati qualcosa di carino e sappi che è da parte mia. Poi chiedi a Madeline di portarti fuori per il tè e goditi la giornata. Vivila. La vita è breve. Ma tu meriti il meglio”».

Fece una pausa senza togliere gli occhi dalla pagina e ricominciò a piangere. Se li asciugò con un fazzoletto rosa e fece qualche respiro profondo, poi si rivolse alla donna di nome Lara.

«Madeline era nostra figlia, la nostra unica figlia», spiegò. «Ma è morta durante il parto. Ed è stato ventisei anni fa. Il periodo più devastante della mia vita. Il nostro matrimonio era quasi finito. Perché mai Otto dovrebbe parlare di un ricordo tanto doloroso e farlo con così poco rispetto? Non ha senso, ed è da allora che mi tormento. E adesso sento la sua lettera, che suona strana quanto la mia».

Jacob all’improvviso ricordò qualcosa di singolare che Maurice Tulek aveva detto a lui e ad Avi qualche mese prima. Morry aveva ricevuto una lettera dal fratello, Pascal, un membro rispettato della Resistenza, che era stato arrestato e spedito in un campo. Jacob non ricordava se fosse Auschwitz o Treblinka o Bergen-Belsen o altrove. Morry era felicissimo di ricevere sue notizie, di sapere che era vivo e che gli veniva permesso addirittura di scrivere lettere. Ma era rimasto spiazzato dal post scriptum: «Per favore, vai a trovare mamma e papà, digli che mi dispiace e che li amo tanto». Quando Avi aveva chiesto cosa ci fosse di strano, Morry aveva risposto che i genitori erano deceduti una decina di anni prima.

Ora, nel vagone si sentiva il fruscio di altre lettere che venivano pescate da portafogli e borsette. Divenne presto evidente che molti dei presenti avevano ricevuto comunicazioni simili, incluso il signor Eliezer. Ogni messaggio conteneva delle piccole anomalie. Discussero del perché amici e parenti avevano scritto cose tanto bizzarre e inquietanti nel bel mezzo di messaggi così dolci e affettuosi.

Anche Jacob, turbato, ci pensò su. Si spostò da una parte all’altra del vagone, desideroso di sentire cosa dicessero gli altri e di fare domande.

E poi capì.

«Sono avvertimenti», disse ad alta voce.

«Cioè?», chiese un uomo di mezza età in fondo al vagone.

«I vostri amici, i vicini, le persone che amate, vi stanno mandando degli avvertimenti», disse Jacob cercando di mantenere la voce calma, anche se il cuore gli batteva forte ed era attanagliato dal terrore. «I nazisti li hanno obbligati a scrivere quelle lettere per farvi sapere che stanno bene, che tutto va bene. Ma qual è l’anomalia dei loro messaggi? Si riferiscono tutti a persone morte da tempo. Le guardie del campo avranno letto le lettere. Di certo saranno all’erta verso ogni segno che possa dare alla gente fuori un’idea reale di ciò che accade all’interno di questi campi di concentramento. Ma le guardie non hanno modo di sapere che le persone menzionate in queste lettere sono morte. A loro sembrerà un linguaggio normale, quindi le lasciano passare. I vostri cari vi stanno mandando messaggi in codice. Vi stanno dicendo che non va per niente bene. Che non stanno bene. Ci mettono in guardia».

La signora Brenner rimase col fiato sospeso. E così gli altri. Alcuni risero e dissero a Jacob che era pazzo. Per la maggior parte di loro, però, la sua analisi aveva un senso.

Erano diretti verso un campo di morte. E non ne sarebbero mai più usciti.

Fuga da Auschwitz
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