Trentasette
Dopo meno di due minuti il kapo era già di ritorno nell’ufficio.
Diede a Jacob il poster di un ricercato, sul quale c’erano il nome dello zio, una foto e alcuni dettagli personali: altezza, peso, data di nascita, indirizzo di casa, tutte e tre le sue aziende e una serie di pseudonimi.
«Questo è tuo zio Avraham Weisz, non è così?», chiese l’uomo.
Jacob si limitò a fissare il pezzo di carta nelle sue mani. Sapeva che l’espressione del suo volto lo tradiva. Avrebbe anche potuto negare di conoscerlo, ma non sarebbe servito. Quindi annuì e non alzò la testa dal foglio. La fotografia era sgranata, sfocata, tuttavia non c’erano dubbi: era Avi.
«Quindi tu saresti Jacob Weisz?».
Jacob trasalì e fece cenno di sì, rifiutandosi di guardare l’uomo.
«Va tutto bene, Jacob», disse lui. «Ho sentito parlare molto di tuo zio. Era un eroe nella nostra cerchia di amici. Stiamo tutti piangendo la sua morte».
Sbalordito, Jacob alzò la testa. «Allora è vero?», chiese timidamente. «È morto davvero?»
«Non l’hai visto con i tuoi occhi?»
«Ho visto che gli sparavano», confermò. «Speravo che fosse sopravvissuto».
«Mi hanno detto che è morto all’istante», disse l’uomo. «Dovresti esserne felice. Se la Gestapo lo avesse catturato dopo tutto quello che avete fatto…».
La voce dell’uomo si affievolì e Jacob gli fu grato per non aver finito la frase. Aveva ragione. Venire catturato in quelle circostanze sarebbe stato un incubo.
Se Avi fosse sopravvissuto lo avrebbero torturato senza pietà, e anche se se la fosse cavata lo avrebbero mandato a morte certa ad Auschwitz.
«Come fa a sapere di lui e di me?», chiese Jacob.
«Mi chiamo Leszek Poczciwinski», rispose l’uomo. «Ho alcuni… be’, chiamiamoli amici, che lavorano nel campo e anche fuori. Quando posso do una mano. E loro danno una mano a me. Uno occupa una posizione particolarmente delicata qui nel campo. È venuto da me presto stamattina e mi ha detto che il comandante Asche in Belgio, un uomo di cui credo tu abbia sentito parlare, di recente ha telefonato a Rudolf Höss, un tizio che conoscerai presto. Höss è il comandante qui al campo di morte di Auschwitz-Birkenau. Asche voleva informare Höss di un assalto da parte del movimento clandestino ebreo al treno 801, accaduto appena fuori Bruxelles. Ha fornito i dettagli dell’imboscata e una lista dei membri della Resistenza coinvolti. Durante la notte, un corriere speciale della Gestapo ha portato un faldone contenente il resoconto dell’incidente. Il mio amico ha visto una parte del documento. Ha potuto accedervi solo per un attimo e ha letto che tre belgi coinvolti nell’attacco sembrano aver abbandonato il Paese. La relazione diceva anche che Avraham Weisz è stato ucciso nel blitz e che il nipote, Jacob, è in fuga ma pare trovarsi ancora in Belgio».
Jacob non riusciva a credere a quanti dettagli conoscesse l’uomo. Chi era? E chi erano i suoi “amici”?
«Come ha fatto a sapere che ero io?»
«Non lo sapevo», rispose Poczciwinski. «Ma ho sentito parlare così tanto delle imprese di tuo zio che quando ho visto la sua foto mi sono incuriosito. L’ho studiata con attenzione. Ero affascinato. Mi è rimasta impressa nella mente. Poi, mentre camminavo nel cortile, stamattina, ti ho visto. Ti rendi conto di quanto gli somigli? Comunque, ho fatto due più due e mi sono assunto un rischio calcolato. Avresti dovuto vedere la tua faccia! E ora sei qui. Benvenuto ad Auschwitz».
Jacob non sapeva cosa dire.
«E benvenuto nel commando Canada», aggiunse Poczciwinski. «Ti ho appena salvato la vita».
«Non capisco».
«Stavi per diventare un Sonderkommando, giusto?»
«Sì».
«Sai cosa fanno?».
Jacob scosse la testa.
«Rimuovono i corpi dalle camere a gas».
«Le cosa?»
«Le camere a gas».
«Di che sta parlando?»
«Non ne hai mai sentito parlare?».
Jacob fece di nuovo cenno di no.
«Qui ad Auschwitz i nazisti stanno sterminando la razza ebraica», disse Poczciwinski, ora seduto sul bordo della scrivania. «Ecco a cosa serve questo posto».
«Davvero, signore, non capisco. Insomma, è ovvio che le persone stanno morendo, però…».
«No, Jacob. Non stanno solo morendo», insistette Poczciwinski. «Vengono sterminate sistematicamente. Ecco che succede qui. I nazisti ammazzano gli ebrei a migliaia. Anzi, decine di migliaia».
«Come?»
«Li riuniscono in camere speciali che sembrano docce, poi accendono il gas assassino – si chiama Zyklon B – e nel giro di mezz’ora sono tutti morti».
Jacob lo fissò incredulo.
«Mi hanno mandato nelle docce», disse infine. «Non sono morto».
«Quando sei sceso dal treno, ti hanno mandato a destra o a sinistra?»
«A destra».
«Ecco perché».
Jacob non rispose e Poczciwinski continuò a parlare. «Chi è stato mandato a sinistra è stato eliminato con il gas, Jacob. Sono morti. Sono stati cremati. Di loro non resta altro che cenere e fumo».
«Tutti?»
«Tutti».
«E il signor Eliezer?»
«Morto».
Jacob ebbe un conato di vomito.
«Non mi credi?», chiese Poczciwinski dopo una pausa. «Ti capisco. All’inizio non ci credevo nemmeno io. Però è vero. Uccidono i deboli. Obbligano i forti a lavorare. E quando diventano deboli, ammazzano pure loro. Poi arriva un altro treno e tutto ricomincia da capo».
Poczciwinski lasciò a Jacob il tempo di assorbire la verità, poi parlò di questioni più pratiche e immediate.
«Sei fortunato che ti abbia trovato», disse. «Altrimenti saresti stato immerso fino al collo fra i corpi. A strappargli i denti d’oro. A tirargli via corone d’oro e otturazioni. Li avresti caricati su carretti e gettati nei forni per la cremazione. Poi avresti ripulito le camere a gas dal sangue, dall’urina e dagli escrementi, in modo che la successiva spedizione di vittime non sospettasse nulla».
Jacob era troppo sconvolto per parlare. Un migliaio di domande gli affollavano la mente, ma non sapeva quale porre per prima. Quindi rimase zitto.
«Chiedi, ragazzo. Tranquillo».
«Perché lo fanno?»
«Chi, i nazisti?»
«No, i Sonderkommando».
«Hanno scelta, forse?», aggiunse Poczciwinski con un’alzata di spalle. «Vogliono vivere. E poi gli danno più roba da mangiare. Più pane. Più marmellata. A volte gli concedono anche della carne decente, sai, quella non andata a male. Quella che di norma daresti a un cane. Non è molto, ma è più di ciò che ricevono gli altri. Non si può chiamare vita, comunque. I Sonderkommando ricevono cibo in più, ma non vivono a lungo in ogni caso».
«In che senso?»
«Impazziscono. Non ci vuole molto. Si gettano contro il filo spinato. Oppure vengono radunati ogni otto o dieci settimane dalle guardie, fucilati e gettati nei forni loro stessi».
«Perché?»
«I nazisti sanno che ogni uomo ha un limite. Li ammazzano prima che perdano la testa».
«Perché non assegnarli a un altro incarico?»
«Per metterli a tacere».
Jacob non capiva.
«Non tutti sanno quello che accade qui, Jacob», spiegò Poczciwinski. «È parte del piano dei nazisti. Se i prigionieri conoscessero i dettagli scellerati, potrebbero ribellarsi. Allora chi farebbe il lavoro? E se qualcuno scappasse? Che Dio ce ne scampi. Potrebbero raccontare agli ebrei fuori quello che davvero accade qui dentro, che questo non è un campo di lavoro bensì un campo di morte. E quale ebreo sano di mente salirebbe su un treno diretto a un campo se sapesse – non se sospettasse o avesse sentito delle voci, ma se sapesse per certo – che questo è un campo di sterminio? Tu lo faresti?».
Jacob lo fissava ammutolito.
«Certo che no», continuò Poczciwinski. «Combatteresti. Ci sarebbero rivolte di massa ovunque. Proprio ciò che i nazisti temono. Il solo modo per Hitler e le SS di uccidere tutti gli ebrei d’Europa – e credimi, questo è il piano – è tenerli lontani dalla verità insieme al resto del mondo. Ecco perché prendono ogni precauzione possibile per non farci scappare. Le recinzioni. Le torri. Le guardie e i cani. Campi disseminati di mine che circondano Auschwitz per dozzine di chilometri. Migliaia di soldati all’erta ventiquattr’ore su ventiquattro, pronti a dare la caccia e a far fuori chiunque riesca a superare il filo spinato per qualche minuto o qualche ora».
«Qualcuno ce l’ha mai fatta?», chiese Jacob.
Poczciwinski scosse la testa. «Ci hanno provato circa ottocento persone. Nessuno è sopravvissuto. Ma c’è sempre una prima volta, no? Forse il primo sarai tu».