Ventiquattro

19 aprile 1943

Boortmeerbeek, Belgio

 

La brutale verità è che non erano ancora pronti.

Erano, come uno di loro aveva detto piattamente, «mal equipaggiati e impreparati». Ma non potevano più fare altro, il tempo stava scadendo. Non avrebbero mai immaginato di compiere una simile operazione solo in quattro. Dopotutto, l’idea originale di Avi era di usare ventidue uomini armati. Ma anche se nessuno di loro osava dirlo ad alta voce, sapevano benissimo che dovevano farcela a ogni costo. Per il bene di Avi e di tutte le altre milleseicento anime che sarebbero state su quel treno.

Alle sette in punto di lunedì sera partirono in bicicletta, diretti verso la stessa destinazione. Ovviamente presero strade diverse, per assicurarsi che nessuno di loro fosse seguito e per confondere le loro ombre per quanto possibile. Jacob conosceva il piano a memoria. Se qualcuno lo seguiva, doveva fermarsi in un bar, bere una tazza di caffè e tornare al rifugio. Ma per niente al mondo avrebbe interrotto l’operazione. Non se la vita di suo zio era in pericolo.

Per fortuna lungo il percorso non notò nessuno. Pedalò per più di due ore, coprendo una distanza di circa quaranta chilometri, prima di raggiungere la distesa di binari che Avi aveva scelto. Si trovava a circa un chilometro dalla stazione di Boortmeerbeek, nascosta e desolata.

Nel suo zaino, Jacob portava la lampada e un leggero foulard rosso, perché temeva che il calore bruciasse la carta velina. Non vedendo nessuno e non sentendo rumori oltre il vento che soffiava fra i rami degli alberi e qualche uccello in lontananza, nascose la bicicletta sotto alcuni cespugli sul lato opposto del bosco. Poi ripercorse la strada fra gli alberi e trovò un ramo da cui tenere d’occhio i binari.

Presto vide avvicinarsi anche gli altri, uno per uno. Si riunirono e ripassarono in fretta il piano, bisbigliando. Poi Jacob decise che era troppo pericoloso stare insieme e ordinò a tutti di ritirarsi nelle posizioni stabilite e attendere.

Quando l’orologio batté le dieci, saltò giù dal punto di vedetta su un albero di pino e corse i cinquanta metri che separavano il bosco dai binari. Poco oltre la curva, Jacob prese la lampada antivento dallo zaino, l’accese, la posizionò in mezzo ai binari e la avvolse nel foulard rosso che si erano procurati. Poi indietreggiò di una ventina di metri e si voltò a controllare. Non era così male, pensò. Forse avrebbe funzionato.

Jacob rimase lì più a lungo di quanto avrebbe dovuto, godendo della bellezza della scena pastorale attorno a lui. Per un attimo, gli fu possibile dimenticare che il mondo era stretto nella morsa di una guerra terribile e sanguinosa. Lì non c’erano carri armati, truppe, bombardieri o filo spinato. La luna sopra di lui era piena. Le stelle brillavano nella loro luce gloriosa. Nel cielo non c’era una nuvola e la temperatura stava calando in fretta. Jacob pensò che si aggirasse intorno allo zero e che probabilmente sarebbe scesa nelle ore successive. Inspirò il profumo delizioso dei pini, che oscillavano ora alla brezza proveniente da est, e poi nell’aria gli parve di vedere una colonna di fumo. All’inizio era tenue, poi più decisa, e mentre si ispessiva sempre di più i suoi pensieri tornarono a Siegen.

Chiuse gli occhi e ripensò alle camminate in montagna con lo zio. All’improvviso vide e sentì il profumo e il sapore dei deliziosi pasti preparati dalla mamma e da Ruthie, gli arrosti e le torte, e la vita che aveva vissuto – la vita che amava così tanto – gli tornò fresca alla memoria.

Poi sentì il fischio penetrante del treno. Aprì gli occhi all’istante. Il cuore prese a martellare forte nel petto. Si voltò. Ancora non riusciva a vedere la locomotiva, ma il terreno tremava sempre più forte sotto i suoi piedi.

Guardò l’orologio. Cosa stava succedendo? Era troppo presto per il treno 801. Com’era possibile? I treni tedeschi non erano mai in anticipo, mai in ritardo, spaccavano sempre il secondo. Con la coda dell’occhio vide Micah che faceva cenni frenetici invitandolo a spostarsi da lì. Si allontanò dai binari, corse giù dal terrapieno e attraverso il campo, dirigendosi verso il limitare della foresta. Lì riprese posizione, mentre il fischio del treno si faceva più forte e la terra tremava. Nascosto dietro un albero, Jacob vide in lontananza una singola locomotiva che trascinava un solo vagone. Quello non era il treno 801. Si trattava di un falso allarme. Ma rimase lì, a fissare il treno sbagliato, paralizzato dalla paura.

La lampada.

Non poteva lasciarla sui binari. Non volevano che quel treno si fermasse. Volevano che si togliesse di mezzo, e in fretta. Era troppo lontano. Sarebbe riuscito a raggiungerla, spostarla dai binari e rintanarsi nel bosco in tempo? Poi, quando era sul punto di scattare, vide Micah che salvava la situazione. Il ragazzo corse verso i binari, afferrò la lampada e tornò verso il bosco appena in tempo. Qualche momento dopo, il treno sfrecciò via. Rallentò, ma grazie a Dio non si fermò.

Coperto di sudore e tremante per il freddo, Jacob si maledisse per l’errore appena commesso. Aveva quasi mandato a monte l’intera operazione, mettendo a rischio la vita di Avi e dei milleseicento insieme a lui. Un’ondata di tristezza e senso di colpa lo travolse, ma prima che potesse rendersene conto, il fischio di un altro convoglio perforò l’aria della notte.

Voltandosi a sinistra, adesso riusciva a vedere l’enorme locomotiva a vapore che doveva appartenere al treno 801. Per fortuna Micah era pronto. Per la seconda volta, corse sull’argine e sistemò la lampada sui binari, poi scomparve fra gli alberi.

Meno di venti secondi dopo, il treno 801 sfrecciava lungo il tragitto, ansimando e sbuffando e rilasciando enormi nubi di fuliggine nel cielo della sera. Jacob cercò di scacciare dalla mente il pensiero del suo fallimento, ora però temeva che lo stratagemma non avrebbe funzionato. E se il treno avesse rallentato ma non si fosse fermato? E se le truppe delle SS presenti sul treno avessero visto la lampada per quello che era – un complotto della Resistenza – e avessero chiamato aiuti via radio? La foresta avrebbe presto pullulato di uomini. In meno di un’ora sarebbero morti tutti. Eppure, mentre quei pensieri gli attraversavano la mente, il treno iniziò a frenare proprio davanti a lui. L’orrendo stridore del metallo contro il metallo grattò i nervi già fragili di Jacob. Ci volle più di quanto aveva previsto perché tutti i trenta carri bestiame si fermassero e quando lo fecero dei colpi di arma da fuoco lo raggiunsero da destra. Ecco. Quello era il segnale. Jacob abbassò la testa e scattò verso il treno mentre altri colpi risuonavano nella notte.

Il lavoro di Micah era quello di usare l’unica pistola che avevano e continuare a sparare, nella speranza si stordire le SS nella locomotiva trainante e far loro credere di essere attaccati da una forza superiore sparpagliata nei boschi. Se tutto fosse andato secondo i piani, il resto della squadra avrebbe guadagnato tempo sufficiente per liberare i prigionieri nei vagoni, prima che i soldati, armati di mitragliatrici, iniziassero a rispondere al fuoco.

A sinistra, Jacob vide Henri raggiungere l’ultimo vagone. Qualche secondo dopo, Jacob salì sul terrapieno e corse verso il vagone a lui designato, il sesto dal fondo. Si mise subito a tagliare i fili poi fece scorrere lo sportello. Accese una torcia elettrica e illuminò le facce pallide e sbalordite accalcate all’interno.

«Alzatevi, subito!», urlò in olandese e in francese. «Correte verso i boschi! Siamo la Resistenza, siamo qui per liberarvi! Correte, stupidi! Adesso, o morirete!».

Nei loro occhi leggeva panico e confusione. Poi ricordò le parole di Avi: non aspettare che si muovessero. Dovevano aprire più vagoni possibile, prima che la controffensiva iniziasse. Non c’era tempo per spiegare alle persone che Jacques era nascosto nei boschi, pronto a distribuire banconote da cinquanta franchi e a condurli verso i trasporti pubblici che li avrebbero portati a Bruxelles, Antwerpen, Charleroi e oltre. Se avessero ubbidito agli ordini di Jacob, saltando giù dal treno e correndo verso i boschi, avrebbero trovato Jacques, o Jacques avrebbe trovato loro. Ma ora Jacob doveva continuare a muoversi.

Spari riempivano la notte. Micah stava proseguendo il suo lavoro senza intoppi e Jacob si sentiva intossicato dall’adrenalina che gli scorreva nelle vene. Aprì un secondo vagone, poi un terzo. Urlò alla gente di scappare e la maggior parte ubbidì. Ma quando l’ultimo gruppo di prigionieri sentì che le SS aprivano il fuoco con le mitragliatrici, tutti si immobilizzarono.

Sapendo che gli restavano solo pochi momenti per scappare, Jacob saltò dentro il carro bestiame e urlò: «Snel, snel, springen, vluchten!». Afferrò qualcuno dei giovani all’interno, li sollevò e li spinse verso la porta, gridando di scappare e salvarsi la vita. Si spinse all’interno del vagone, implorando anche i più anziani di muoversi in fretta: non restava molto tempo. Sapeva che erano spaventati, ma se volevano sopravvivere dovevano provare a scappare. Solo allora sentì qualcuno gridare il suo nome.

Ci volle un attimo per registrare il suono, ma quando si voltò, Jacob si illuminò. «Zio!», esclamò. Avi era lì fuori. «Sei salvo!».

«Sì, e sono così orgoglioso di te», gridò Avi mentre gli spari si intensificavano. «Per caso hai qualche attrezzo extra?».

Jacob sorrise. Aveva eccome un paio di cesoie per lui e le lanciò allo zio, emozionato di vederlo ancora e di poter contare su un paio di mani in più. Gli restavano venti vagoni da aprire. Sembrava impossibile, ma l’aiuto di Avi avrebbe fatto la differenza.

Proprio allora, però, Jacob vide un soldato delle SS passare di fianco al vagone. Sentì un’altra raffica di colpi. Vide il bagliore uscire dalla canna e guardò impotente lo zio che veniva ripetutamente colpito e cadeva giù dal terrapieno.

«Tornate indietro!», gridò il soldato in tedesco, la voce brutale, gutturale. «Tornate indietro, tutti quanti, o vi ammazzerò come cani!».

Poi, prima che Jacob avesse il tempo di capire cosa stava succedendo, lo sportello del vagone venne sbattuto e serrato. Nel giro di poco, il treno riprese a muoversi. La gente attorno a lui si strinse per la paura, ma Jacob corse verso l’uscita e cercò freneticamente di aprirla. Iniziò a colpire lo sportello con il paio di cesoie che aveva in mano, ma non servì a niente. Preso dal panico, si sollevò per guardare attraverso una minuscola apertura sotto il tetto del convoglio. Sentì altri spari. Vide altri prigionieri ebrei che scappavano. Alcuni caddero, freddati dalle SS. Ma non vide Avi, e nemmeno Micah, Henri o Jacques.

E poi, quando si trovarono nell’oscurità, non vide più nulla e una terribile sensazione lo pervase.

Era intrappolato, solo, sulla strada per Auschwitz.

 

 

 

 

 

 

Fuga da Auschwitz
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