Trentacinque

Alle quattro e mezzo del mattino Jacob fu svegliato da un forte gong.

Qualche momento dopo, Gerhard Gruder era in piedi alla porta, ordinava a tutti di alzarsi, di piegare le coperte e usare i bagni. Jacob decise di ubbidire agli ordini di Gruder per primo, quindi scavalcò i compagni, saltò a terra e guidò la folla verso i gabinetti.

Quello che trovò furono solo ventidue tazze e quarantadue lavandini per i circa trecento uomini del Blocco 18. Peggio, le guardie concessero ai prigionieri meno di un minuto per espletare i propri bisogni, anche se molti iniziavano ad avere i sintomi della diarrea.

Chi impiegava più tempo veniva picchiato. Chi opponeva resistenza veniva picchiato più forte. Chi si lamentava con Gruder perché aveva la dissenteria veniva letteralmente massacrato. Jacob cercò di distanziarsi dalla baraonda. Non avendo in pratica né mangiato né bevuto, non aveva granché da fare e non gli andava di essere coinvolto. All’improvviso ricordò la strana voce che credeva di aver sentito nelle docce e fu grato di non aver bevuto l’acqua gelata che forse, insieme al cibo avariato, era la causa dei problemi intestinali degli altri.

Tornato in stanza, Jacob trovò Gruder che distribuiva piccole croste di pane. Si godette ogni boccone, che purtroppo finì in fretta. Come faceva ad averne di più? Fu tentato di rubare le briciole dalle mani di altri, ma quello sarebbe stato il sistema perfetto per farsi prendere a pugni.

Poi qualcuno portò una botte di qualche liquido fumante e qualcun altro passò delle tazze di metallo. Jacob prese subito la sua e gli venne dato mezzo litro di un liquido pallido e schiumoso che fu descritto come tè ma che più che altro sembrava acqua di fogna. Perlomeno non puzzava e il sapore non era così disgustoso. Jacob lo ingollò più in fretta che poté e poi mise la sua tazza su una pila. Nella confusione, qualcuno versò con un mestolo un’altra porzione nella sua tazza, ma prima che Jacob potesse portarsela alla bocca l’uomo affamato e con gli occhi da pazzo con cui aveva condiviso il letto la notte prima gliela strappò di mano e lo spinse via.

Gli ribollì il sangue nelle vene. Strinse il pugno pronto a sferrarlo, ma poi l’avvertimento del signor Eliezer lo fece desistere. Non era il momento per una zuffa, a meno che non avesse intenzione di suicidarsi.

Il gong risuonò di nuovo. Era ora del turno del mattino. Jacob seguì la folla giù per le scale e nel cortile e ubbidì agli ordini di Gruder alla lettera.

Alle cinque in punto, gli uomini vennero ordinati in cinque file, blocco dopo blocco, circondati da centinaia di guardie con le mitragliatrici puntate. Di nuovo, ciascun prigioniero venne chiamato per numero. Quando uno gridava «Qui», il suo numero veniva spuntato da una lista e controllato su altre due liste separate. Jacob notò che ciascun superiore di ogni blocco ispezionava di persona i suoi uomini per essere certo che ogni prigioniero fosse presente e calcolato. Il tutto per assicurarsi che nessuno rispondesse «qui» al posto di un amico che magari stava ancora dormendo o era al bagno, o peggio tentava la fuga.

Il Blocco 18, pensò Jacob, era composto per la maggior parte dai nuovi arrivati. Gli uomini che rispondevano all’appello sembravano tutti più o meno in salute e nutriti. Nel Blocco 17, invece, i prigionieri sembravano sul punto di morire. La stessa cosa valeva per quelli del Blocco 16 dalla parte opposta.

Fu allora che Jacob si rese conto che i responsabili dei blocchi non stavano solo facendo il conto dei sopravvissuti. Stavano anche calcolando i morti. In quel momento, i responsabili dei blocchi e i loro vice stavano trasportando fuori dagli edifici i corpi di cinque uomini, tutti presumibilmente morti nel sonno. I cadaveri venivano ammassati contro la parete esterna dell’edificio. I responsabili leggevano poi i loro tatuaggi cosicché potessero essere cancellati dalla lista. Poi i corpi venivano caricati su carri di legno da altri uomini, ai quali non sembrava restare molto tempo da vivere, che li portavano dietro l’angolo, lontani dalla vista.

Fuga da Auschwitz
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