Quarantasei
Quando sorse il sole, Jacob capì perché la domenica era diversa.
Apparentemente, anche gli assassini nazisti avevano bisogno di una giornata libera.
Dunque anche i prigionieri l’avevano, eccetto chi preparava il pane e chi portava a termine una serie di altre attività considerate essenziali da Höss per il “buon ordine” del campo. I forni dei crematori sembravano non fermarsi mai, per esempio, quindi i Sonderkommando continuavano a lavorare in turni continui ogni dodici ore. La maggior parte degli altri prigionieri era libera di camminare per il campo, di parlare con chi voleva, scrivere lettere, giocare a carte oppure dormire. Di certo c’erano abbastanza guardie per prevenire rivolte o fughe. Jacob però si accorse che molte di loro alzavano parecchio il gomito, più che altro grazie alle casse di vodka che Leszek era felice di procurargli dai magazzini del Canada.
Quella domenica – 25 aprile 1943 – non era una domenica normale. Era Pasqua, e incredibilmente Jacob vide un numero considerevole di guardie e responsabili dei blocchi andare a messa. Verso le dieci del mattino, mentre lui e Max stavano facendo una lunga camminata per il campo, rimase stupefatto nel notare Gerhard Gruder, Louie il grassone e diversi altri entrare nella cappella del campo, vestiti con l’abito migliore della domenica. Poi sentì un organo suonare e i torturatori cantare inni, leggere le Scritture e suonare le campane quando il servizio era finito.
Chi erano quelle persone? Che Dio pregavano? Come potevano picchiare e bruciare esseri umani per sei giorni alla settimana e leggere la Bibbia e pregare la domenica? Jacob non era cresciuto in una famiglia religiosa, però non era nemmeno stato allevato nell’odio verso il prossimo. Si era sempre ritenuto tollerante nei confronti degli ebrei ortodossi, anche dei cattolici e dei cristiani protestanti. Gli era stato insegnato a rispettare ogni uomo e ogni fede, ma come poteva farlo adesso? Se quello significava essere cristiani, allora Jacob sperava che tutti i cristiani bruciassero all’inferno il prima possibile.
«Dài», disse Max. «Andiamo a trovare mia sorella».
Jacob reagì a scoppio ritardato. «Tua sorella?»
«Sì».
«Hai una sorella?»
«Certo».
«Non lo sapevo».
«Be’, ce l’ho».
«Ed è qui?»
«No, sta bevendo un tè con il re d’Inghilterra», scherzò Max. «Certo che è qui. Lavora alla clinica medica».
«Perché non me ne hai mai parlato?»
«Ah no?», fece Max, camminando più in fretta. «Credevo di sì».
«No, neppure una volta», disse Jacob accelerando il passo.
«Strano».
«Non l’hai fatto. Parli di tutto. Non stai zitto un secondo. E ora viene fuori che qui hai una famiglia e io non ne sapevo niente».
Max fece spallucce. «Cosa posso dirti? Ho una sorella. Si chiama Abigail. La chiamiamo Abby».
Due minuti dopo stavano per entrare nella clinica quando Leszek li raggiunse da dietro e li prese entrambi per il braccio.
«Venite con me», disse senza fiato.
«Perché? Che succede?», chiese Max, stupito ma accondiscendente.
«Tenete la bocca chiusa e seguitemi».
Jacob e Max ubbidirono ed entrarono velocemente nel deposito di legname, zigzagando fra enormi pile di legna finché non videro due uomini che fumavano.
«Otto, Abe, vi presento Max e Jacob», disse Leszek.
I due ragazzi strinsero le mani dei giovani che sembravano avere poco più di vent’anni. Intanto Leszek parlò in fretta e a bassa voce.
Spiegò che Max e Jacob erano i suoi assistenti nel Canada e raccontò cosa facevano e da dove venivano. Rispolverò gli antefatti dello zio di Jacob e il suo ruolo di spicco nella Resistenza. Spiegò le circostanze che avevano portato Jacob ad Auschwitz. Poi spiegò perché, in pubblico, era meglio chiamarlo Leonard Eliezer.
Leszek disse che il cognome di Otto era Steinberger e che era un ebreo della Cecoslovacchia. Il nome intero di Abe era Abraham Irvine Frenkel: anche lui veniva dalla Cecoslovacchia. Otto aveva lavorato a lungo al commando del Canada ma adesso stava all’archivio del Blocco 14.
«Si occupa di registrare gli appelli del giorno, compilare statistiche precise dei prigionieri morti e di quale fosse il loro numero, annotare ogni dettaglio e le attività che ciascuno svolgeva e in sostanza fare commissioni per il responsabile del blocco. Finché tiene un libro mastro sotto braccio e un’espressione corrucciata in faccia, è libero di girare per il campo. È importantissimo per noi».
Anche Abe lavorava all’archivio, ma stava per essere trasferito al Campo D a Birkenau, l’enorme distaccamento di Auschwitz a qualche chilometro da lì. A Birkenau, spiegò Leszek, i nazisti stavano costruendo un quartiere molto più vasto e anche camere a gas e crematori più spaziosi.
«Höss ha in mente qualcosa», continuò. «Abe ci aiuterà a capire cosa».
Mentre Leszek parlava, Jacob si ritrovò a squadrare i due da capo a piedi. Otto Steinberger era affascinante anche se coperto di stracci, con occhi scuri intensi ma amichevoli e una mascella pronunciata. Sembrava in salute, in forma migliore di tanti altri, quindi forse era arrivato di recente. In qualche modo, Otto gli ricordava lo zio Avi. C’era qualcosa in lui che suggeriva l’amore per gli spazi aperti. Sembrava uno capace di cavarsela e con una notevole propensione all’azione.
Abe Frenkel, invece, somigliava inspiegabilmente a un professore della Friedrich-Wilhelms-Universität a Berlino, amico di suo padre. L’uomo non aveva ancora aperto bocca, ma sembrava un amante delle parole e delle idee. Aveva un naso spigoloso e guizzanti occhi scuri. Jacob se lo immaginava con addosso una giacca di tweed e la pipa in bocca, mentre fumava tabacco alla ciliegia, seduto nel suo ufficio in un qualche dipartimento di filosofia di un college europeo a discutere di Kant e Hegel. Anche lui sembrava in ottima forma e Jacob ne dedusse che doveva essere a sua volta un nuovo arrivo.
Non c’era bisogno di sottolineare che Otto Steinberger e Abe Frenkel fossero ebrei. Era evidente dai triangoli gialli cuciti sulle loro uniformi. Jacob aveva l’impressione che Leszek stesse cercando di dire che tutti e quattro facevano parte della stessa squadra, della stessa eredità culturale. Che potevano fidarsi gli uni degli altri, anzi, forse dovevano. Ma perché? Perché quella riunione improvvisa? Forse Jacob avrebbe presto avuto una risposta.
«Quando siete arrivati qui voi due?», chiese Otto sussurrando.
Max ci mise diversi minuti a raccontare la sua storia.
Quando terminò, Jacob si limitò a dire: «Giovedì».
«Sei arrivato giovedì?», chiese Otto.
«Sì, signore», rispose Jacob.
«E voi due?», domandò Max.
Incredibilmente, Otto si trovava nel campo dall’estate del 1942.
«Io invece sono arrivato il 13 aprile del ’42», sussurrò Frenkel. «Facevo parte di un gruppo di un migliaio di ebrei, tutti provenienti dalla Slovacchia. Sono uno degli ultimi rimasti».
Frenkel finì la sigaretta e se ne accese subito un’altra. «Quando sono arrivato qui, c’erano solo quindicimila prigionieri», disse, lo sguardo perso. «Ora guarda questo posto. Non fanno che arrivare».
«E morire», aggiunse Steinberger.
Fu un incontro bizzarro. Jacob non aveva idea del perché stessero parlando.
E poi l’incontro finì.