Sessantuno

In una burrascosa giornata di inizio febbraio, Jacob intravide un volto familiare.

L’appello mattutino nel campo di Birkenau era appena finito. Stava dirigendosi verso la panetteria quando vide una persona che somigliava a Josef Starwolski.

Jacob si disse che non era possibile. Chiunque egli fosse, era solo una sua versione emaciata e triste. Eppure somigliava proprio al suo compagno di letto ad Auschwitz. Camminava persino come lui. Poteva essere? Un tempo Jacob non avrebbe fatto nulla per scoprirlo. Ora però le cose stavano cambiando. Tutto stava cambiando.

Decise di indagare.

«Josef, sei tu?», disse, avvicinandosi per guardarlo meglio.

Era lui. Quando il ragazzo si voltò, i suoi occhi infossati si illuminarono e diede a Jacob un debole abbraccio. «Come stai, amico mio? Non credevo che ti avrei mai rivisto».

«Sto bene, Josef», rispose Jacob. «Tu, invece? Hai perso tantissimo peso».

«Temo di sì. Sto morendo, e ho paura. Non credo che resisterò a lungo».

«Non ti preoccupare», disse Jacob. «Ti darò una mano».

Tolse con discrezione un pezzo di pane vecchio di un giorno dalla tasca e lo fece scivolare nella mano dell’amico, il quale lo prese e lo divorò.

«Dalla panetteria», disse Jacob. «Io lavoro lì. Posso prendere tutto il pane che voglio. Fresco, anche. Vieni con me. Te ne darò altro».

Jacob sapeva di correre un rischio enorme anche solo a dire una cosa del genere, specie all’aperto. Ma si trattava di Josef, un amico.

«Non posso, non adesso», rispose il ragazzo. «Devo andare al lavoro. Ma verrò appena posso».

«Da quanto sei qui?», chiese Jacob. «Non ne avevo idea».

«Due mesi. Due mesi d’inferno».

«Che è successo? Perché non sei più all’archivio? Credevo fosse un buon lavoro».

«Lo era, poi Von Strassen ha iniziato a farsela con una delle ragazze nuove. Dorme con tutte quelle dell’ufficio, in realtà, ma sfortunatamente a una ha dato il mio lavoro».

«Mi dispiace».

«Quindi Abby e Jean-Luc – sai, Leclerc – mi hanno fatto trasferire qui. Abby diceva che sarebbe andata meglio, che Luc si sarebbe preso cura di me. Ma io non l’ho visto. Tu?»

«Visto? Io ci lavoro. È il kapo della panetteria».

«Stai scherzando».

«No, affatto. Vieni con me».

«Oggi non posso», disse Josef. «Anzi, devo andare perché adesso ho un turno. Un turno fuori. Stiamo spalando i parcheggi dietro l’edificio dell’amministrazione. Spaliamo anche i sentieri e le strade…».

A Josef si bloccarono le parole in gola. Due guardie si stavano avvicinando. Dovevano sbrigarsi.

«La panetteria», sussurrò Jacob mentre Josef si allontanava. «Vieni appena possibile».

 

Due giorni dopo, Josef entrò nella panetteria.

Era domenica. Aveva la giornata libera. Non come Jacob, i cechi e Luc. Occupandosi del cibo, sgobbavano sette giorni a settimana, ma almeno mangiavano più degli altri e non potevano lamentarsi.

Josef portava in mano una piccola scatola. Quando Jacob lo vide, capì che era una scena. Josef non poteva di certo presentarsi lì per reclamare del cibo per se stesso. Doveva fingere di fare una consegna. Jacob stette al gioco.

«Sì, sì, vieni dentro. Entra dal retro, così scarichiamo la roba», disse Jacob, guardando Luc in attesa di un cenno di approvazione, che infatti arrivò.

Jacob portò Josef nel laboratorio sul retro, lo invitò a sedersi e gli offrì diverse fette di pane caldo appena sfornato da una partita speciale che non conteneva segatura, polvere o altri riempitivi. Gli diede anche una tazza di tè bollente.

«Sei al sicuro qui?», chiese Josef, adocchiando avidamente il banchetto davanti ai suoi occhi.

«Sì», lo rassicurò Jacob. «Abbiamo circa quindici minuti. Mangia».

Josef non se lo fece ripetere due volte.

Mentre mangiava, Jacob gli raccontò del trasferimento a Birkenau, del lavoro di costruzioni a cui era stato assegnato nei campi prima di essere spostato alla panetteria.

Poi cambiò discorso. «A proposito, Josef, sono curioso di sapere una cosa», disse mentre l’amico beveva il tè. «Hai sentito niente del carico di ungheresi che dovrebbe arrivare?».

Josef si fermò e alzò la testa di scatto.

«Perché me lo chiedi?»

«Non lo so. Ho sentito delle voci. Magari tu ne sai di più».

«Forse», disse lui.

«Be’, non essere timido», lo incoraggiò Jacob. «Non abbiamo tutto il giorno».

«È che…».

«Cosa?»

«È un argomento delicato».

«Perché?»

«Höss e Von Strassen non parlano d’altro», disse Josef abbassando la voce a un sussurro. «Ma hanno dato ordine a tutti di non aprir bocca a riguardo».

«Perché? Cos’hai sentito?»

«Quando ero all’archivio, niente. Be’, non proprio niente. Si mormorava che sarebbero arrivati un sacco di ungheresi. Ma erano solo delle voci. Niente di scritto. Nessun documento. Però qualche giorno fa, poco prima che ti incontrassi, ho rivisto un ragazzo, fratello di una con cui lavoravo. Lui odia Von Strassen. Vorrebbe ammazzarlo per come tratta sua sorella. Comunque, mi ha raccontato che stava facendo una commissione ad Auschwitz. È riuscito a rivederla. Dice che ha un aspetto terribile. Triste, persa, vuota. È talmente a pezzi che lui teme possa farsi del male da sola. Insomma, ha sentito parlare una coppia di vice di Von Strassen. Si stavano lagnando perché lui è fissato con l’accelerare i lavori di costruzione che stanno facendo impazzire tutti. Quando uno dei due ha domandato perché Von Strassen stesse montando un simile caso e li facesse sgobbare tanto, l’altro ha detto che dovevano essere pronti per assorbire mezzo milione di ungheresi in primavera».

«Mezzo milione?». Jacob non credeva alle sue orecchie.

«Ecco perché Höss ha speso tanti soldi per ampliare i campi».

«Stai dicendo che si stanno preparando per l’arrivo di mezzo milione di ebrei ungheresi qui ad Auschwitz?», chiese Jacob.

«Be’, a Birkenau, a essere precisi. E potrebbe anche essere più di mezzo milione. Ragion per cui tutto dev’essere pronto in fretta».

«Pronto per cosa?»

«Per ucciderli».

A Jacob venne la pelle d’oca. All’improvviso si ritrovò senza fiato, come se qualcuno gli stesse schiacciando il petto.

«Ne sei sicuro?», chiese Jacob.

«Mi fido di quel ragazzo al cento percento», rispose Josef.

«L’hai detto a qualcun altro?»

«No, tu sei il primo».

«Sicuro?»

«E a chi dovrei dirlo? Qui non ho conoscenze. Ho aspettato che Luc mi trovasse, ma nessuno ha mai preso contatti con me finché non ho visto te l’altro giorno».

«D’accordo», disse Jacob. «Ascolta, dobbiamo farti uscire da qui. Infilati questo pezzo di pane in tasca e un’arancia, poi usa la porta sul retro. Ti darò altro cibo ogni mattina dopo l’appello. Ma per ora non parlare a nessuno di me. E non tornare qui. È troppo pericoloso. Capito?»

«Va bene, amico mio. Qualunque cosa desideri», rispose Josef. «Tu cosa farai?»

«Non lo so», rispose Jacob. «Ma lascia che me ne occupi io».

Josef si alzò, diede a Jacob un altro abbraccio e filò via dalla porta sul retro.

Jacob si sedette un attimo nel laboratorio. Doveva informare Otto e Abe, e loro dovevano avvisare il rabbino capo di Budapest e tutti gli ebrei d’Ungheria di quello che Hitler stava pianificando. Assicurarsi che quegli ebrei non mettessero piede sui treni.

Jacob chiamò Luc nello stanzino.

«Come sta Josef?», chiese Luc a porta chiusa.

«Non bene», rispose Jacob. Poi arrivò al punto. «Ascolta, hai più sentito niente sugli ungheresi?»

«No, mi dispiace. Ho chiesto a parecchie fonti ma nessuno ne sapeva nulla. Perché? Tu invece?».

Jacob gli raccontò in fretta le informazioni che Josef gli aveva riferito. «Non posso aspettare oltre. Devo incontrare Otto e Abe stasera. È urgente. Se non loro, qualcun altro che gestisce la faccenda. La notizia deve arrivare a chiunque sia a capo del movimento clandestino: quegli ebrei non possono salire sui treni. Non c’è più tempo, Luc».

Luc promise che avrebbe recapitato l’informazione nelle mani giuste. Jacob gliene fu grato, tuttavia non si dava pace. Così tanti ebrei erano morti per mano nazista. E adesso mezzo milione o più era diretto verso quella fabbrica di morte. Non sopportava il pensiero. Gli Alleati e la comunità ebraica ungherese dovevano esserne informati, essere messi al sicuro.

Quella notte le camerate dove dormiva Jacob vennero disinfettate, spidocchiate e spazzolate da cima a fondo. E così un’altra dozzina. Diverse centinaia di prigionieri dormirono sul pavimento della mensa.

Jacob si girò e rigirò tutto il tempo. Spense la cacofonia di chiacchiere, grugniti, il russare e anche il morire di chi gli stava attorno. I suoi pensieri erano altrove. Concentrati sulla fuga.

Se Steinberger e Frenkel erano ancora vivi e pronti per andarsene, Jacob avrebbe fatto qualunque cosa in suo potere, si sarebbe assunto ogni rischio possibile per aiutarli. Ma non gli avrebbe solo dato una mano a ritrovare la loro libertà. Avrebbero dovuto studiare un piano per informare i leader ebrei ungheresi del pericolo che la loro gente correva. Bisognava persuaderli a ribellarsi. Cos’avrebbero fatto i nazisti se mezzo milione di ebrei fosse insorto e li avesse attaccati? Li avrebbero sterminati tutti? Probabilmente sì. Ma avrebbero pagato un prezzo elevato. Li avrebbero dovuti ammazzare all’aperto, sotto gli occhi del mondo intero, e allora tutti avrebbero saputo chi era Hitler davvero. Churchill, Roosevelt e il resto dei leader del mondo libero non avrebbero più ignorato il male che veniva perpetrato nell’oscurità. Tutto sarebbe venuto alla luce.

Poi avrebbero liberato i campi. Non solo Auschwitz-Birkenau. Tutti i campi.

Dovevano farlo. Avevano altra scelta?

 

Fuga da Auschwitz
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