Sessantanove

All’una in punto, Jacob si spostò verso la posizione stabilita.

Una pioggerella primaverile iniziò a cadere e presto si ritrovò fradicio fino alle ossa, ma si rifiutò di lasciarsi distrarre. Portava due larghe brocche di acqua fresca e diverse paia di calzini puliti avvolti nella carta di giornale perché rimanessero asciutti. Una serie era destinata alle guardie che presidiavano i cancelli fuori dal campo principale di Birkenau e verso il cantiere di Birkenau-II. La seconda serie era per le guardie che supervisionavano i prigionieri che costruivano le nuove baracche. Erano tentativi di corruzione, puri e semplici. Finora avevano sempre funzionato. Stavolta non fu diverso. Le guardie lo lasciarono passare senza incidenti.

Fuori dal cantiere, altre guardie erano accalcate in una piccola capanna di legno a fumare sigarette e giocare a carte. Più forte la pioggia cadeva, meno tempo stavano all’esterno. Infilavano la testa fuori giusto per assicurarsi che i prigionieri non si stessero azzuffando, ma di certo non prestavano loro molta attenzione. Luc avrebbe detto che era la mano della Provvidenza, pensò Jacob. Anche Abby. Forse lo era. Oppure era solo fortuna.

Poi allungò una scatola di cioccolatini svizzeri a uno dei kapo del cantiere, fece due chiacchiere sul tempo e sul nuovo gruppo di francesi che era appena arrivato al campo principale. Jacob non era mai quello che parlava di più. Ma ormai aveva imparato a porre qualche domanda provocatoria per accendere una conversazione. Una volta che gli uomini iniziavano a parlare, non c’era modo di fermarli.

Il piano filava liscio come l’olio.

Poco prima delle due, vide Steinberger e Frenkel che da direzioni diverse si avvicinavano alla catasta di legna.

Il momento era arrivato. Muovendosi con sicurezza e in fretta, li incontrò e si arrampicò in cima alla pila. Il legno era bagnato e piuttosto scivoloso. Si guardò intorno: nessuno lo stava osservando. Spostò in fretta alcune assi rivelando il buco che nascondevano. Prese Otto per mano e lo aiutò a salire. Due secondi dopo, Otto si lasciò cadere nella cavità e sparì dalla vista.

Poi fu il turno di Abe e qualche istante dopo anche lui era al sicuro. Avevano già calato gli zaini e le provviste nel piccolo spazio, ora non avevano bisogno d’altro.

«Buona fortuna, ragazzi», sussurrò Jacob.

Cinque secondi più tardi era già lontano. Era a metà strada verso la capanna delle guardie quando il suo cuore si fermò di colpo. Era così nervoso, bagnato e concentrato a far calare gli uomini nel buco che si era completamente dimenticato di spargere il tabacco russo sulle assi. Maledicendosi per aver commesso un errore tanto stupido, si voltò e corse verso la pila. Quando ci tornò, non disse nulla. Tirò fuori la piccola borsa di tela contenente il tabacco e fece quello che aveva promesso di fare.

Dopodiché si allontanò in una direzione diversa, il cuore in gola, terrorizzato che qualcuno lo avesse avvistato e che potesse aver rovinato tutto.

Poi gli venne un altro timore: e se la pioggia avesse lavato via l’odore del tabacco, permettendo ai cani di scovare Steinberger e Frenkel?

 

Le ore non passavano abbastanza in fretta.

Jacob tornò alla sua baracca e continuò a comportarsi come se niente fosse.

Venne a sapere da un kapo che un ebreo francese di quarantacinque anni era appena morto in uno dei cantieri della Buna, e che un prigioniero politico polacco di trentotto era stato picchiato a morte da due guardie.

Jacob non sapeva quanto a lungo avrebbe resistito. A marzo, ventinove prigionieri della sua baracca erano morti. Trentasei a febbraio, da aggiungersi ai cinquantuno deceduti a gennaio. Tifo. Dissenteria. Fame. Le condizioni del tempo. Le botte. Lo sfinimento. I nazisti non avevano bisogno dello Zyklon B. Avevano una lunga serie di mezzi per ammazzare un uomo.

Jacob finì di compilare il resoconto giornaliero. Poi, come unica deviazione dal suo itinerario usuale, passò dalla panetteria per assicurare Luc che era andato tutto bene. Intanto, gli sembrava che una bomba stesse per scoppiare da un momento all’altro.

E poi accadde. Jacob era sull’attenti con gli uomini della sua baracca per l’appello delle sette quando le sirene iniziarono a suonare e un brivido gli percorse la schiena. Von Strassen aveva fatto delle esercitazioni negli ultimi mesi per assicurarsi che le nuove procedure di emergenza contro i fuggiaschi fossero seguite con scrupolo, quindi la maggior parte dei suoi uomini pensò che si trattasse di un falso allarme. Ma lui sapeva che le cose stavano diversamente. Non mosse un muscolo nemmeno quando migliaia di truppe armate si riversarono fuori dai bunker, assumendo le loro posizioni, formando squadroni e correndo fuori dal campo per iniziare le ricerche.

La caccia era iniziata. La lancetta batteva i secondi. Jacob si augurava di resistere all’attesa.

Grazie al suo lavoro al chiuso nella panetteria, al cibo in più che aveva mangiato, al suo nuovo incarico all’archivio e alle razioni extra che Steinberger e Frenkel si assicuravano ricevesse ogni giorno, Jacob era fisicamente più forte e in salute di quando si trovava alla Buna o nei campi di verdure. Quindi stavolta era preparato per le nove ore in piedi sotto la pioggia che tutti i prigionieri avrebbero dovuto sopportare. Sapeva però che gli uomini accanto a lui erano più deboli di qualche settimana prima e soffriva vedendoli cadere uno dopo l’altro. Si ripeté più volte che quello era un prezzo inevitabile da pagare. Per salvarne molti, bisognava perderne alcuni. Ma il suo cuore si spezzava mentre guardava uomini adulti piangere e collassare ed essere picchiati e fucilati.

I prigionieri vennero rilasciati poco prima dell’alba, ma la caccia all’uomo continuò. Andò avanti per tre giorni e tre notti, come previsto. Invece la sera del 9 aprile accadde qualcosa che Jacob non aveva previsto.

Stava tornando alle baracche dopo cena e sentì un rombo distinto provenire da ovest. Era un suono che aveva già sentito prima, anche se mai in quel luogo. Sembrava un aeroplano. Anzi, diversi aeroplani.

Si voltò a scrutare il cielo. Proprio allora, le nuvole si aprirono per un istante. Era uno squadrone di aerei degli Alleati che scaricavano dozzine di bombe.

Gli aerei non volavano sopra le loro teste, bensì a diversi chilometri a sudovest, perciò le bombe non gli stavano piovendo addosso e Jacob non era in pericolo imminente.

Ma dove stessero cadendo non importava. La paura era il sentimento più distante che provava in quel momento. Piuttosto, provava una mix di shock e gioia assoluta. Era successo! Avevano aspettato mesi e mesi e ora il momento era arrivato! Leszek e la sua squadra erano riusciti a oltrepassare le linee nemiche, alla fine. I loro amici avevano raccontato ai generali alleati i crimini che i nazisti stavano commettendo ad Auschwitz e gli americani e i britannici finalmente erano arrivati per fermarli.

Presto prigionieri di ogni età cominciarono a riversarsi fuori dalle proprie baracche e dai gabinetti, ridendo ed esultando mentre le bombe colpivano i loro obiettivi. La terra tremava e da lontano si vedevano enormi palle di fuoco e fumo nero salire nel cielo scuro.

Ma proprio quando le guardie del campo iniziarono a suonare i fischietti e gli uomini sulle torri a puntare le mitragliatrici verso il cielo, gli aerei alleati improvvisamente scomparvero. Le bombe smisero di cadere. La terra smise di tremare e presto tutto fu immerso nel silenzio. Si sentiva solo il rombo delle fiamme che salivano dalla fabbrica IG Farben.

Si fece un secondo appello, e quando Von Strassen e i suoi uomini furono certi che mancavano soltanto Steinberger e Frenkel – e che nessun altro era fuggito durante i bombardamenti – agli uomini fu permesso di tornare alle proprie baracche. Non erano ancora le otto. La notte era giovane, ma i soldati non abbassavano la guardia.

 

Dopo settantadue ore di tensione, la caccia all’uomo venne interrotta.

Ne seguirono gli inevitabili interrogatori. Chi lavorava direttamente per Otto e Abe venne torturato e impiccato, ma per miracolo le tracce non portarono mai a Jacob, Luc, Josef o Abby né a nessun altro della loro squadra. Il sistema che avevano elaborato era così articolato che Von Strassen non riuscì a trovare un singolo filo allentato da tirare, e nel giro di circa dieci giorni un senso di calma relativa calò di nuovo sul campo, a parte le sistematiche uccisioni.

Quando la situazione si tranquillizzò, Jacob e Luc sgattaiolarono nello stanzino sul retro della panetteria, una mattina, incapaci di credere alla loro fortuna. Erano ancora vivi. Steinberger e Frenkel erano al sicuro fuori dal campo, verso la Cecoslovacchia e poi l’Ungheria. Fischer e Kopecký erano pronti con il loro piano e si sarebbero mossi alla prima occasione propizia.

La sola delusione immediata – nonché fonte di confusione – era cercare di capire perché le bombe degli Alleati erano state indirizzate solo alla fabbrica di plastica sintetica e non ai binari che portavano ad Auschwitz, Birkenau e agli altri campi satellite. Perché gli Alleati avevano deciso di penetrare lo spazio aereo nemico solo per colpire una fabbrica di plastica non ancora terminata anziché le fabbriche di morte? Leszek non gli aveva forse spiegato tutto?

Qualcosa non quadrava.

Magari era solo un test, Jacob disse a Luc una sera. Magari i bombardieri sarebbero tornati. Dopotutto, anche se i tedeschi avevano posizionato delle pattuglie contraeree nell’area, agli Alleati sarebbe stato evidente che gli uomini non erano ben addestrati a utilizzarle. I bombardieri non avevano incontrato nessuna resistenza, per quanto lui, Luc o i loro informatori nel campo ne sapessero. Non c’era ragione, quindi, perché Londra, Washington o addirittura Mosca non ordinassero ulteriori attacchi, perciò ogni prigioniero si aspettava che sarebbero tornati.

Eppure trascorse una settimana senza che succedesse niente.

Poi due.

E poi arrivò maggio, senza che si fossero viste azioni di salvataggio. Né sentito il suono di aerei nell’aria.

 

Fuga da Auschwitz
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