Trentaquattro

Il primo giorno sembrò interminabile.

Ma Jacob non poteva permettersi il lusso di lamentarsi. Si sforzò di non pensare ad Avi, al resto della famiglia e agli amici. Non ancora. Non in quel momento. Non poteva perdere colpi. La sua vita dipendeva da quello. Non la qualità della vita, bensì la semplice sopravvivenza.

A un certo punto vide la guardia del campo pestare a morte un vecchio. La colpa dell’uomo? Non si era tolto il cappello per salutare i soldati prima di passargli accanto.

Un’altra volta Jacob aveva visto Gruder strozzare un ragazzo solo perché gli aveva chiesto dove fossero i bagni. Nella stessa ora, aveva sferrato un pugno in faccia a un uomo per non aver detto «Sì, signore» e «Grazie, signore».

Chi piangeva mentre veniva picchiato, veniva picchiato più forte. Chi camminava troppo piano si beccava venti frustate. Un prigioniero che domandò quando avrebbe potuto bere scomparve e non fu mai più rivisto. La lista di regole non scritte stava piano piano emergendo con brutalità, e Jacob le annotava con attenzione nella mente. Niente domande. Niente lamentele. Niente mancanze di rispetto. Niente pigrizia. Niente seconde possibilità. Niente pietà.

Alle sette di quella sera suonò un gong e i prigionieri fecero ritorno dalle proprie mansioni in giro per il campo. In un cortile si stava facendo l’appello. Ci volle quasi un’ora. Ogni numero fu chiamato. Ogni tatuaggio sulle braccia fu controllato. Solo allora agli uomini venne permesso di cenare.

Jacob tirò un sospiro di sollievo. Aveva l’acquolina in bocca. Si disse di non illudersi, perché a tavola non ci sarebbero stati Schnitzel e strudel di mele. Ma aveva bisogno di assumere calorie, quindi avrebbe divorato qualunque cosa.

Sbagliava.

Jacob rimase allibito da quello che si trovò nel piatto. Un pezzo di salame avariato. Due fette di formaggio ammuffito. Circa trecento grammi di pane nero, che per qualche ragione era coperto di polvere e schegge di legno. E una tazza di putrida acqua bollente marrone che Gruder chiamava caffè. Alcuni allontanarono il piatto disgustati. Anche Jacob stava per farlo, ma il pensiero di tutti quegli uomini emaciati lo fece desistere. Era tutto? Non gli avrebbero dato altro cibo? Se era così, che scelta aveva? Se non avesse mangiato si sarebbe consumato in fretta, forse sarebbe morto prima. E Jacob non voleva morire.

Chiuse gli occhi per un attimo per prendere una decisione: doveva vivere. Non si sarebbe arreso. Sarebbe fuggito, se possibile. Sarebbe sopravvissuto a ogni costo. I nazisti gli avevano portato via la casa, i vestiti, la dignità. Ma solo lui poteva rinunciare alla voglia di combattere e non lo avrebbe mai fatto. Avrebbe mangiato. Avrebbe messo da parte l’orgoglio. Avrebbe inghiottito qualunque cosa gli avessero messo davanti, e se ci fosse riuscito, magari avrebbe persino rubato del cibo.

Zio Avi avrebbe approvato la sua decisione, al suo posto si sarebbe comportato nello stesso modo. Quindi aprì gli occhi e allungò la mano verso il pezzo di salame. Non c’era più. E nemmeno il pane. La sua cena era scomparsa, così come gli uomini della sua caserma.

Più spaventato che affamato, Jacob saltò in piedi, corse fuori dalla sala mensa e poi nel cortile. Vide i suoi compagni che giravano l’angolo e li raggiunse.

Per fortuna Gruder era in cima alla fila e non sembrava essersi accorto che Jacob era scomparso. Stava per condurli verso un edificio chiamato Blocco 18, quando uno degli uomini scappò dal gruppo e si mise a correre verso la recinzione. Gruder urlò intimandogli di fermarsi, lui però non gli diede ascolto. Non fece neanche trenta metri e venne maciullato dal fuoco delle mitragliatrici.

Jacob trasalì, non solo per la crudeltà della scena a cui aveva appena assistito. Si rese conto che avrebbe potuto essere fucilato per il solo fatto di correre. Scoprì un’altra regola non scritta, anzi due: non correre e stare lontani dal filo spinato.

Sconvolti, gli uomini salirono le scale senza dire una parola. Gruder ordinò di oltrepassare una porta sulla sinistra. Il Blocco 18 era pieno di letti a castello a tre piani. Ciascuno aveva un materasso sottile con sopra un’esile coperta di lana verde ripiegata.

Il problema diventò subito ovvio: non c’erano abbastanza letti per tutti gli uomini sotto il controllo di Gruder. Quando i prigionieri se ne resero conto, iniziarono a spingere e a farsi largo per assicurarsi un giaciglio e una coperta. Jacob riuscì a balzare in cima a un letto nell’angolo più lontano della stanza proprio mentre Gruder iniziava a imprecare e a gridare. Ordinò a tutti di mettersi a letto all’istante, senza eccezioni. Il che significava almeno due, se non tre persone sullo stesso materasso.

Jacob si ritrovò a condividere il letto con un tale sulla quarantina, magro, occhi fuori dalle orbite e che emanava uno strano olezzo, e con un ragazzo sconvolto che aveva circa la sua età. Nessuno si presentò. Non incrociarono nemmeno gli sguardi. L’uomo prese la coperta per sé, lasciando gli altri a bocca asciutta. In più, non faceva che spingerli per farsi spazio. Prima che Gruder spegnesse le luci, Jacob vide sull’uniforme dell’uomo un triangolo nero. Il marchio di asociale gli calzava alla perfezione. Il giovane portava un triangolo giallo. Era ebreo anche lui.

Notò un fornello a carbone in mezzo alla stanza, ma non c’erano né carbone né fuoco. Le finestre erano serrate da sbarre d’acciaio. Il pavimento era disseminato di paglia e gli ricordò il carro bestiame che lo aveva portato lì.

Al buio, Jacob aveva freddo e si sentiva esausto. Eppure non riuscì ad addormentarsi. Non con quel pazzo che spingeva e tirava calci. Non con uomini che si lamentavano e piangevano attorno a lui. Non con chi russava pesantemente o si sentiva libero di parlare fra sé e sé. Non con lo stomaco che brontolava e con la bocca secca. Non con il terrore di cosa avrebbe portato la notte o l’indomani. Si ricordò delle lettere che la gente aveva letto sul treno. Pensò agli avvertimenti nascosti che avevano cercato di lanciare ai propri cari. Riusciva quasi a vedere l’angelo della morte volare sopra quel posto. Non se ne andava. Era venuto per derubare, uccidere, distruggere, e per la prima volta nella sua vita Jacob ebbe paura di chiudere gli occhi. Era più forte il timore di non risvegliarsi o quello di riaprirli?

Fissò il soffitto nell’oscurità totale e provò a pensare ad altro, qualunque altra cosa che non fosse la morte. Si chiese chi fossero le persone che aveva attorno. Come si chiamavano? Non voleva arrabbiarsi con loro. Dopotutto erano nella sua stessa barca. Da dove venivano? Com’erano stati catturati? A cosa pensavano? Qualcuno di loro faceva parte della Resistenza? Poteva fidarsi?

Non c’erano risposte, almeno non quella sera, e Jacob di sicuro non si sarebbe messo a fare domande. Ma forse nei giorni a venire, se avesse prestato attenzione, avrebbe iniziato a conoscere gli uomini che condividevano la sua stanza, per capire chi poteva essere un nemico e chi, magari, un alleato.

 

Fuga da Auschwitz
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