Quaranta

In lontananza, Jacob sentì risuonare un altro fischio.

Max stava ammirando un vecchio violino appena tirato fuori da uno dei bauli. Quando si accorse che Jacob lo stava guardando, glielo gettò in mano. Jacob, colto alla sprovvista, lo afferrò per un pelo.

«Perché lo hai fatto?», chiese, infastidito.

«Credevo che lo volessi». Max rise e continuò a separare le calze da donna da un ammasso di foulard e cappelli.

«Non è per quello che ti guardavo».

«Allora perché?»

«Il treno», disse Jacob, appoggiando con cautela il violino in una larga cassa di strumenti musicali e tornando a impilare le centinaia di libri che avevano tirato fuori dai carri bestiame.

«Ti prego, dimmi che non è diretto qui».

«E dove altrimenti?»

«Porta altri ebrei?»

«Certo, e forse anche qualche rom o prigioniero politico, tanto per gradire».

«Quanti treni arrivano ogni giorno?»

«Dipende. Ultimamente ne arrivano di più: due o tre. Una volta persino cinque».

«Cinque?»

«Era un’occasione speciale, credo», disse Max. «Ammazza tre ebrei e ne guadagni due gratis».

«Non è divertente», disse Jacob.

«Credevo di sì», rispose Max. «Suoni?»

«Cosa?»

«Il violino. Lo suoni?»

«Lo suonavo».

«Magari potresti far parte dell’orchestra».

«No, grazie. Già che ci penso, oggi nessuno sta suonando. Perché?»

«Il direttore è stato ucciso ieri».

«Per cosa?»

«Per aver cercato di rubare del pane dalla cucina. Due dei suoi amici – un suonatore di tromba e un altro tizio che suonava il clarinetto – si sono presi la dissenteria. Gli hanno chiesto di andare in cucina a procurare loro qualcosa di decente da mangiare. Purtroppo Louie il grassone l’ha beccato. Gli ha sparato alla nuca. Comunque cercano un direttore d’orchestra. Ti ispira?»

«Non più».

«Be’, potresti pur sempre suonare il violino», disse Max. «Senza rubare pane».

«Penso che lascerò perdere».

«Perché? Non sei bravo?».

Jacob fece spallucce.

«Scommetto di sì».

«No», disse Jacob, leggendo furbizia negli occhi di Max.

«Sei solo timido».

Si rimisero al lavoro. Max piegava e smistava come un commesso, Jacob suddivideva e impilava libri come un bibliotecario.

«Stai maneggiando la tentazione più grande che ho avuto da quando sono arrivato qui».

«Cioè?»

«Rubare un libro e portarlo al mio blocco per leggerlo la notte».

«Perché non lo fai?»

«Stessa ragione per cui tu non vuoi suonare il violino: voglio sopravvivere», rispose Max. «Inoltre, Leszek mi perquisisce ogni sera per assicurarsi che io non abbia perso la testa e rubato qualcosa nonostante i suoi avvertimenti».

«Che gliene importa?», domandò Jacob.

Max non rispose, cosa bizzarra. Fu la sua espressione a suggerire a Jacob che aveva toccato un nervo scoperto. Max cambiò in fretta argomento.

«Dobbiamo sbrigarci», disse. «Essere pronti quando arriva il prossimo treno».

Velocizzarono il lavoro, sistemarono le pile nelle casse e le portarono al magazzino perché fossero catalogate e archiviate. Poi Max chiese: «Jacob, la data del 10 maggio 1933 ti dice qualcosa?»

«Non proprio, perché?»

«Il rogo dei libri, ricordi?»

«Intendi quello a Berlino?»

«Non solo a Berlino», rispose Max. «È successo in ogni università del Paese».

«Ero molto piccolo», disse Jacob.

«Anch’io, ma tuo padre era un professore, giusto?»

«Giusto».

«Non ti ha raccontato di una cosa così terribile?».

Jacob fece spallucce. «Forse cercava di proteggermi».

«Mio padre no», disse Max. «Ti ho detto che era un rabbino. A dire il vero era il rabbino capo. Tutti in città lo adoravano. Be’, tutti gli ebrei. Lui però era un grande amante della parola scritta, a iniziare dalla Torah e dalla Mishnah. Amava i libri alla follia. Li divorava, ne leggeva diversi a settimana, ottanta o novanta o più in un anno. Era un lettore insaziabile. E quando i nazisti bruciarono tutti quei volumi, rimase inorridito. In quel periodo vivevamo a Berlino: mio padre doveva incontrare altri rabbini capo della Germania. Quella notte, senza dire niente a mia madre, mi ha tirato giù dal letto e portato sul tetto dell’edificio di medicina dell’Università di Berlino. Siamo rimasti lì in piedi a guardare la scena».

Jacob si sforzò di continuare a lavorare, ma era catturato dalla storia di Max.

«Gli studenti arrivavano in massa per bruciare libri. Centinaia. E portarono con sé centinaia di volumi. Io ero solo un bambino. Non avevo mai visto tanti libri insieme, nemmeno in biblioteca. E poi accesero un falò. Le fiamme erano alte cinque, dieci, venti metri nel cielo. Era ipnotico. Iniziarono a gettare libri nel fuoco, gridavano i nomi degli scrittori e ridevano. C’erano libri di ogni genere e autore: H.G. Wells, Albert Einstein, Sigmund Freud, tutti i più grandi. E bruciavano fra le fiamme. Tutto ciò che i nazisti definivano eretico o non-tedesco. Idee che finirono al rogo. Mio padre era fuori di sé. Era pieno di dolore, di rabbia. Durante le settimane e i mesi successivi si sfogò con chiunque stesse a sentirlo. Ma nessuno voleva parlarne e tutti temevano che si sarebbe fatto venire un infarto a scaldarsi tanto. O peggio, temevano che si sarebbe fatto arrestare dalla Gestapo perché affrontava l’argomento pubblicamente. Comunque, un giorno mio padre disse che aveva sentito una battuta di Freud. “Solo i nostri libri? In altri tempi, avrebbero bruciato noi”. Gli sembrò una battuta perspicace, forse la prospettiva migliore da cui affrontare la situazione. Sì, quello che i nazisti avevano fatto era terribile, mi disse. Ma Freud aveva ragione: poteva andare peggio. Molto peggio. Provò a darsi una calmata, a non lasciare che la cosa lo distruggesse. E poi lui, io e mia madre fummo radunati una notte, gettati su un treno e trascinati nell’oscurità finché non ci risvegliammo qui. Mi hanno mandato a destra. Mio padre e mia madre sono finiti a sinistra. Non li ho mai più rivisti».

Jacob smise di lavorare. Sentì di nuovo il fischio. Il treno stava entrando nella stazione. Dovevano finire, sbrigarsi. «Mi dispiace», disse.

A quel punto fu Max a fare spallucce e ad asciugarsi gli occhi dalle lacrime. «Cosa ci possiamo fare?»

«Heine aveva ragione».

«Chi?»

«Heinrich Heine».

«Il poeta?»

«Sì».

«Era uno dei preferiti di mio padre», disse Max.

«Anche del mio», disse Jacob.

«Quindi cosa diceva Heine?»

«Quando i libri bruciano, alla fine bruceranno anche le persone».

Max rimase immobile.

«Lo ha scritto davvero?»

«Già», rispose Max.

«Quando?»

«Non saprei. Forse nel 1821 o 1822».

«Profetico», sospirò Max.

Jacob annuì. «Sì, profetico».

Fuga da Auschwitz
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