Sessantadue

L’incontro non avvenne né quella sera né la successiva.

Tre giorni dopo, proprio quando il gong segnalava la fine della giornata di lavoro e loro uscirono dalla panetteria, Luc passò a Jacob una nota.

Il ragazzo la guardò e la srotolò. C’era scritto semplicemente “tavolo nove”. Quando Jacob alzò la testa, Luc era scomparso. E con lui anche i cechi. Si diresse alla mensa senza perdere tempo.

Quando arrivò, passò in rassegna centinaia di volti ma non trovò traccia di Steinberger e Frenkel. Attese in fila, si prese la sua mezza tazza di zuppa e un pezzo di pane, poi trovò il tavolo nove. Non c’era nessuno che conosceva, ma iniziò a mangiare piano, sforzandosi di non guardarsi in giro, di non sembrare nervoso, di non fare niente che attirasse l’attenzione. Indugiò il più a lungo possibile, nella mensa però entravano sempre più prigionieri. Non poteva trattenersi ancora per molto. La zuppa era fredda. Prese l’ultima cucchiaiata. Quando si infilò in bocca l’ultimo pezzetto di pane, decise di rinunciare e di tornare alla sua camerata. Ma qualcuno gli comparve alle spalle e sussurrò: «Seguimi».

Sorpreso, si voltò e vide una figura che si allontanava nella folla. Saltò in piedi e cercò di raggiungerlo. Uscito dalla mensa, vide l’uomo dirigersi verso est lungo una fila di edifici e infilarsi dietro un angolo. Jacob si mosse in fretta, ma non osò correre.

Quando svoltò, il tale lo afferrò per un braccio e lo tirò dentro una porta. Gli disse in un sussurro di uscire dall’altro lato dell’edificio.

Jacob ubbidì e sei minuti più tardi si trovò nel Campo D, dentro un’altra caserma.

Era vuota, c’erano solo due uomini.

«Capo Weisz, è un onore rivederla», disse Otto Steinberger stringendogli con vigore la mano. «Spero che ti ricorderai di me. Sono Otto, e lui è Abe Frenkel».

«Sì, certo, ricordo entrambi», rispose Jacob, cauto. «Anzi, credevo che voi vi foste dimenticati di me».

«Dimenticati? Per niente», lo rassicurò Otto. «Vieni a sederti e a bere un tè con noi. Ci sono anche delle mele e del miele. Accomodati».

«Mele e miele?», chiese Jacob. «È il Rosh Hashanah?»

«Non per tutti», rispose Abe. «Ma per noi sì. È l’inizio di un nuovo anno, ed è ora di renderti parte attiva».

Jacob si sedette. Otto gli allungò una fetta di mela. Abe gli offrì una tazzina di miele. Jacob immerse la fetta come fecero gli altri due e mangiarono insieme.

«Shana tova!», disse Otto.

«Shana tova!», fece eco Jacob, incerto di come potesse essere un buon anno con le vite di mezzo milione di ebrei appese a un filo.

Jacob non sapeva cosa pensare di quei due. Da un lato era desideroso di mettersi al lavoro e di raccontare ciò che sapeva, di scoprire che piano avessero e come poteva aiutarli. Ma vederli così felici e in salute lo infastidì. Dov’erano finiti? Perché l’avevano tagliato fuori?

«Mi avevano detto che sarei venuto qui per aiutarvi», esordì, cauto. «Perché non mi avete cercato prima?»

«Ti stavamo mettendo alla prova», rispose Otto. «Volevamo vedere di che pasta eri fatto».

«Leszek si fidava di me», disse Jacob.

«A Piotr piacevi, sì, però non si fidava», disse Otto. «C’è differenza».

«Che vuoi dire?», domandò Jacob sulla difensiva.

«Se si fosse fidato, avresti fatto parte della squadra che lo ha aiutato a scappare», intervenne Abe. «Non fraintenderci. A Piotr piacevi molto, credeva che ti saresti rivelato utile per un progetto più ampio. Ma non ne era sicuro al cento percento. Eri troppo nuovo. Quindi ha facilitato il tuo inserimento, abbastanza perché Max ti valutasse insieme ad Abby e a noi. E quello che abbiamo visto ci è piaciuto. Avevamo bisogno di vedere di più».

«Ma non era tutto», disse Otto.

«Cioè?»

«Luc ti avrà detto che ti tenevano d’occhio», continuò Otto sorseggiando il tè. «Dato che lavoravi per Piotr, Von Strassen e gli altri sospettavano che ne sapessi quanto Max. All’inizio hanno usato i guanti di velluto con te. Comunque ti controllavano come falchi. Speravano che li conducessi ad altri membri della Resistenza. Però non è andata così».

«Perché non potevo», disse Jacob.

«Esatto». Otto affondò un altro pezzo di mela nel miele. «E adesso hanno arrestato e impiccato tre criminali insignificanti ad Auschwitz. Credono che abbiano fomentato una cospirazione. Il che per noi è un bene. Li porta fuori strada. Quindi abbiamo aspettato un po’ di più, giusto per assicurarci che non fosse un tranello. E nel frattempo abbiamo chiesto a Luc di passarti abbastanza pane da mangiare».

«Per ingrassarmi in vista del macello?»

«Per prepararti a scappare».

Le parole rimasero sospese nell’aria. Le aveva sentite davvero? Era senza fiato. «Scusa?», balbettò. «Puoi ripetere?»

«Hai sentito», disse Abe. «Io e Otto ce ne andremo molto presto. Tuttavia abbiamo imparato una lezione da quello che è successo a Piotr e alla sua squadra. Non possiamo solo aiutare un gruppo a uscire. Dobbiamo preparare diversi gruppi contemporaneamente. Così, se passa un mese e non cambia niente, se nessuno viene a liberare i campi, allora la squadra successiva sarà pronta alla fuga. E se il campo non si libera in un altro mese, anche la squadra che viene dopo si metterà in moto. Vogliamo che tu sia uno di loro».

A Jacob si alzò il morale all’istante.

«Ti sei dimostrato un gran lavoratore, un giovane meritevole di fiducia», disse Otto. «Intelligente, acuto, pieno di risorse. E silenzioso. Inoltre, nutrivamo il massimo rispetto per tuo zio».

«Grazie. Siete gentili».

«La gentilezza non c’entra», disse Abe. «Questa cosa si basa sul merito. Tutti all’interno del campo vorrebbero scappare. Certo. Non tutti però possono farcela».

«Capisco».

«Sicuro?».

Jacob annuì. «Credo di sì».

«Pensaci bene. Noi ci diamo una possibilità su quattro di riuscire a uscire ed entrare in contatto con gli Alleati. Pensiamo che le tue chance siano ancora più basse. Forse una su cinque o sei».

«Così basse?»

«Così alte!», esclamò Otto. «La maggior parte degli uomini del campo non avrebbe che una possibilità su venti di sopravvivere».

«Il cinque percento?»

«A essere ottimisti», insistette Otto. «Nello schema delle cose, crediamo che tu e la tua squadra abbiate una chance».

«Quante persone ci sono in ogni gruppo?», chiese Jacob.

«Crediamo che due sia il numero perfetto», spiegò Abe. «Tre sarebbe ingombrante».

«Posso scegliere il mio compagno?»

«No, te ne assegneremo uno noi».

«Perché?»

«Perché noi sappiamo quel che stiamo facendo, tu no», rispose Otto con franchezza. «Ti addestreremo. Ti aiuteremo a sviluppare un piano e ti insegneremo tutto quello che abbiamo imparato. Ti diremo chi contattare quando uscirai – se uscirai – e cosa dire. Ma tu dovrai mettere insieme le provviste e seguire alla lettera i nostri ordini, senza domande».

Cosa? Stavano scherzando? «Non posso acconsentire», rispose piattamente. «Non ancora. Prima ho delle domande. Poi vi darò le mie risposte».

«Ci sono solo certe cose che possiamo dirti prima che tu accetti», lo avvertì Abe.

«D’accordo».

Otto e Abe si guardarono. Non dissero nulla, poi si voltarono verso Jacob, il quale non aveva ancora toccato la sua tazza di tè. Ma ora la prese e addolcì il liquido scuro con qualche goccia di miele, assaporando ogni sorso. Cercava di combattere le emozioni contrastanti e di concentrarsi. Prima di quell’incontro era quasi pronto a saltargli addosso. Era furioso che lo avessero lasciato fuori a cuocere sotto il sole e a correre il rischio di morire di fame o sfinimento o di essere picchiato da qualche guardia impazzita che gestiva quell’insano luogo. Adesso però riusciva a comprendere la loro logica. Se davvero lo tenevano d’occhio, per forza avevano aspettato. Era nuovo. Doveva passare diverse prove e scoprire a sue spese l’arte della sopravvivenza. Ora lo avevano reclutato perché aveva passato i loro test. Avrebbe solo preferito che qualcuno si fosse preso il disturbo di dirglielo prima, di metterlo al corrente.

«Va bene, credo di avere soltanto una domanda al momento», disse Jacob infine.

«Quale?», chiese Otto.

«Luc vi ha detto quello che ho scoperto sugli ungheresi? Se sì, lo sapevate? È vero? Cosa pensate di fare?».

Abe rise. «Sono quattro domande».

«Consideratele una sola», disse Jacob con una decisione che sembrava appartenere più allo zio Avi che a lui o a suo padre.

«Perfetto», rispose Abe. «Sì, abbiamo sentito qualche voce a riguardo. Da qualche mese, a dire il vero, ma siamo stupiti che anche tu l’abbia saputo e con un simile livello di dettaglio. Ottimo lavoro. Ecco perché ora dobbiamo muoverci. Piotr e la sua squadra sono usciti, tuttavia non sappiamo cosa gli sia successo. Da quando sono andati via, non abbiamo più sentito niente dalla Resistenza fuori da qui. Non abbiamo idea del motivo. Forse sono stati catturati e uccisi. Forse stanno ancora nascondendosi. Forse hanno riferito tutto alla Resistenza ma i leader non gli credono o non hanno le risorse per venire a liberarci. O forse si tratta di qualcosa di completamente diverso. Non lo sappiamo. Ma non possiamo più permetterci di aspettare».

«Non potrei essere più d’accordo», disse Jacob.

«Bene, ma non è finita».

A quel punto, Otto prese la parola. «Per quanto ne sappiamo, la retata in Ungheria avverrà a giugno o a luglio. Quando gli ebrei arriveranno qui, non saranno passati in rassegna: “Destra, sinistra”. Scenderanno dai treni e marceranno dritti verso le camere a gas. Come anche tu hai detto a Luc, per questo dobbiamo sbrigarci. Dobbiamo avvertire il consiglio di Budapest di tenere gli ebrei lontani dai treni. Ma il tempo è agli sgoccioli, bisogna fare presto. E ora vorrei confidarti una cosa personale, Jacob».

«Di che si tratta?», chiese il ragazzo.

«Per quasi due anni, dal momento in cui ho messo piede in questo posto maledetto, non ho pensato ad altro che a scappare», disse Otto. «All’inizio era solo un pensiero egoista. Desideravo la mia libertà. Col tempo, però, le cose sono cambiate. Più ho visto cosa accadeva qui dentro, più ho sviluppato dei ragionamenti oggettivi. Volevo scappare per raccontare al mondo cosa stava succedendo ad Auschwitz. Adesso ho una ragione urgente, imperativa. Non si tratta più soltanto di denunciare un crimine. Ora dobbiamo prevenirlo. Un crimine terribile. L’atto del genocidio. Dobbiamo svegliare gli ungheresi. Cambiare il male che è stato causato finora è impossibile. Ma non sarei più in grado di vivere con me stesso se non facessi del mio meglio per impedire il genocidio che è ormai alle porte».

 

Fuga da Auschwitz
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