Cinquantasei

Nei giorni successivi, Jacob cercò di adattarsi a una nuova routine.

Otto e Abe non si erano visti da nessuna parte. Però aveva trovato nuove persone, nuove regole, meno cibo e nuove guardie con altre stravaganze che potevano esplodere all’improvviso. Tuttavia il problema più immediato non erano le guardie. Erano le pulci.

Da quando era arrivato, Jacob si era ritrovato a lottare contro un’epidemia di pulci che stava facendo impazzire tutti i prigionieri nelle camerate. Le minuscole creature erano ovunque. Avevano infestato le lenzuola, i materassi, persino i vestiti. Ogni sera, Jacob si toglieva gli stivali e li usava per schiacciare centinaia di piccoli puntini neri. Invano. Si svegliava tutte le notti perché li sentiva saltellare nelle orecchie, sulle braccia, sulle mani e in faccia: lo morsicavano lasciandolo coperto di macchie rosse.

Abby lo aveva avvertito sulle pessime condizioni di Birkenau, ma lui non era riuscito a immaginare qualcosa di peggiore di Auschwitz. Ora aveva capito.

Se le pulci erano insopportabili, i ratti peggioravano le cose. Erano dappertutto. Spesso Jacob si svegliava per le urla di qualche uomo che era appena stato morso da una di quelle creature parassite. Per assurdo, gli mancava il Blocco 18.

A inasprire la situazione, se possibile, c’era il fatto che la baracca a cui era stato assegnato non aveva un gabinetto connesso o un posto per lavarsi. Quando i prigionieri della sua camerata volevano pulirsi, veniva loro ordinato di spogliarsi e di percorrere diversi metri verso una struttura condivisa, in qualunque condizione meteorologica. Jacob si sentiva umiliato. Per fortuna era ancora settembre. L’aria era secca e non troppo fredda, eccetto la sera. Ma cosa sarebbe successo con l’arrivo dell’inverno?

Jacob aveva fretta di riconnettersi con Steinberger e Frenkel, ma loro non si erano mai fatti vedere. Li aveva incontrati solo quella volta, quindi anche se teneva sempre gli occhi aperti faticava a ricordare che facce avessero. Si era forse scordato qualche istruzione di Abby? Avrebbe dovuto incontrarli, o almeno uno di loro, in un certo luogo e in un giorno specifico? Non credeva, però era preoccupato. Non osava domandare di loro a nessuno. C’erano spie ovunque.

Poco dopo il suo arrivo, Jacob venne assegnato ad altri lavori di costruzione estenuanti. Trascorse il mese di settembre a costruire baracche di legno per le guardie che si sedevano nei campi di coltivazione delle verdure a supervisionare i lavori forzati. Non erano baracche grandi. C’entravano cinque uomini al massimo. Ma li tenevano al fresco nelle giornate afose e asciutti quando pioveva, e Jacob sentiva i nazisti ridere, bere e giocare a carte all’interno.

Gli pesava ogni singolo momento. Era polveroso, sporco, sfibrante. Lui e i suoi compagni sgobbavano per dodici interminabili ore in balia degli elementi. E non stava costruendo qualcosa per i prigionieri. Stava solo rendendo la vita più facile al nemico. Di nuovo, iniziò a perdere peso. E con esso la speranza.

Dov’erano Steinberger e Frenkel? Non avrebbero dovuto prendersi cura di lui? Avevano promesso di dargli da mangiare e trovargli un lavoro all’interno, no? Eppure settembre era passato e non si erano mai fatti vedere. Con l’inizio di ottobre, Jacob venne trasferito ad altri lavori di costruzione. Perché? Forse aveva fatto arrabbiare qualcuno? Forse troppe persone erano morte e avevano bisogno di nuovi schiavi per rimpiazzarle? Qualunque fosse la ragione, passò il mese a coltivare e lavare patate e carote nei campi. Intanto gli venne il timore che il piano di Steinberger e Frenkel fosse stato smascherato da Von Strassen. Magari avevano abbandonato il progetto o erano stati arrestati.

C’era anche un’altra possibilità. E se fossero morti entrambi? Era arrivato il momento di smettere di aspettare e di farsi venire in mente un piano di fuga.

L’unica buona notizia era che il nuovo lavoro agricolo gli permetteva di rubare e mangiare qualche carota e patata di nascosto. Certo, doveva essere prudente. Non poteva permettere che i kapo lo sorprendessero a mangiare, tantomeno le guardie. Non si faceva vedere nemmeno dai compagni che lavoravano con lui. Invece teneva la testa bassa, lavorava fino a scorticarsi le dita e faceva buona impressione sul suo supervisore grazie alla quantità di verdure che raccoglieva ogni giorno. Comunque cercava sempre di non attirare attenzione.

Quando il tempo del raccolto finì, gli venne assegnato un nuovo incarico. Lui e altri tre uomini della squadra che erano più o meno in salute – o almeno non ancora morti – vennero informati che li aspettava un lavoro nella panetteria. Jacob tirò un sospiro di sollievo. Finalmente un lavoro al coperto. Il cambiamento era arrivato proprio al momento giusto, perché a novembre e dicembre le foglie sarebbero cadute e così le temperature. Presto sarebbero arrivate le piogge e la neve.

Quando Jacob si presentò alla panetteria per il primo giorno di lavoro, si chiese per la prima volta in un mese se ci fosse ancora qualche speranza.

Il kapo che lo salutò non era altri che Jean-Luc Leclerc.

 

Fuga da Auschwitz
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