Cinque
Luc finalmente crollò poco dopo le quattro del mattino.
Si sarebbe alzato presto. Appena il sole fosse salito oltre le colline boscose dietro casa loro, lui e Claire avrebbero dovuto prendersi cura delle figlie e preparare la colazione per gli ospiti.
C’erano così tante cose da fare, da decidere. Quanto si sarebbero fermati? Certo non potevano tornare a Sedan, però potevano rimanere lì? Monique e Jacqueline sicuramente sì. Ma come avrebbero fatto a sfamare e ospitare gli altri? Magari qualcuno aveva parenti in qualche città più sicura della Francia e poteva raggiungerli. Ci sarebbe voluto del tempo per organizzarsi, comunque era pur sempre un punto di partenza. Ma adesso era tardi. Lui e Claire erano esausti, avevano bisogno di riposare.
Dormire però non era destino. Perché appena chiusero gli occhi vennero svegliati da qualcuno che bussava forte alla porta d’ingresso. Si morsero le labbra e si rimisero in piedi. Si infilarono la vestaglia e le ciabatte e si chiesero – sussurrando per non svegliare gli altri – chi potesse essere a un’ora simile. Luc pensò al pastore Chrétien o al pastore Émile – suoi colleghi alla chiesa – o forse al sindaco, venuto a controllare se avevano bisogno di qualcosa. Forse avevano sentito la notizia dell’invasione del nord della Francia alla radio? Claire non era convinta. Perché dovevano passare a quell’ora? Avrebbero almeno aspettato il sorgere del sole, no? Nessuna persona sana di mente avrebbe bussato in quel modo nel cuore della notte a meno che non si fosse trattato di un’emergenza, insistette Claire. E se fosse stata la polizia o addirittura l’esercito?
I colpi continuavano. Temendo che gli ospiti venissero svegliati dal fracasso, la coppia si precipitò all’ingresso.
Aprirono la porta e la scena che si trovarono davanti li lasciò sbalorditi: nel portico non c’erano né i pastori né il sindaco, bensì un’intera famiglia. Il padre sembrava sui cinquant’anni. La madre non era molto più giovane, e i tre bambini – due maschi e una femmina – non sembravano avere più di quindici o sedici anni. Luc non li aveva mai visti prima. Non aveva mai visto nessuno come loro, non da quelle parti. Il padre aveva una barba lunga, ben curata e mezza grigia. Portava un abito nero e un cappello di feltro nero, una camicia bianca e scarpe lucide nere. La madre indossava una camicia blu scuro e una gonna nera che le arrivava alle caviglie, e un foulard di seta le copriva la testa. Anche i bambini erano vestiti piuttosto bene. Insieme sembravano pesci fuor d’acqua, lì sul portico della cascina prima dell’alba. Ma la cosa più spaventosa non erano i loro abiti, bensì il terrore nei loro occhi.
«Monsieur Leclerc?», chiese il padre, la voce stanca e roca.
«Sì, sono io», rispose Luc. «Ci conosciamo?»
«No, ma mi chiamo Léon Halévy. Conosco suo fratello a Bruxelles».
«Conosce Philippe?», chiese Luc stupefatto.
«Certo, e Mauriel e il piccolo Simon».
«Stanno bene? Dove sono adesso?»
«Non lo so», rispose il signor Halévy. «Siamo ebrei. Mio padre possiede il palazzo dove suo fratello e la famiglia vivevano in affitto. Quando è morto qualche anno fa, ha lasciato a me l’immobile. Sono diventato il padrone di casa. Conosciamo la loro famiglia da anni. Ma quando si è diffusa la voce dell’incombente invasione nazista, qualche settimana fa, ci siamo preparati a scappare. Abbiamo implorato Philippe e Mauriel di unirsi a noi. Loro sono, per così dire, la più cara coppia di amici “non ebrei” che abbiamo. Ma non credevano che Hitler avrebbe osato tanto. Li abbiamo scongiurati. “Venite con noi. Non c’è più tempo”. Si sono rifiutati. Temevo di non poter attendere oltre. Lo scorso martedì abbiamo lasciato la città. Abbandonare gli amici e la casa ci ha spezzato il cuore, però non potevamo rischiare che i tedeschi ci catturassero. Abbiamo sentito che stanno mandando gli ebrei in campi di lavoro in tutta l’Europa».
Luc guardò Claire. Non riusciva a credere alle sue orecchie, eppure il racconto era verosimile. Erano mesi che scriveva al fratello, insistendo affinché portasse la sua famiglia a Le Chambon. Ma come Monique, Philippe non voleva sentire ragioni. Diceva che non aveva il tempo per leggere il manifesto di Hitler, il Mein Kampf. Non era un “uomo politico”, aveva risposto. Non aveva tempo da sprecare con i pettegolezzi su un’eventuale invasione. Era un maestro di violino. Aveva le sue classi, lezioni e studenti a cui pensare.
Luc domandò come avessero fatto a raggiungere Le Chambon.
«Suo fratello parlava sempre di lei», rispose il signor Halévy. «E anche di questa piccola cittadina. La adorava e ricordava con affetto la sua infanzia qui. Quando siamo partiti da Bruxelles ci siamo diretti verso la Svizzera, lì però non conoscevamo nessuno. Poi a mia moglie è venuta in mente Le Chambon. Ha pensato che forse qui potevamo trovare rifugio. Ecco perché siamo venuti. Per favore, potreste ospitarci almeno finché non capiremo cosa fare?».
Luc si irrigidì. Voleva rispondere di sì. Non immaginava di dire il contrario, a nessuna famiglia in fuga dai nazisti, specie agli amici di Philippe e Mauriel. Tuttavia non osava guardare Claire. La casa era piena. Già non sapevano come occuparsi di chi stavano ospitando. La moglie doveva sentirsi abbastanza carica di lavoro, e ora anche questo? Non era giusto nei suoi confronti. Suo malgrado, avrebbe dovuto dire di no. La loro casa non era un centro per rifugiati, stavano solo offrendo un letto ad alcune persone per qualche giorno. Ecco tutto.
Ma prima che proferisse parola, Claire intervenne. «Certo che potete stare con noi, signor Halévy. Entrate, vi prego».