Nove
«Rimani qui», ordinò Avi saltando fuori dalla macchina.
«Perché? Dove vai?», chiese Jacob. Negli occhi dello zio c’era un’angoscia che non aveva mai visto.
«Non ti muovere», insistette. «Se sei in pericolo, corri a casa. Non preoccuparti per me. Ti troverò». Sbatté la porta e si precipitò verso la folla.
Cosa stava succedendo? Suo zio non aveva intenzione di salvare Herr Berger, vero? Avi era disarmato. Loro erano troppi. Sarebbe stato un suicidio. Jacob uscì dall’auto e lo inseguì, lo prese per un braccio e lo obbligò a voltarsi. «Zio, fermati!», disse.
«Torna in macchina», ribatté lui.
Lì vicino gli sembrò di sentire altri vetri frantumarsi, e quando si girò vide un gruppo di adolescenti non molto più grandi di lui con gli occhi fuori dalle orbite, che gettavano porcellane, lampade e altri oggetti di valore da una finestra al secondo piano di una palazzina. Era l’appartamento di Frau Lowenstein, la vedova in lutto del rabbino Lowenstein, deceduto di recente per un attacco di cuore.
«Ammazzate gli ebrei! Fateli fuori tutti!», gridavano.
«Torna in macchina, Jacob!».
«No, zio, dobbiamo andarcene dalla strada. Dobbiamo…».
«Non lo ripeterò un’altra volta», disse Avi, la voce bassa e determinata. «Torna in macchina subito».
«Ti supplico, non farlo», lo implorò Jacob.
«Non vuoi che provi a salvare la vita di quell’uomo?», chiese lo zio, l’espressione un misto di rabbia e delusione.
Jacob non sapeva cosa rispondere. Non voleva sembrare freddo o insensibile. Non era una persona cattiva o senza cuore. Certo che provava compassione per Herr Berger e anche per Frau Lowenstein. Ma nessun sentimento era più forte del terrore assoluto di quel momento. E nemmeno della certezza che se non avesse fermato lo zio dal compiere quel gesto folle sarebbero morti entrambi nel giro di qualche minuto.
«Per favore zio, portami a casa», disse Jacob alla fine, abbassando lo sguardo agli stivali.
«No, rispondi», ringhiò lui, prendendo il nipote per le spalle e obbligandolo a guardarlo. «Stai dicendo davvero che non faresti lo stesso?».
Jacob provò a distogliere gli occhi ma lo zio non glielo permise. Tremava, gli veniva da piangere. Odiava litigare. Non riusciva mai a difendersi e si sentiva in imbarazzo. Temeva che da un momento all’altro la folla avrebbe smesso di accanirsi contro Herr Berger e si sarebbe diretta altrove per sfogare la propria rabbia contro nuove vittime.
«Non… io…», balbettò, confuso e sconfitto. «Mi dispiace, zio. Io… non lo so…».
Abbassò un’altra volta lo sguardo. Si aspettava quasi di ricevere uno schiaffo, di essere riportato di peso alla macchina e chiuso dentro. Poi però accadde qualcosa che non si aspettava.
«A dire il vero, Jacob, lo sai eccome», disse Avi allentando la presa sulle spalle del ragazzo, la voce ora gentile e tenera. «Non hai forse appena cercato di salvare la mia?».
Jacob alzò la testa, ma prima che potesse rispondere sentì una voce chiamarli da dietro un portone. Una voce vicina, familiare. Non si era accorto che ci fosse qualcuno.
«Herr Mueller?», disse Avi, strizzando gli occhi nell’oscurità. «È lei?»
«Venite dentro, stupidi», sibilò la voce.
Avi ubbidì al vecchio e Jacob lo seguì, spostandosi dalla strada ed entrando nella panetteria dell’uomo.
Davanti a loro c’era Herr Mueller. Era pallido come un fantasma. «È successa una cosa», disse il panettiere. «Una cosa tremenda».
«Lo sappiamo, Herr Mueller», rispose Avi. «Abbiamo appena visto quella gente e…».
«No, no, qualcosa di peggio», continuò l’uomo. «Di indicibile».
Gli tremavano le mani. Aveva la fronte coperta di gocce di sudore, gli occhi rossi, lucidi e quasi assenti.
«La città intera», disse con voce tremante. «Sono tutti impazziti. Hanno appiccato il fuoco alla sinagoga. Stanno attaccando i negozi, le attività degli ebrei. Picchiano chiunque incontrino lungo il cammino, chiunque sia ebreo. Devo mostrarvi una cosa. Venite. L’ho trascinata dalla strada, dove l’hanno lasciata…», disse con voce rotta.
«Cosa?», chiese Avi. «Cos’è?».
Ma Herr Mueller non riusciva più a parlare. Vacillante, prese Avi e Jacob per un braccio. Li accompagnò dietro il bancone, oltre le casse di dolci, torte e strudel. Oltrepassarono la cucina buia, ogni superficie coperta di un leggero strato di farina e lievito. Entrarono in un magazzino sul retro. Herr Mueller prese una torcia dalla tasca e si voltò verso di loro un’ultima volta, poi accese la luce e la puntò sul corpo di una ragazzina che non doveva avere più di dieci anni.
Jacob sussultò, coprendosi la bocca con la mano destra e facendo un passo indietro. Anche Avi trasalì, ma avanzò verso la piccola per guardarla meglio.
«Cos’è successo?», chiese, la voce tremante.
Il panettiere non rispose.
«È morta?», continuò Avi.
Herr Mueller annuì.
«Ne è sicuro?», insistette Avi, che in quel momento si sentiva paralizzato, incapace di abbassarsi per controllare di persona.
Anche Jacob era rigido come una tavola, immobile, attonito. Lui non aveva bisogno di chiedere chi fosse la ragazza. Anche se era sdraiata a faccia in giù sulle piastrelle sporche del pavimento, immersa in una pozza di sangue, sapeva chi era. Riconobbe il vestito azzurro chiaro decorato con il pizzo, anche se era chiazzato di sangue e strappato. Riconobbe le scarpe di pelle nere. Jacob non vedeva il suo viso, eppure non aveva bisogno di guardarlo. Non voleva guardarlo. Quello era il vestito che Herr Berger aveva cucito a buon prezzo. Quelle erano le scarpe che Frau Bloom aveva ordinato apposta da Monaco. Riconobbe il braccialetto d’oro sul polso destro della ragazzina, perché la mamma glielo aveva regalato per il nono compleanno. Avi si chinò e voltò il corpo della piccola.
D’istinto, Jacob si coprì gli occhi. Poi tolse le mani e rimase senza fiato. L’amara verità era innegabile.
Era sua sorella, Ruth.